Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Anche se già visto innumerevoli volte, lo spettacolo che ho notato nei giorni scorsi nel supermercato da me abitualmente frequentato mi ha particolarmente colpito. E mi ha fatto ricordare alcune cose da me vissute negli anni ‘30.
Fra gli scaffali colmi di ogni ben di Dio si aggiravano persone che, come formichine indaffarate, spingevano i loro carrelli piene di tanta merce, in special modo cibo e bevande di tutti i tipi in quantità tale da sfamare diverse famiglie numerose. Pane, biscotti, salumi, pesce, frutta in abbondanza, merendine, cioccolato, detersivi di tutti i generi e molte altre cose. E’ vero che alcune famiglie fanno la spesa una volta alla settimana. E quindi poteva essere la provvista per 7 giorni, ma considerando che oggi una famiglia media è composta in genere da tre o quattro persone al massimo, è facile dedurne che una parte di tanto ben di Dio, passato qualche giorno, viene buttato via. (Chi è quel bambino che dopo qualche giorno si mangia una di quelle 24 “brioscine” che nel frattempo sono diventate “seretecce”? E cosa importa se ogni anno in tutto il mondo 5 milioni di bambini muoiono per denutrizione (letteralmente “moreno ‘e famma”! Questi bimbi sono lontani nessuno li vede! Quindi per noi non esistono).
Ed ecco quindi le considerazioni che la mia memoria mi ha sollecitato a fare.
In quegli anni abitavo a Santa Caterina, poco distante dalla Chiesa della Pace. Al largo Gelso, quasi all’angolo con via Gesù, c’era un negozio di “coloniali”. Queste botteghe vendevano un po’ di tutto, ma principalmente caffé, zucchero, pepe e spezie varie; cioè merce che per lo più veniva da fuori Italia.
Su incarico di mia mamma in questo “coloniale” andavo ogni tanto a comprare un’oncia (si un’oncia!) di caffè. E sapete a cosa corrispondeva una oncia? A circa 30 grammi ! (Altro che prendi tre e paghi due, cioè 600 grammi di caffè per volta). Questa poca quantità di caffé veniva messa in una specie di “coppetiello”, di eduardiana memoria, fatto di carta di grana grossolana, (sembrava quasi una carta assorbente) che naturalmente il bottegaio non pesava.
Verso fine mese lo stipendio di mio padre si era notevolmente assottigliato e in casa erano rimasti pochi soldi disponibili; quindi in quei giorni quasi ogni spesa veniva fatta segnare (“signò, signate!”) su un libricino dove venivano registrate tutte le compere fatte a debito in quel negozio durante il mese; debito che veniva regolarmente estinto quando in casa arrivavano i soldi del mensile di mio padre statale. In contante si comprava fin verso il 20/25 di ogni mese, poi si ricominciava con il libricino. E questo avveniva non solo con il “coloniale”, ma “c’‘o chianchiere”, “‘o casaiuolo”. Debiti sempre regolarmente e puntualmente saldati. Di questi libricini in ogni negozio ne esisteva uno per ogni famiglia, ed era rarissimo che i debiti non venissero onorati a tempo debito. Poteva capitare a volte che il Cantiere, per mancanza di lavoro, “mettesse a spasso” dei dipendenti. In questo caso i negozianti erano molto comprensivi e aspettavano tempi migliori. Ma in questi periodi difficili, che io mi ricordi, mai negavano il credito.
Il vino si comprava ad un quarto o mezzo litro per volta. Si andava dal cantiniere che in un misurino di rame stagnato, corrispondente alla quantità richiesta, metteva il vino spillato da una mezza botte e poi lo versava nella bottiglia che ogni acquirente portava con se. E così per il latte: sempre in quantità tale che bastava per le necessità quotidiane, e sempre in una bottiglia portata da casa. Oggi invece ti riempiono di carta, bottiglie e involucri vari che poi si buttano via. Oggi il vino si compra a decine di litri con le “offerte speciali”: ti arriva a casa un opuscolo con l’invito ad acquistare 15/20 bottiglie delle migliore annate(?) con il regalo di una radiolina cinese (che dopo tre giorni ha già perso la parola) al modico prezzo di 100/120 euro: e tu compri! Come se in casa si fosse tutti dei beoni! Dopo poche settimane poi questo intruglio che chiamano vino diventa una “ciofeca”, ma non importa: si butta via.
Come via si buttano carte, bottiglie di vetro e di plastica e involucri vari. E che problema c’è?! Tanto c’è la raccolta differenziata! Salvo quando le immondizie si accumulano per le strade.
Sempre in tema di parsimonia forzata, ricordo che mio padre mi mandava dal tabaccaio che si trovava quasi di fronte alla Chiesa della Pace a comperare le sigarette “Nazionali” o il trinciato forte quando le sigarette se le confezionava da sé ( già! perchè una volta c’era chi le sigarette se le confezionava in proprio). E sapete quante ne compravo? Tre o cinque per volta (no! Non pacchetti, ma sigarette sciolte). Allora si vendevano anche sciolte, non solo, ma il cliente molte volte le tastava una per una perché a qualcuno piacevano più morbide e ad altri più dure.
Oggi le camerette dei nostri bambini sono piene di giocattoli di tutti i tipi, che loro, dopo un primo momento di curiosità, non degnano neanche più di uno sguardo.
Il primo giocattolo che ho posseduto da bambino era una farfalla, grande come mezzo palmo di una mano. Con una ventosa di gomma veniva attaccata ai vetri delle finestre e si metteva a girare su se stessa. Ed io rimanevo incantato a guardarla!
Oggi si comprano detersivi di tutti i tipi e di tutte le marche. Le nostre madri invece per fare il bucato usavano mettere della cenere nell’acqua contenuta in un mastello e con del sapone grossolano, a forza di braccia, sfregavano la biancheria e gli indumenti su un asse di legno appoggiato al mastello ed alle loro gambe. E che spettacolo dopo, il gran pavese che pendeva dai balconi! Quella biancheria candida come la neve e gli altri indumenti multicolori, come pupazzi disarticolati, venivano animati dal lieve venticello che attraversava la via, dalla Pace alla Fontana Grande.
Intendiamoci, qui non si rimpiange il passato per il passato: beati i detersivi e le lava biancheria che evitano alle nostre donne le fatiche fatte a suo tempo dalle nostre mamme e dalle nostre sorelle. Questi sono solo ricordi che portano indietro nel tempo. Io penso che la memoria sia necessaria. Oggi si tende a dimenticare, e poi i fatti della vita stessi, e questa maniera di vivere nostra attuale, allontana la memoria perché sono cose orribili: le guerre, le sofferenze dell’umanità, la fame, i patimenti, le cattiverie di tutti i giorni che si ascoltano alla radio o si apprendono dai giornali ecc., si vorrebbero rimuovere, ma non si possono, non si devono rimuovere.
Chi non vuole ricordare, sia le cose belle che quelle brutte, cancella il passato e quindi cancella se stesso. Si è allora vissuto invano? Cosa sapranno di noi i nostri figli, i nostri nipoti?
Questi miei ricordi, che qualcuno di voi ha la bontà e la pazienza di leggere, non hanno altro scopo che quello di lasciare una testimonianza di come si viveva una volta a Castellammare. Non hanno nessuna morale. La morale semmai la si ricava da questa bella e amara poesia del nostro grande Raffaele Viviani.
Chi si contenta gode
“Chi si contenta gode”. Chi l’ha scritto,
è nu grand’ommo! Può cagnà ‘o destino?
Si te lamiente tu, n’ato, vicino,
se lagna peggio ‘e te, ca sta cchiù afflitto!
Allora te cunfuorte e pienzo ‘o ditto
‘e chillo ca magnannese ‘o lupino
Vedeva a n’ato, areto, cchiù mischino
Ca s’arunava ‘a scorza, zitto zitto.
Se contentasse sempe ‘o sfortunato,
Pecchè ce sta chi è cchiù ghiettato d’isso
e a paragone è nu priviliggiato.
Io guardo nnanze: però guardo areto,
e quanno sto ‘ncuitato, ca me fisso,
penzanno a chi sta peggio, m’acquieto.