“ ‘O ppane cu’ ‘a tessera ” …e altro ancora!

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

 Dove si narra della necessità di “tirare la cinghia”:

Non nascondo l’imbarazzo che mi coglie quando i cari amici del Libero Ricercatore mi chiedono di parlare di cose e casi che mi hanno visto testimone.
Tutto ciò mi lusinga e mi preoccupa allo stesso tempo. Mi lusinga perché vuol dire che quanto da me raccontato finora ha trovato una gradevole accoglienza e curiosità. E mi convince altresì che le persone non sono mai sazie di apprendere cose delle quali non sono state testimoni e che neanche i libri più accurati possono ricordare.
La preoccupazione invece nasce dalla consapevolezza di non essere sempre all’altezza delle aspettative. Ma per non tradire le interessate curiosità non mi tiro indietro: tanto, alla mia età (ho 87 anni), posso farmi la pipì addosso e dire che è champagne, e nessuno può eccepire. Ormai non ho più nulla da perdere! Allora eccomi a parlare del “ppane cu’ ‘a tessera”.

'O ppane cu' 'a tessera: Tessera per alimenti (Comune di Castellammare di Stabia).

‘O ppane cu’ ‘a tessera: Tessera per alimenti (Comune di Castellammare di Stabia).

A parziale correzione di quanto ho potuto leggere in qualche blog, il razionamento delle derrate alimentari non venne imposto dal regime fascista, perché “fascista”; ma venne adottato durante l’ultima guerra mondiale perché scarseggiavano effettivamente. La maggior parte di quello che si coltivava e si produceva (farina, olio e poi bestiame, uova, ecc.) veniva destinata alle forze armate. Quello che rimaneva (e non era molto) era a disposizione della popolazione civile. Quindi fu necessario razionare per dare a tutti un po’ di tutto.
Un’altra causa, non la principale naturalmente, era la furbizia dei contadini; e mi spiego meglio. Le disposizioni governative prevedevano che tutta la produzione ricavata dalla coltivazione delle campagne doveva essere consegnata all’ammasso. Dietro un dovuto compenso, naturalmente. Cosa era l’ammasso? Non era null’altro che la consegna dei prodotto della terra in appositi magazzini designati dalle autorità. Con quali criteri si stabiliva la quantità di ogni prodotto che il singolo contadino doveva dare all’ammasso non lo so. Ma secondo me doveva essere un calcolo abbastanza complicato. Difatti sovente i contadini, furbescamente, trattenevano abusivamente una parte di quanto da loro prodotto che poi rivendevano privatamente (e a che prezzi!). Nacque così “la borsa nera”. Altro termine oggi poco in uso. E che cosa era? Niente altro che il commercio clandestino di tutto ciò che si poteva vendere e comprare. E, ribadisco, a che prezzi!
A tal proposito mi viene in mente l’atteggiamento tenuto dai cittadini inglesi durante la seconda guerra mondiale. Quando si ebbe notizia che l’esercito tedesco aveva intenzione di sbarcare in Inghilterra, quel Governo invitò i sudditi della regina a mettere a disposizione delle autorità tutti i natanti da loro posseduti. Ebbene, anche il più piccolo dei “vuzzarielli” venne consegnato alle autorità: tutti concorsero a fare causa comune contro il nemico.
E’ vero là governava Churchill, mentre noi avevamo re “sciaboletta” Vittorio Emanuele III° di Savoia (oggi ben rappresentato da un principe ballerino). Questo re “coraggioso e impavido”, in vista della “mala parata”, il 9 settembre del 1943 da Roma scappò gloriosamente a Pescara con tutta la famiglia e i generali dello Stato Maggiore. Lasciando senza guida un esercito sconfitto e sbandato (a tale proposito invito gli amici di rivedersi il bel film “Tutti a casa” con Alberto Sordi).
Allora perché stupirsi del furbesco atteggiamento dei contadini che imboscavano il frutto delle loro fatiche? In proposito mi viene da fare qualche considerazione: avete notato che le guerre più importanti le cominciamo con un certo alleato e le finiamo a “braccetto” con chi all’inizio era il nostro nemico? Avete notato che mentre le guerre le stiamo ampiamente perdendo, alla fine, con delle contorsioni degne del più grande campione di tuffi, le vinciamo?
Questi atteggiamenti alcuni li chiamano opportunismi, altri furbizia, altri tradimenti.

Finora ho descritto la parte seria della storia; a seguire vi racconto una parte curiosa della stessa storia.

Dove si narra della ingegnosità degli italiani e della loro arte di arrangiarsi:

Fino a qualche tempo fa (ora non so) molti terreni cittadini adiacenti le linee ferroviarie erano di proprietà delle FF.SS. Gli stessi venivano affidati ai dipendenti che intendevano coltivarli ad orto. Durante l’ultima guerra molti di questi orti venivano abbandonati da chi si era preso l’incarico di coltivarli. I motivi dell’abbandono erano i più vari e che è inutili indicarli qui.
Il mio futuro suocero, ferroviere, che era d’origine contadina, si prese cura di quasi tutti quei terreni abbandonati che erano adiacenti al suo, formando così un appezzamento abbastanza vasto. Pensò quindi di coltivarlo a grano e farsi il pane in casa, per uso e consumo della propria famiglia e dei parenti più stretti. Per realizzare il suo progetto occorrevano gli attrezzi adatti. Ma poiché il proverbio che dice “Contadino scarpe grosse e cervello fino” è quasi sempre vero, non si perse d’animo e se li costruì da sè: l’aratro, il setaccio, il frantoio e infine il forno. Naturalmente tutto in misura mignon, cioè proporzionati all’estensione del terreno da coltivare e dal non cospicuo raccolto. Mancavano soltanto le sementi e la bestia (nella fattispecie il bue) per tirare l’aratro. Le prime gliele fornivano i suoi parenti, contadini veri e propri; per la seconda avendo forse dei problemi a mettersi in casa un pio bue, chiese la collaborazione di un suo collega: questo tirava e lui spingeva l’aratro. La produzione finale veniva divisa in due.
Ma tutto questo non bastava ancora: per arricchire la terra occorrevano i concimi. Dove procurarli, se non si disponeva di quelli chimici? Anche qui nessun problema, il suo geniaccio ne pensò un’altra.. Come potete immaginare allora i principale mezzi di locomozione non erano le automobili, ma carri e carrozze trainati da cavalli, da ciucci e da bovini. Queste bestie avevano anche loro le esigenze che hanno tutti gli essere viventi e quindi, non essendo educati, queste esigenze le distribuivano lungo le vie e i corsi cittadini. Quindi lui si procurò un triciclo col cassonetto davanti che modificò appropriatamente. Incernierò la sponda anteriore e azionandola con un tirante la abbassava o la tirava su, sempre pedalando, senza mai scendere dalla sella. Quindi quando avvistava un carro o una carrozza ci si piazzava dietro pensando “queste benedette esigenze prima o poi si debbono appalesare!” e con pazienza seguiva e aspettava il momento propizio. Quando l’evento si verificava lui era lì pronto: abbassava la sponda raccoglieva il tutto e, compiuta l’opera la tirava su, continuando a pedalare vigorosamente. Ed ecco il concime naturale bello e pronto.
Da notare che questo ometto aveva studiato soltanto fino alla seconda elementare. Scherzando diceva: “I miei libri se li sono mangiati le vacche”, per significare che da piccolo il suo compito in famiglia era quello di portare al pascolo queste bestie mansuete.


P.S.: Approfitto dell’occasione per ringraziare quei i miei concittadini che, chi pubblicamente chi privatamente, hanno espresso benevolmente il loro giudizio sui miei scritti, non so, senza falsa modestia, quanto meritevoli. Fra loro le gentili Signore Vollono e Amendola, il dott. Del Gaudio, il sig. Enzo Cesarano, il sig. Lino, il caro Enrico Discolo, il naturalista amico, Gaetano Fontana e tutti gli altri che, scusandomi, forse ho dimenticato. Vi abbraccio tutti cari amici stabiesi.

Gigi Nocera

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