a cura del prof. Luigi Casale
Oggi si usa l’espressione “di primo pelo”, molto diffusa, per dire “giovane”, “nuovo del mestiere”.
L’espressione, infatti, proprio questo significa; anche se il pelo o la barba incipiente non c’entrano proprio niente. Ma perché?
Se questa espressione significa “giovane” lo è solo per traslato. Vale a dire grazie ad una metafora (parola che è sinonimo di traslato). Le due parole sono – esattamente – dei “calchi”, cioè una è la copia dell’altra; sempre dal punto di vista della semantica.
Traslato viene dal latino (trans + latum [dove “latum” è uno dei temi del verbo fero=portare]) e significa: portare attraverso, portare di là; quindi traslato = “trasportato”, trasferito.
Metafora è invece di origine greca (metà + phoréō e significa la stessa cosa “trasportato”.
Ciò che è trasportato – secondo il significato delle due parole – da una determinata sfera lessicale ad un diversa sfera lessicale è proprio il significato.
Il parlante che usa una determinata parola, appartenente ad una certa sfera di parole (si dice anche: lessicale), è capace e/o decide, o in maniera autonoma ed originale, oppure, appoggiandosi ad una convenzione già esistente tra i parlanti, di trasferirne il significato ad una realtà che dovrebbe essere indicata con un’altra parola (appartenente perciò ad una diversa sfera lessicale). [Si definisce sfera lessicale un elenco di parole che ruotano tutte intorno allo stesso argomento].
La definizione della metafora, così come l’abbiamo formulata, sembra complessa; ma – mi pare – chiara e completa.
Una più evidente spiegazione ce la darà proprio l’esame della espressione che stiamo esaminando. Se il pelo di cui si parla qui fosse veramente il pelo della barba o altra peluria adolescenziale (come si è portati a credere; e come certamente lo è per chi la lingua è opaca), il significato di “primo pelo” passando all’adolescente che comincia a sperimentare la comparsa e la crescita della barba, andrebbe a significare – in altre parole – giovane o giovanile. In questo caso si parlerebbe del pelo per indicare la persona a cui il pelo appartiene. E già questo comportamento è un esprimersi “per metafora”. Anche se qui è comunque presente un legame logico, cioè un certo rapporto di vicinanza, tra le due realtà a confronto. Le grammatiche dicono “la parte per indicare il tutto”.
Però si dà il caso che il nostro “pelo” (quello della espressione da cui siamo partiti e che usiamo abitualmente, non è il pelo anatomico della specie umana, il quale, se riferito alla barba, indicherebbe l’individuo maschio adulto. Se riferito ad altro pelo indica “che sta crescendo”, maschio o femmina che sia.
Il “pelo”, di cui si parla – veramente (e qui entra la semantica storica) – è il “pilum” dei Romani, cioè il giavellotto, una specie di lancia corta che faceva parte della dotazione del soldato. È solo un caso che anch’esso sia riferito all’uomo, maschio, adulto. Ma – in questo caso: è il caso di dirlo – qui si tratta di un dato di cultura, non di un dato di natura.
I Romani chiamavano “primipìlus” il soldato di prima fila, o il comandante di una unità militare, com’era il centurione. Ma non è escluso neppure che con questa espressione si potesse indicare il soldato appena arruolato (“alle prime armi”, si direbbe oggi; al “primo giavellotto”, avrebbero detto i Romani. In latino: “primpìlus”. E allora – solo per puro caso – le due espressioni, quella antica e quella moderna, quella trasparente e quella ancora opaca, coinciderebbero).
In Cesare, però, e in altri autori il “primipìlus” è il centurione del primo manipolo dei triarii, i veterani: quelli con tre lustri di anzianità e perciò all’ultima ferma, la quarta. Quindi è il comandante dei più anziani, anziano egli stesso.
A conclusione di questa nostra conversazione possiamo notiamo come la trasparenza della lingua rischia di stravolgere completamente il significato dell’espressione.
Comunque resta il fatto che è meglio saperle le cose, che non saperle.
Conoscere è meglio di non-conoscere.