a cura del prof. Luigi Casale
Della lingua napoletana, le poche parole ancora originali, quelle cioè antiche e ancora usate solo in ristretti ambiti sociologici oppure nel ricordo degli ultraottantenni, e che non trovano riscontro nella parlata toscana, abbiamo già visto come esse derivino direttamente o dal latino o dal greco.
Il fatto di avere una discendenza nobile è chiaro segno che sono nate in ambito culturale elitario. Per lo stesso motivo, una volta diffuse, e – modificate – banalizzate nelle parlate locali, esse hanno acquistato il rango di parole dotte perdendo del tutto la loro trasparenza.
Una di queste è “l’effigiata”(l’ho scritta e l’ho letta secondo la lingua italiana).
Non conosco la statistica delle parole più usate, ma pare tuttavia evidente che in condizioni normali la parola “effigiata” (a meno che non sia ricondotta ad una terminologia tecnica) non dev’essere tra le più utilizzate dal parlante comune. Al punto da farla sembrare una “parola dotta”, cioè una parola che interrompendo il suo processo evolutivo, sia stata in seguito recuperata e rimessa in circolazione da parlanti acculturati, nella forma più antica, quella originaria. Nel caso di effigie la forma più antica è la parola latina “effigiem” dal verbo effingo (e+fingo = simulo), che significa immagine, riproduzione, finzione.
Ricordiamo il principio secondo cui “l’arte è finzione”, in quanto riproduzione del reale. Infatti ne è un’immagine.
Ora questa parola, dotta finché vogliamo, è molto diffusa nella parlata napoletana; ma proprio perché se ne è perduto il senso, essa si è rassegnata a divenire una “parola opaca”. Chi la usa, sa di che cosa intende parlare, ma non è in grado di coglierne il vero senso.
Si sente dire: “‘Na bbona ‘ffigiata!” (Una buona sorte). Oppure: “Aggia jucà a ‘ffiggiata”.
E questa è per noi l’effigiata: il gioco del lotto. I novanta numeri della “smorfia” dei quali si scommette l’uscita fortuita, dell’uno o dell’altro, secondo un ordine prestabilito, sia da soli che in combinazioni tra loro.
Allora c’è una ruota che gira la quale fa muovere la cesta (‘a panara) con i 90 numeri, e qualcuno ne estrae progressivamente una serie di 5. Vince chi ne indovina uno o più, a seconda che abbia scommesso sull’ordine di uscita o sulla loro compresenza nella cinquina. L’estratto, l’ambo, il terno, la quaterna, e finalmente la cinquina. Il premio si calcola mediante dei coefficienti per i quali va moltiplicata lo posta giocata.
Questo è il discorso tecnico sul gioco del lotto. Ma per illustrarne l’aspetto culturale della tradizione napoletana, mi rifaccio alla citazione di un mio omonimo. Scrive infatti Gennaro Casale in un articolo sulla commedia “Non ti pago” di Eduardo De Filippo: “Il gioco del lotto […] diffusamente conosciuto, […] a Napoli […] permea la società nel profondo […]. Il popolo napoletano ha un legame privilegiato con tutto ció che trascende il sensibile […]. Il napoletano vive anche con chi non è fisicamente presente: lo percepisce perché ne riconosce la voce negli accidenti, nei fenomeni, nei numeri.”
Ecco la magia dei numeri e il loro potere. Il legame col mondo ultraterreno, fantastico e immaginario, che convive – ma soprattutto interagisce, influenzandolo – col mondo reale e con la vita di ogni giorno. E così tutto diventa numero, tutto è esprimibile e riconducibile in un numero (dei novanta della smorfia).
Ed eccoci arrivati ad un altro nome dell’effigiata: la smorfia. Il libro dei numeri dove ad ogni numero corrisponde un’immagine, la rappresentazione di un oggetto, di un’idea, di un sentimento, di una condizione, fantasiosamente riprodotto in un disegno (effigie).
La smorfia, o che sia la deformazione del volto umano nel ghigno di chi soffre o di chi ci deride, il mascherone della commedia antica (se ipotizziamo la sua derivazione da “morfé” = forma), o che sia l’insieme di tutte le rappresentazioni del reale al fine di ricavarne il numero magico corrispondente, nel caso che la parola (anch’essa “dotta”, anch’essa “banalizzata”, anch’essa “opaca”) sia fatta derivare da Morfeo, nome mitologico del sonno e di conseguenza del sogno (i Romani avevano una sola parola per indicare il sonno e il sogno).
E il sogno, nella coscienza popolare è l’area di contatto tra i due mondi, quello di quà e quello di là. Il posto dove si concretizzano le immagini mentali e dove di conseguenza si sostanziano i numeri.
L.C.