a cura del prof. Luigi Casale
È difficile per un parlante napoletano mantenere la pronuncia della prima “l” nella parola “pulcella”. Come è difficile far pronunciare la r ai cinesi. Allora la parola pulcella alla distanza diviene purcella, e se poi – perdendosene il significato – la lingua si fa opaca, la parola impropriamente viene applicata anche al maschietto che in maniera vezzeggiativo viene detto purciello. Il purciello, crescendo, viene chiamato scherzosamente puorco. Da qui il termine ritorna ad estendersi anche alle fanciulle e diventa porca. Almeno così succedeva nella mia famiglia. Per cui puorco, porca, purciello e purcella erano dei temini affettivi che confidenzialmente i genitori riservavano a tutti noi, specialmente quando dimostravamo sagacia, intelligenza e simpatia.
L’enigma di questo che sembrava un paradosso linguistico solo tardi ce lo svelò zia Rosa, fornendoci la chiave di lettura.
Pulcella (pron. Pulsela) altro non era che pulzella = giovane, vergine. Per cui il termine era indicato in maniera appropriato solo per le ragazze. In seguito l’uso l’aveva generalizzato e poi in qualche modo banalizzato in “porco o purciello”. Ora si capisce anche perché in casa nostra esso era sempre accettato come un complimento affettuoso.
Pulzella (o pulcella) come diminutivo deriva da pullus (pulla), che a sua volta è diminutivo di purus (o pura). Perciò va ad indicare la vergine.