Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Il “salotto” di Castellammare
Nel mio precedente ricordo ho descritto le serate in Villa Comunale quando c’era il concorso delle Bande Musicali che si alternavano sulla bellissima Cassa armonica. Ma ciò si verificava appunto soltanto in quelle occasioni. Quindi non era sempre così.
In Villa gli adulti si radunavano anche per trovarsi, per parlare della propria famiglia, dei propri… guai, di politica e, perchè no, pettegolare.
I gruppetti di amici e parenti si davano appuntamento quasi sempre a ‘o viale ‘e miezo.
Ma incontrarsi in quella folla era molto difficile, si ricorreva quindi ad un espediente ingegnoso, semplice e caratteristico, frutto proprio della fantasia partenopea: un fischio! Ma non un fischio qualsiasi, banale, no. Ogni gruppo di parenti o amici modulava questo sibilare in modo del tutto particolare e personale. Quel modo originale di cercarsi raggiungeva sempre il suo scopo. Difatti il destinatario, o i destinatari, di quel richiamo rispondeva allo stesso modo e a quel punto ci si individuava facilmente anche fra la ressa. Ricordo che mio padre e i suoi fratelli si incontravano il sabato e alla domenica con il seguito dei figli più grandicelli. Raramente erano presenti anche le mogli; quelle povere donne rimanevano in casa ad accudire i marmocchi più piccoli, quelli non ancora in grado di una sia pur limitata autonomia. In ogni famiglia i figli non erano meno di tre o quattro, e le nascite avvenivano sempre in serie, uno dietro l’altra, in modo che quelle povere madri non avevano mai un periodo di riposo, di svago.
I ragazzi che seguivano i padri in Villa scorazzavano, giocando, per quei viali polverosi sgattaiolando fra le gambe dei presenti, inutilmente inseguiti dai richiami e dalle raccomandazioni dei genitori. Durante questo lento pendolare dalla Cassa armonica alla banchina e zi’ Catiello le soste erano frequenti, e servivano a rafforzare, a precisare, anche con i gesti, i concetti che in quel momento si stavano esponendo.
Come credo di aver detto in altra sede, mio zio Luigi, detto cientemosse, in queste pantomime era insuperabile: si dimenava come una marionetta disarticolata, muoveva braccia, gambe, chinava il busto avanti e indietro, strabuzzava gli occhi, si dimenava con tutto il corpo, improvvisava una specie di balletto; un vero spettacolo! Un altro personaggio che quasi gli stava alla pari nell’improvvisare questa disarmonica danza era Geretiello ‘o casaiuolo, molto conosciuto nel rione di Santa Caterina.
I ragazzi invece vivevano un altro genere di trastullo. Mentre per gli adulti, nel mezzo della loro passeggiata, un caffè o un gelato da Spagnuolo erano di prammatica, l’irresistibile esca dei ragazzini erano le bancarelle che vendevano dolciumi e che erano addobbate con fiori e luci multicolori. Qui si vendevano franfellicche, lenghe ‘e Menelik e leccornie varie. Per noi bambini poi lo spettacolo più interessante era vedere come il franfelliccaro creava il suo prodotto, ovvero come nascevano i franfellicche. Da una pentola veniva estratta ancora calda una massa gommosa di zucchero, che veniva appesa ad un chiodo rampino e poi assottigliata, in diverse riprese, riappendendola ogni volta a quel chiodo. Fino a che non era ridotta sottile come un dito e tagliata poi in pezzi di varia lunghezza. Qualche volta, durante la cottura di questo zucchero, venivano versati nella pentola dei coloranti in modo che i bastoncini di franfellicche risultavano striati da diversi colori.
La stampa antica riprodotta, dà una certa idea di quanto ho cercato di descrivere.Molte volte l’andirivieni degli adulti e i giochi dei bambini venivano interrotti da una pioggia improvvisa. E tutte le volte il commento era sempre lo stesso: “E’ ‘a trupéa d’‘e cerase”. Ancora adesso non so di preciso cosa vuol dire trupéa.Ma il vero significato della frase è ben spiegato dallo storico e glottologo del dialetto napoletano Renato de Falco: “Improvviso acquazzone, l’inaspettato temporale che spesso si materializza in concomitanza della maturazione delle ciliegie, anticipandone la raccolta.”In tali occasioni era un fuggi fuggi generale e per ritrovarsi era un aggrovigliato e urlato richiamo che si intrecciava fra genitori e figli: “Giggì’, Salvatò’, Gennarì’, addò staie?!”. Ed era un correre affannoso sotto i portoni delle case della zona e nei locali di Spagnuolo. Questa sosta però non durava molto: la pioggia come velocemente era arrivata così sveltamente cessava. Intanto però aveva scombinato i discorsi, gli incontri, la passeggiata, le chiacchiere, e, quel che per noi era più importante, aveva interrotto i nostri giochi, le nostre corse, lasciandoci qualche volta con l’acquolina in bocca per il mancato acquisto dei franfellicche.