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Facezie d’altri tempi

Facezie d’altri tempi

Si narra di un’avventura ( Stabiesi: gioiosi e irriverenti ) – o disavventura? – che tre stabiesi, simpatici burloni, ebbero una domenica dell’anno 1935 o giù di lì. E come da una loro facezia si fosse originata l’ilarità dei paesani, occasionali festivi passeggeri del tram cittadino. La cosa – si narra – capitò una domenica mattina alla fermata della Villa Comunale, proprio davanti alla Cassa armonica. Così la raccontano. Dicono che uno dei tre fratelli, il più anziano, che era anche il più dinoccolato, il più genuinamente grossolano perché il meno acculturato, e, per lo stesso motivo, il più bonariamente sempliciotto, nell’atto di scendere dal tram, non potendosi trattenere oltre, emettesse una sonora flatulenza che invece di farlo arrossire, ne illuminò la mente – questa volta il gas naturale fece effetto – per cui, accortosi egli che sul predellino della porta d’uscita del tram, al mancorrente si reggeva un prete, così – dicono – lo abbia apostrofato: “Zi’ pre’, nun ve mettite scuorno ‘e fa’ sti ccose?” Da qui – si racconta – la sonora risata degli astanti.

zi' prete

zi’ prete

Si sa che la favolistica di origine popolare ha una rigidità di schemi narrativi che si ripetono identici in ogni tradizione letteraria, sotto ogni cielo e a tutte le latitudini. Quando, addirittura, la stessa storiella, se originata dal medesimo aneddoto, modificata nei particolari e adattata al nuovo ambiente socio-culturale, non si riproponga – pari pari – con rinnovata ed originale vis comica.
Probabilmente il prete non doveva essere del luogo; oppure, si dovrà supporre che il nostro personaggio, per consentirsi tanta gratuita libertà, non conoscesse i preti della sua città.
E – aggiunge il narratore – “certamente veniva da uno dei comuni dell’entroterra vesuviano”.
Ora, è risaputa la considerazione che, in ogni città sia essa piccolo centro, capoluogo o capitale, viene riservata alle persone che provengono dalle città confinanti: “da fuori”, dalla campagna, dal contado, dalla montagna, o, rispettivamente, dal piano.
Per rimanere nell’ambito regionale a noi familiare, tutti sanno che a Torre (Annunziata) per indicare “il baggiano” di manzoniana memoria, si dica: “Scénn’a Vuosco”. (Ho dovuto precisare di quale delle due Torri si tratta perché anche Torre del Greco ha il suo bel da fare. Visto che da Napoli a Castellammare è denominata “’A tin’e miezo”: la tinozza, cioè, che, del concime biologico utilizzato una volta per fertilizzare orti e giardini, conteneva le parti solide). I “torresi” poi – intendendo per torresi quelli di Torre del Greco, e cominciando ad indicare con l’appellativo di “oplontini” i cugini di Torre Annunziata – fanno ogni sforzo per trasferire il “titolo onorifico” ai confinanti “nunziatesi” (oplontini), come li chiamano loro.
A Pompei, poi, per dire la stessa cosa si dice: “Vèn’a Castellammare”; mentre a Castellammare dicono: “Chill’è ‘e Gragnano”. E così via. Solo in Basilicata ho trovato una certa ammirazione per chi viene da fuori, in particolare per chi viene dalla Campania. Ma anche questa ostentata simpatia è funzionale allo scopo: essa nasconde infatti la loro avversione per i pugliesi. Debolezze umane. E sempre bonarie occasioni di facezie. E chi più ne ha, più ne metta.

* * *

Così a Trecase si racconta un’identica storiella che a Castellammare. Se poi per combinazione dovesse risultare che essa è stata generata dallo stesso avvenimento che si racconta a Castellammare, allora si tratterebbe addirittura dello stesso aneddoto. E Trecase, manco a farla apposta, è uno dei “comuni dell’entroterra vesuviano”, il più vicino a Castellammare, la quale si gode la fama e la fortuna di essere protesa verso la punta della Campanella, mentre gli altri scendono dalla montagna. Vuoi vedere che quel prete quel giorno veniva proprio da Trecase?
Chi sa.
Tuttavia in qualche particolare il racconto è leggermente diverso.
Dopo aver sonoramente scoreggiato, il tipo gioioso e irriverente, credendo di fare una bravata da aggiungere al già fatto gran rumore, si rivolge – sì – al prete dicendogli: “Zi’ pre’, nun ve mettite scuorno ‘e fa’ sti ccose?”. Al che – ecco appunto la variante – questa fu la pronta risposta: “Nipo’, nun sapevo ca tenevo nu nipote accussì battilocchio”.
Fu a questa punto che scattò lo sghignazzare diffuso dei viaggiatori. Stando – naturalmente – alla parola di chi racconta la storiella a Trecase.

Luigi Casale

Escursione al Faito ( con fuga, caduta e lieto fine )

Escursione al Faito
( con fuga, caduta e lieto fine )

escursione faito

escursione faito

Visto che sul sito c’è una sezione dedicata agli escursionisti ed io ero uno di questi, voglio raccontarvi dell’esperienza che vissi da giovane sul MONTE Faito.
Dunque. Ci recammo a piedi sul Faito. Poteva essere il 1975 credo. Eravamo io, Peppe Guarracino, Giovanni Caliendi, la buonanima di Mario Vascuotti e l’intramontabile Gennarino ‘a fune, così da noi soprannominato per la sua particolare predilezione all’uso della corda (il fratello, Luigi, lavorava alla Corderia!). Arrivati in cima, e preso un caffè nella piazzetta della Funivia, ci recammo verso il “Molare”, ma dopo poco, su un sentiero poco battuto dai viandanti, venimmo inseguiti da un uomo inferocito con un rastrello in mano: avevamo invaso il terreno di Pasquale Limolo (vicano noto all’epoca per il suo carattere burbero, che noi, presi dall’orgoglio stabiese, apostrofammo così: “Vicaiuòòòòò!”, ahahaha, che ricordi!).
Perché dico ciò? Perché durante la fuga, Giovanni cadde in una scarpata di pochi metri. Noi dicemmo cose del tipo “Giuvà, aizete, ca nun t’he fatte niente!”.
Anche perché nel frattempo Pasquale Limolo aveva desistito dall’inseguirci. Ebbene, non ci crederai, ma all’interno della scarpata, insieme a Giovanni dolorante e impossibilitato ad alzarsi, c’era un lupo (o almeno a noi così parve!), che era giunto da un altro passaggio dal basso.
Forse era un cane feroce, ma era davvero spaventoso. Peppe scappò. Ancora oggi, quando lo vedo in villa la mattina, gli ricordo l’accaduto e lui mi guarda con quello sguardo enigmatico e mi dice: “Catié, tiene sempe ‘na capa ‘e merda!” (scusatemi l’espressione).
Rimanemmo io, Mario e Gennarino, il quale calò la fune (che una volta tanto serviva!).
Giovanni piangeva dalla paura. Tra l’altro lui era un ragazzo! Non riusciva ad afferrare la fune. Io mi appellai ai Santi a cui ero devoto, mentre la buonanima di Mario cercava di chiamare aiuto, ma si rese ben presto conto che nessuno lo avrebbe soccorso.
Ad un tratto Mario ebbe il colpo di genio. Si calò nella scarpata e lanciò, come ultimo gesto, i biscotti di Castellammare che aveva con sé a titolo di merenda al cane lupo. Quello se li mangiò! E’ proprio il caso di dire che Stabia salvò il povero Giovannino da una mozzicata sicura! Dopo, tiratolo fuori, prendemmo anche in giro il cane, chiamandolo vicaiuolo!
Ed è così che si concluse questa vicenda. Stabia è grande!

Catello Graziuso de’Marini

Portosalvo

Chiesa della Madonna di Portosalvo

a cura del prof. Giuseppe D’Angelo

Portosalvo - Francesco Filosa

Portosalvo – Francesco Filosa

Fu costruita nel 1580, e abbattuta, successivamente, per la costruzione del Cantiere Navale.
Dopo la ricostruzione nel 1834, vi fu portato il cinquecentesco quadro della Vergine (a seguire a piè di articolo) che fu sistemato sull’altare maggiore.
Da notare, ai piedi della Madonna, il panorama di Castellammare nel XVI secolo, considerando che si tratta della più antica rappresentazione della città.
La chiesa consta di una sola navata, un altare maggiore e due cappelle laterali.
Accanto a questa chiesa vi è la sorgente dell’acqua della Madonna, chiamata così proprio per la sua prossimità al tempio della Madonna di Portosalvo. La chiesa da numerosissimi anni preclusa ai fedeli, versa in condizioni a dir poco pietose, le suppellettili in essa contenute, fino a qualche anno fa accatastate alla men peggio, sono oggi in attesa di catalogazione e sistemazione più consona e “cristiana”. Continua a leggere

La crociera dell’ardimento e della tenacia

La crociera dell’ardimento e della tenacia

a cur di Giuseppe Zingone

di Piero Girace

Castellammare di Stabia, 4 Agosto 1930

La nuova del felice esito arriso al raid del cap. Sorrentino ci fu dato dal comm. Perugini, Podestà di Tripoli, con due magnifici messaggi inviati al duca di Bovino, Podestà di Napoli, ed al comm. Roberto Ausiello, Commissario Prefettizio di Castellammare. Messaggi che dicono in modo eloquente quanto faticosa ed ardua sia stata l’impresa nautica del nostro giovanissimo concittadino. Continua a leggere

Il capitano Vincenzo Sorrentino

Il capitano Vincenzo Sorrentino

a cura di Giuseppe Zingone

vincenzo_sorrentino

Il capitano Vincenzo Sorrentino

Il nome di Vincenzo Sorrentino, oggi ci è quasi estraneo; eppure questo giovane stabiese fu protagonista di un’impresa incredibile che destò inoltre l’ammirazione delle grandi potenze europee.

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