Ricordi giovanili di uno stabiese

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Breve premessa dell’autore:

Caro Maurizio, in questi giorni si celebra la Festa della Liberazione. Nel raccogliere i ricordi relativi ai primi 6 – 7 anni del mio “esilio” in Patria sono compresi anche quei giorni felici della fine della guerra e del riscatto nazionale. Se ritieni che questi ricordi possano interessare i lettori di Libero ricercatore puoi pubblicarli. In allegato ho aggiunto la copia dell’attestato che il Comando Alleato consegnò a tutti i partigiani che avevano partecipato alla guerra di Liberazione. Un abbraccio, Gigi.
gigi nocera

gigi nocera

Prendendo spunto della biografia del marinaio Mario Cascone (mio coetaneo. Lui è nato il 22 io il 18 febbraio del 1923) pubblicata dal Libero Ricercatore nei mesi scorsi mi sono detto: poiché anche io ho vissuto intensamente e non banalmente quel periodo che va dal 1937/1938 al 1945/1946, con in mezzo la seconda grande guerra, perché non lasciare traccia delle mie a volte ridicole e a volte anche tragiche avventure? Se il buon Maurizio avrà la bontà di pubblicare questo scritto, molti giovani di adesso si faranno una idea di come hanno vissuto coloro che allora erano giovani, come lo sono loro adesso.

Sono nato a Castellammare il giorno citato più sopra, in un appartamento che s’affacciava sulla Piazza dell’Orologio e le prime cose che hanno visto i miei occhi sono stati la torre dell’orologio, il mare ed il Vesuvio; vi pare poco?
Questa piazza è stata la palestra dove mi sono allenato per diventare uomo. Vi ho trascorso la fanciullezza e la prima giovinezza. Poi il destino mi ha portato molto lontano da quel luogo, che è rimasto sempre nel mio cuore, e nei miei occhi sono rimasti ancora quella torre, quel mare, quel Vesuvio. Dopo aver fatto le scuole medie Bonito, l’ultimo anno che sono rimasto a Castellammare ho frequentato la Scuola allievi operaio i cui corsi si tenevano presso il Regio Cantiere Navale: al mattino si studiava in aula e al pomeriggio si faceva pratica in cantiere per imparare un mestiere. Non ricordo se fu mio padre o io a scegliere di fare il saldatore elettrico.
Questa scelta fu la mia fortuna, perché (il come lo scopriremo in seguito) mi evitò di finire in campo di concentramento tedesco, o addirittura in un Lager nazista e magari finire col mangiare l’insalata dalla parte delle radici…
Nel 1938, a seguito di una promozione, mio padre che era ferroviere venne trasferito a Torino. E qui sbarcò la famiglia Nocera il giorno 8 settembre 1938. Peggiore accoglienza il tempo meteorologico non poteva riservarci: un cielo plumbeo, basso, una uggiosa fredda pioggerellina che non bagnava soltanto i panni che avevamo addosso, ma ci penetrava fin nell’animo… Una pioggia triste, monotona, noiosa, che avrebbe fatto piangere anche il clown più allegro di questo mondo. Cercate di immaginare lo stato d’animo di chi poche ore prima aveva lasciato il sole, il mare, il Vesuvio …e la torre dell’Orologio! Trascinando le nostre valige percorremmo poche centinaia di metri per raggiungere l’abitazione di un collega napoletano di mio padre. Dalla famiglia di questa brava persona venimmo accolti con simpatia e calore. Ivi dimorammo per 3 – 4 giorni finché non giunse il carro ferroviario da Castellammare con i mobili che dovevano arredare la nostra nuova residenza.
Mio padre, anche se distratto dai suoi impegni di lavoro, si preoccupava dello stato malinconico di mia mamma e delle mie due sorelline. L’unico che cercava di sollevarlo da queste preoccupazioni ero io che, ottimista come ero e sono, intuivo che il futuro della nostra famiglia avrebbe avuto sbocchi certamente favorevoli. Dalle condizioni effettivamente negative che dovevamo superare (l’ambiente nuovo, il dialetto, le persone estranee e la situazione economica precaria io ne traevo stimoli positivi;. non so se per intuizione, per l’ottimismo inveterato o per incoscienza.
La tristezza di mia madre derivava anche dal fatto che a Castellammare avevamo lasciato mio fratello maggiore, Andrea. Aveva un buon impiego nel Cantiere Navale ed ai miei genitori dispiaceva fargli lasciare quel posto. Anche perché i propositi erano quelli di tornare nella nostra città dopo 4 – 5 anni. Poi venne la guerra e… lo stipendio che mio padre percepiva non era sufficiente per mantenere una famiglia numerosa in una grande città. Prendeva 700 lire al mese e ne pagava 300 di affitto. Di conseguenza mi fece il seguente discorso: “Giggì sulo cu ‘o stipendio mio nun c’ha facimmo. Quindi nun te pozzo fa studià e ti a’ truvà ‘na fatica” (mi sia permesso un inciso relativo a certi modo di dire, avete notato che noi campani diciamo: “Vaco a faticà”, mentre in tutta l’Italia dicono: “Vado a lavorare”? Forse perché per noi il lavoro è veramente una fatica?. No! Anzi lo cerchiamo dove è possibile trovarlo, come testimoniano le lettere a questo sito provenienti da nostri concittadini sparsi per il mondo e quando ci mettiamo d’impegno non siamo secondi a nessuno). Io il lavoro lo trovai, non senza aver vissuto una tragicomica trafila. Ecco i fatti. Molto vicino a casa mia esisteva uno stabilimento della Fiat. Un bel giorno mi presentai chiedendo di essere assunto come saldatore. L’impiegato addetto alle assunzione mi chiese: “Sei capace di fare il capolavoro?”, e qui nacquero le prime difficoltà di cui dicevo prima dovute a certi modi di dire locali. Nella mia ingenuità di quindicenne, per me il capolavoro era il Mosè di Michelangelo, un quadro di Raffaello, ecc.. Invece non era altro che una semplice prova pratica; ma io non sapevo che qui questa prova si chiamasse capolavoro. Naturalmente la mia risposta fu “No! Non lo so fare”. Al che l’impiegato che mi aveva rivolto la domanda rispose: “Allora che ci sei venuto a fare!?”. E cu ‘na man’annanza e nata ‘a reto” me ne tornai a casa mortificato come un cane bastonato. Ma l’umiliazione più forte la subii da mio padre, che a sera tornato dall’ufficio mi chiese: “Allora, ch’he fatto”. Finito di raccontargli come erano andate le cose mi aggredì con una caratteristica e offensiva espressione dialettale che per me fu come una scudisciata in viso: “Allora sì ‘nu Ddio ‘e strunzo!!”. Pur comprendendo la sua delusione perchè vedeva allontanarsi una eventuale entrata finanziaria, tanto necessaria in quel momento, quella offesa e quella invettiva me la porto ancora nel cuore; senza alcun rancore però, anche perché quella fu l’unica offesa e umiliazione che ho subito da mio padre in tutta la mia vita. Ripresentatomi il giorno dopo alla Fiat chiarii l’equivoco e mi dichiarai disposto a fare questo benedetto capolavoro che consisteva poi nel saldare assieme due pezzi di lamiera. Naturalmente tutto andò bene e il 3 ottobre del 1938 (all’età di 15 anni e mezzo!) dopo appena 25 giorni dall’arrivo a Torino divenni ufficialmente un dipendente Fiat; e lo sono rimasto per 41 anni, fino al 1979. Naturalmente non sono rimasto sempre operaio. Finita la guerra mi rimisi a studiare spinto dal dolce, ma tenace incoraggiamento di una brava e bella ragazza torinese conosciuta in un rifugio antiaereo durante un bombardamento. Conseguii così il diploma di geometra presso uno degli istituti tecnici più severi della città. Superfluo dire che quella ragazza piemontese, concreta e positiva, come lo sono le persone di terra, unì il suo destino ad un fantasioso, dinamico e irrequieto uomo di mare, e per giunta stabiese. Il titolo di studio, unito all’impegno, ai sacrifici e alle capacità, mi permise di raggiungere sul posto di lavoro una discreta posizione gerarchica.
Contemporaneamente alla quasi raggiunta tranquillità economica la mia famiglia cambiò vita ed abitudini. Ricordo ancora quando mio padre mi comprò per la prima volta in vita mia un bellissimo vestito nuovo. Ciò voleva dire non indossare più i vestiti dismessi da mio nonno e voltati e rivoltati diverse volte per adattarli al mio fisico di un non più adolescente e non ancora giovanotto. Nel frattempo, il 3 maggio del 1939, nacque l’ultima delle mie sorelle al quale fu imposta il nome di Alba: alba come l’inizio di un nuovo giorno che la mia famiglia si preparava ad affrontare.
La nostra vita trascorreva tranquilla. Un paio di volte all’anno venivamo a Castellammare a trovare parenti ed amici e naturalmente mio fratello. Ciò fino al 1942. Poi per via degli eventi bellici i periodici ritorni al nostro paese cessarono del tutto.
Nell’Aprile del 1943 venni chiamato a fare il militare nella Regia Marina e dovetti presentarmi alla caserma di La Spezia , dove arrivai nella tarda mattinata del giorno 20. La visita medica era prevista per il giorno dopo, ma durante la notte un bombardamento aereo degli anglo-americani distrusse metà della caserma. Per fortuna, appena suonato l’allarme ci rifugiammo dentro le gallerie ferroviarie che attraversavano la città. Al rientro, in piena notte, con la caserma mezza distrutta non trovai di meglio che rannicchiarmi e addormentarmi in uno di quei cestoni che usano i panettieri: mai culla fu per me più morbida ed accogliente tanta era la stanchezza e la tensione che avevo addosso. Il mattino dopo, essendo impossibile il controllo medico, fui mandato alla caserma di Venezia dove dopo qualche giorno venni sottoposto alla rituale visita medica. Alla domanda del medico militare se ero affetto da qualche malattia risposi che “avevo il soffio al cuore”. Non era vero nulla! Ma in quel momento mi ricordai che ero “Nu figlio ‘e sfaccimmo” e inventai li per li questa malattia. Penso che a nulla sarebbe servita questa bugia se non ci fosse stata la compiacenza del medico che, dopo una sommaria visita, mi dichiarò rivedibile. Ciò voleva dire che mi avrebbero richiamato l’anno dopo per una nuova visita.
Per poter comprendere meglio i miei successivi comportamenti e le mie decisioni è necessaria una sommaria cronistoria degli avvenimenti politici e militari accaduti dopo il 25 luglio del 1943.
Nella notte tra il 24 e 25 si riunì il Gran Consiglio dei Ministri e il capo del Governo era Benito Mussolini. Le sorti della guerra erano ormai segnate: gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e si dirigevano verso Roma; i bombardamenti aerei e navali, anche sulle città, oltre a distruggere impianti militari provocavano molti morti fra la popolazione civile. La quale era sottoposta anche a grossi sacrifici per mancanza di cibo: era quindi naturale che tutto ciò ne fiaccasse anche il morale. Le autorità conoscevano benissimo questo stato d’animo dei cittadini che ormai apertamente esprimevano la loro sfiducia verso i governanti ed il regime fascista. Per salvare il salvabile uno dei più abili e subdoli gerarchi fascisti, Dino Grandi, prese l’iniziativa di presentare al Gran consiglio dei ministri un ordine del giorno di sfiducia a Mussolini. La maggioranza lo approvò e il Duce fu costretto alle dimissioni. Il tutto fu ordito con l’avallo del re non solo per cacciarlo, ma per arrestarlo. E ciò avvenne puntualmente quando si presentò dal sovrano per annunciargli le sue dimissioni. Caduto Mussolini anche il regime dittatoriale fascista praticamente si sciolse e il re nominò il Maresciallo Pietro Badoglio capo del Governo. Questo re che aveva avallato tutte le iniziative e le leggi emanate dal fascismo (anche le più odiose come quelle che perseguitavano gli ebrei) agì in questo modo per cercare di salvare la sua dinastia dal disastro che si profilava; tanto è vero che nel successivo mese di agosto scappò da Roma per rifugiarsi a Pescara con tutta la sua famiglia e con quei pochi generali che gli restavano fedeli. Seguì uno sbandamento generale dell’esercito italiano, praticamente senza capi e senza direttive: il desiderio dei militari di ogni ordine e grado in quei giorni era racchiuso in una sola frase “Tutti a casa…”.E l’Italia rimase senza esercito. Anzi, no: di eserciti ne ebbe poi due, anche se di poca sostanza, entrambi alle dipendenze di altri. Difatti, l’8 settembre di quell’anno, Badoglio con la nostra nota abilità nel “triplo salto mortale”, abbandonò l’alleanza con i tedeschi e si appoggiò agli Alleati anglo-americani che ormai avevano occupato tutto il meridione d’Italia. A disposizione di costoro mise un piccolo esercito, di poca sostanza, come ho detto, e senza autonomia. Il nord, diciamo al di sopra della “linea gotica” come fu denominata quella linea ideale che andava all’incirca dai confini settentrionali del Lazio alle Marche. Era occupato dai tedeschi: alle loro truppe si alleò un piccolo esercito improvvisato dai fascisti dopo aver creato la Repubblica sociale, detta anche repubblica di Salò perché in questa cittadina del lago di Garda, Mussolini, nel frattempo liberato dai nazisti, aveva stabilito il suo governo: a questo punto l’Italia era divisa in due, occupata da due eserciti stranieri.
In base al responso della prima visita medica che mi dichiarava rivedibile, l’anno successivo e cioè nel 1944 dovevo essere richiamato per un nuovo controllo medico. Cosa che avvenne puntualmente verso la fine del mese di giugno del 1944, Dovetti recarmi quindi all’ospedale militare di Mirano Veneto in provincia di Venezia. Dopo qualche giorno di attesa fui sottoposto al controllo medico; qualche ora prima, però, per fare aumentare i battiti del cuore e far così convalidare la diagnosi dell’anno prima, salii di corsa tre o quattro volte le scale dell’ospedale. Ma a nulla sarebbe servita anche questa volta questa puerile e maliziosa furbata se il colonnello medico che mi visitò non ci avesse messo del suo. Penso infatti che fosse avverso al fascismo, che nel frattempo, come detto, al nord della linea gotica aveva formato un nuovo governo, alleato dei tedeschi. Venni quindi riformato definitivamente dichiarandomi non idoneo al servizio militare.
I responsabili dell’ospedale mi fornirono un foglio di viaggio affinché potessi ritornare a Torino. Ed iniziò così un tribolato e avventuroso cammino verso casa. A un certo punto fu proprio un cammino, dal verbo camminare “andare da un luogo ad un altro con le proprie gambe”. Ecco cosa capitò. Nel mentre il treno partito da Venezia si avvicinava a Verona gli aerei anglo-americani bombardavano questa città. Quindi anche la linea ferroviaria risultò gravemente danneggiata, giocoforza quindi fu deciso di fermare il treno qualche km prima della città in aperta campagna. Tutti i passeggeri furono costretti a scendere e dopo una lunga sosta sotto il cocente sole di luglio il capotreno ci informò che per chi doveva proseguire oltre, la prima stazione agibile era quella di Sommacampagna, una ventina di Km oltre Verona, verso Milano. A me quindi non restò che fidarmi delle mie gambe e, pedibus calcantibus, mi avviai, un poco per le strade ancora percorribili e un poco attraverso sentieri e strade di campagna, verso questa cittadina. Non ricordo quando tempo ci impiegai a percorrere quei quasi 20 Km , ricordo bene però che feci una scorpacciata di mele che raccoglievo direttamente dagli alberi mentre percorrevo l’aperta campagna. Arrivato in stazione, stanco e marcio di sudore, mi gettai lungo disteso sulle panche di legno della terza classe e dormii fino a Milano. Con un altro treno in serata raggiunsi finalmente casa mia a Torino. E da questo momento iniziò il periodo più avventuroso e pericoloso della mia vita. Attraverso la sollecitazione di alcuni miei compagni di lavoro e con la spinta definitiva dei sentimenti antifascisti che nutrivamo in famiglia, entrai a far parte delle formazioni partigiane SAP (Squadre d’Azione Patriottiche) organizzate dal Partito d’Azione. Iniziò così la mia vita di semi clandestino. Rientrato in Fiat dopo la parentesi, diciamo così, militar-infermieristica, ripresi a fare il saldatore. Facevo i turni di notte, dalle 10 di sera alle 6 del mattino. Dopo aver dormito fin verso le 12, nel pomeriggio io ed i miei compagni Nibbio e Gino ci dedicavamo alla nostra missione di “banditi”, come i fascisti ed i tedeschi chiamavano i partigiani. Non mi dilungo a descrivere tutti i fatti cui fummo protagonisti in quel periodo che va dall’autunno del 1944 alla primavera del 1945. E fu in seguito ad uno di questi fatti che la morte mi passò vicino, ma evidentemente non era ancora la mia ora. Da allora questa signora non mi fa più paura: la esorcizzo parlandone senza ambascia. Tanto sono i casi della vita di ognuno di noi a determinarne il destino. Ricordate che all’inizio ho detto che scegliere di fare il saldatore elettrico fu la mia fortuna? Un’altra mia fortuna fu che in quel periodo in fabbrica ero addetto alla costruzione di autoblindo militari. Proprio perché facevo questo lavoro fui munito da un lasciapassare rilasciato dai tedeschi. Chi era in possesso di tale documento godeva di una specie di immunità, cioè non poteva essere fermato perché addetto alla “produzione bellica”. Questo tesserino era comunemente detto il bilingue perché redatto in tedesco e in italiano.
Ed ecco i fatti: a circa 1000 metri dalla mia abitazione vi era una caserma occupata dalle “Brigate nere”, reparti militari fascisti cha davano la caccia ai partigiani. Un giorno, al mattino presto, questa caserma fu oggetto di un attacco dei patrioti con lancio di bombe a mano oltre il muro di cinta. Fra i fascisti vi furono dei morti e dei feriti. Nei pressi di questo immobile passava una linea tranviaria che faceva capolinea proprio sotto casa mia. In quella sera d’autunno del 1944, da un borgo posto alla parte opposta della città, stavo tornando a casa perché poi dovevo recarmi al lavoro alle 22. E presi quindi quel tram. Giunto nei pressi di questa caserma fu bloccato dai fascisti che fecero scendere tutti gli uomini, giovani e vecchi. Davanti erano fermi altri 4 – 5 tram anch’essi bloccati in precedenza e svuotati da tutti i maschi che erano in attesa ammucchiati in un angolo del Corso. Eravamo circa 2-300 uomini che incolonnati disordinatamente e scortati dalle “Brigate nere”, armati fino ai denti, venivamo portati dentro la caserma. Insomma eravamo quasi dei prigionieri. Come ho detto la zona era vicino casa mia e la conoscevo molto bene. Sapevo che adiacente al muro di cinta esisteva uno dei pochi distributori di benzina di Torino, mezzo diroccato perché danneggiato dai bombardamenti. Il buio era molto fitto in quanto le disposizioni delle autorità prescrivevano che dalle abitazioni e dai luoghi pubblici non doveva filtrare della luce per non dare punti di riferimenti ai bombardieri “nemici”, per cui balconi e finestre erano oscurato con tende o con fogli di giornali: quindi buio assoluto. Questa circostanza mi fece fare un ragionamento errato che quasi mi costò la vita. Mentre incolonnati disordinatamente ci avvicinavamo alla caserma io pensai: “Arrivati nei pressi del distributore mi nasconderò dietro il gabbiotto diroccato. Chi mi può vedere?” Ragionamento fallace ed imprudente. Fallace perché non calcolai quello che poi avvenne da lì a un momento; imprudente perché addosso, nascosti dentro un giubbotto chiuso a vita avevo una pistola e dei volantini propagandistici avversi alla guerra, ai tedeschi ed ai fascisti. Giunto ad appena 4 -5 passi dal gabbiotto pensai: “Questo è il momento”. In quel preciso istante si accesero tutti i fari della caserma, illuminando a giorno tutta la zona: sembrava mezzogiorno! Conclusione della favola: vivere o morire fu questione di un attimo. Perché se sorpreso a nascondermi i fascisti mi avrebbero bucherellato come un colapasta. Ma il pericolo per me non era ancora passato. Come liberarmi della pistola e dei volantini? E qui mi venne in aiuto la furbizia dei napoletani arricchita dalla mia vita di scugnizzo che dalla strada aveva appreso malizie e, diciamo pure, coraggio e incoscienza. Mentre questo gruppo di 2 – 300 persone si accalcava per le scale della caserma, stretti l’uno all’altro, urtandosi e spintonandosi per raggiungere una grande camerata al secondo piano io con cautela, senza farmi notare, furtivamente lasciai cadere prima la pistola poi i volantini. Così, mio malgrado, portai in casa del nemico la voce dell’opposizione al regime fascista. Roba da scena comica! Ma la situazione era tutt’altra che comica: Stava per diventare tragica! Difatti dopo un paio d’ore che stavamo radunati in questo enorme stanzone giunse il Comandante e con la rabbia nella voce disse: “Fra di voi ci sono dei banditi: Che vengano fuori altrimenti vi fuciliamo tutti”. Naturalmente chi doveva dichiararsi ero io, ma me ne guardai bene dal farmi avanti. Tanto erano soltanto minacce, senza concretezza.
Passammo tutta la notte in questo stanzone, assonnati e ansiosi di conoscere la nostra sorte. Al mattino presto ci addossammo ai finestroni per vedere cosa capitava fuori. Molti familiari si erano schierati sul viale di fronte in attesa di notizie dei loro cari che erano stati rastrellati. Io vidi mio padre che inutilmente cercava di individuarmi. Il quale, nel frattempo, si era già recato all’ufficio personale dello stabilimento dove lavoravo per informarli della mia situazione. Conosciuta la mia posizione il capo del personale, il rag. Tabucchi, venne in caserma e fece presente al comandante il mio impiego alla produzione bellica, facendo riferimento proprio a quel lasciapassare che impediva il mio fermo. Nel giro di una mezz’oretta ero fuori, libero……….!
Ora è chiaro perché all’inizio ho parlato di fortuna quando scelsi di fare il saldatore.
Del periodo successivo, fino al 25 aprile del 1945, ci sarebbero tante altre cose da raccontare, ma qui mi fermo per non rendere molto lungo questo ricordo. Mi limiterò a dire soltanto che anche nei giorni della Liberazione ho corso qualche rischio, malgrado le raccomandazioni di prudenza da parte di mio padre. Ma quei giorni furono veramente entusiasmanti: finalmente la guerra era realmente finita.

partigiano

gigi nocera

Come mi ha fatto rilevare l’amico Nando, il naturalista, anche l’essere stabiese ha concorso a salvarmi la vita. L’aver imparato a saldare presso il nostro glorioso Cantiere navale e l’avere frequentato da ragazzo la gente e le strade di Castellammare che mi hanno fatto diventare uomo, quindi con la furbizia e l’abilità scugnizzesca di cavarsela in certe difficili circostanze.

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