( articolo di Maurizio Cuomo )
Costruita sul finire del 1800 dalla famiglia Spagnuolo, questa chiesetta rurale fu eretta a pochi passi dal Santuario di Santa Maria della Libera, sulla omonima montagna detta di San Raffaele (1).
Di piccole dimensioni (poco più grande di una cappella di media grandezza), ospitava un altare dedicato a San Raffaele Arcangelo e una statua coeva, opera della bottega dei Della Campa di Napoli (2) raffigurante: l’Arcangelo, il giovane Tobia con il pesce ed un cagnolino, in ricordo delle vicende bibliche narrate nel libro di Tobia dell’Antico Testamento (la cui lettura ci aiuta a dare una spiegazione plausibile alla leggenda che il pesce raffigurato nella statua dell’Arcangelo Raffaele, possa aiutare ogni donna che lo tocca a prendere in breve tempo marito). Da questa leggenda trae infatti le sue origini la tradizione che nel giorno di San Raffaele la statua sia presa di mira dalle attenzioni delle donne nubili del circondario stabiese, da qui l’ambito gesto di “tuccà‘ ‘o pesce ‘e San Rafele” per prendere marito.
Per un doveroso approfondimento, ecco a seguire una breve sintesi di alcune vicissitudini bibliche contenute in questo antichissimo scritto: “Il giovane (Tobia) partì insieme con l’angelo (Raffaele) e anche il cane li seguì e s’avviò con loro. Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul fiume Tigri. Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare. Ma l’angelo gli disse: «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire». Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. Gli disse allora l’angelo: «Aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili in disparte e getta via invece gli intestini. Il fiele, il cuore e il fegato possono essere utili medicamenti». Il ragazzo squartò il pesce, ne tolse il fiele, il cuore e il fegato; arrostì una porzione del pesce e la mangiò; l’altra parte la mise in serbo dopo averla salata. Poi tutti e due insieme ripresero il viaggio, finché non furono vicini alla Media. Allora il ragazzo rivolse all’angelo questa domanda: «Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?». Gli rispose: «Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna. Il fiele invece serve per spalmarlo sugli occhi di uno affetto da albugine; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono».
Erano entrati nella Media e già erano vicini a Ecbàtana, quando Raffaele disse al ragazzo: «Fratello Tobia!». Gli rispose: «Eccomi». Riprese: «Questa notte dobbiamo alloggiare presso Raguele, che è tuo parente. Egli ha una figlia chiamata Sara e all’infuori di Sara nessun altro figlio o figlia. Tu, come il parente più stretto, hai diritto di sposarla più di qualunque altro uomo e di avere in eredità i beni di suo padre. È una ragazza seria, coraggiosa, molto graziosa e suo padre è una brava persona». E aggiunse: «Tu hai il diritto di sposarla. Ascoltami, fratello; io parlerò della fanciulla al padre questa sera, perché la serbi come tua fidanzata. Quando torneremo da Rage, faremo il matrimonio. So che Raguele non potrà rifiutarla a te o prometterla ad altri; egli incorrerebbe nella morte secondo la prescrizione della legge di Mosè, poiché egli sa che prima di ogni altro spetta a te avere sua figlia. Ascoltami, dunque, fratello. Questa sera parleremo della fanciulla e ne domanderemo la mano. Al nostro ritorno da Rage la prenderemo e la condurremo con noi a casa tua». Allora Tobia rispose a Raffaele: «Fratello Azaria, ho sentito dire che essa è già stata data in moglie a sette uomini ed essi sono morti nella stanza nuziale la notte stessa in cui dovevano unirsi a lei. Ho sentito inoltre dire che un demonio le uccide i mariti. Per questo ho paura: il demonio è geloso di lei, a lei non fa del male, ma se qualcuno le si vuole accostare, egli lo uccide. Io sono l’unico figlio di mio padre. Ho paura di morire e di condurre così alla tomba la vita di mio padre e di mia madre per l’angoscia della mia perdita. Non hanno un altro figlio che li possa seppellire». Ma quello gli disse: «Hai forse dimenticato i moniti di tuo padre, che ti ha raccomandato di prendere in moglie una donna del tuo casato? Ascoltami, dunque, o fratello: non preoccuparti di questo demonio e sposala. Sono certo che questa sera ti verrà data in moglie. Quando però entri nella camera nuziale, prendi il cuore e il fegato del pesce e mettine un poco sulla brace degli incensi. L’odore si spanderà, il demonio lo dovrà annusare e fuggirà e non comparirà più intorno a lei. Poi, prima di unirti con essa, alzatevi tutti e due a pregare. Supplicate il Signore del cielo perché venga su di voi la sua grazia e la sua salvezza. Non temere: essa ti è stata destinata fin dall’eternità. Sarai tu a salvarla. Ti seguirà e penso che da lei avrai figli che saranno per te come fratelli. Non stare in pensiero». Quando Tobia sentì le parole di Raffaele e seppe che Sara era sua consanguinea della stirpe della famiglia di suo padre, l’amò al punto da non saper più distogliere il cuore da lei” (3).
In tempi a noi più vicini (sul finire degli anni ’60), quando questa chiesetta rurale fu abbandonata per poi essere definitivamente “sconsacrata” (uso questo termine impropriamente in quanto la chiesetta risultava essere benedetta, ma non consacrata), la statua fu portata nel Santuario di Santa Maria della Libera (dove ancora oggi è custodita in bella esposizione) e ridipinta da un frate cappuccino.
Attualmente ridotta a poco più di un rudere, questa chiesetta porta con se i segni indelebili del saccheggio e della scellerata opera vandalica perpretata in questi anni dall’uomo.
In una recente escursione esplorativa da me effettuata (a inizio 2007) con i fidati amici ricercatori Ferdinando Fontanella e Catello Esposito Sansone, abbiamo potuto appurare che nulla, o quasi, è stato lasciato in loco, oltre ai paramenti e agli arredi, fortunatamente trasferiti anzitempo a miglior sede, a causa dei continui saccheggi perpetrati in questi anni, sono state asportate e distrutte: mattonelle, decorazioni e addirittura gli infissi.
La scena che si presenta agli occhi di chi si reca alla chiesetta è a dir poco deprimente, residui di stucchi e calcinacci ovunque, la stessa situazione si ripete anche nei due ambienti attigui: in quello piccolo leggermente sopraelevato che molto probabilmente era adibito ad uso di sagrestia per riporre i paramenti, al quale si accede mediante una scalinata da uno stretto passaggio situato in un angolo dell’ambiente principale (vedi foto):
e nella stanza soprastante (forse luogo di meditazione e di riposo di chi officiava la Santa Messa), alla quale si accede mediante una entrata situata al lato monte.
Eppure nonostante l’avanzato stato di abbandono e di degrado, questo piccolo rudere esercita ancora un discreto fascino. I pochi stucchi ancora presenti e i fregi scampati agli atti vandalici, sono testimonianza di eleganza e sobrietà. Nella nostra breve seduta esplorativa abbiamo avuto modo di riscoprire alcuni particolari fortunatamente sopravvissuti alla descritta devastazione: un gruppo di piastrelle del pavimento che denota una messa in posa a cardamone (ancora ben conservate nella loro originaria posizione perché nascoste da una fitta coltre di calcinacci), e soprattutto, cosa che ha colpito particolarmente la nostra attenzione, la traccia a matita di mitra e pastorale (riemersa dopo il distacco dei sovrapposti fregi), che molto probabilmente fu abbozzata dal maestro decoratore che ebbe il privilegio di applicare gli ornamenti parietali della chiesetta in costruzione (vedi il particolare nella foto a seguire).
Il 24 ottobre, nel giorno in cui cadeva l’allora festività di San Raffaele (oggi traslata al 29 settembre), il popolo stabiano e i tanti devoti delle città viciniori erano soliti fare visita al Santo. Una curiosità, in tale occasione i ragazzi improvvisavano la tradizionale raccolta delle cosiddette “sovere pilose” (i corbezzoli).
A confermare quanto detto e a chiusura di questa modesta ricerca, riportiamo da un vecchio scritto una breve testimonianza nostalgica di un nostro caro amico, lo stabiese Ciro Alminni:
“Alcuni anni fa la Chiesa celebrava la festa dell’Arcangelo San Raffaele, il giorno 24 ottobre e in tale occasione la montagna si animava. Appena faceva giorno dei colpi in aria davano l’annuncio della festa… Con quanta gioia io e i miei amici andavamo a raccogliere i corbezzoli maturi, che in napoletano chiamiamo ‘e sovere pilose, sia per mangiarli e calmare così i languori di stomaco, sia per venderli lungo le strade cittadine e guadagnare qualche soldino… Quasi tutti gli abitanti della vecchia Castellammare si recavano alla chiesetta con grande devozione pregando lungo la strada. Quanta animazione lungo il percorso! Arrivati davanti alla chiesetta s’incontravano due noti personaggi facenti parte della festa e cioè Tobia e ‘Ndunetta, due venditori, uno dello stoccafisso al pomodoro e l’altra di castagne secche (dette castagne d”o prevete). Tobia, un uomo alto e smilzo con una coppola nera da marinaio sui capelli arruffati, faceva cuocere il suo ruoto di stoccafisso alla paolotta su una improvvisata cucina, fatta con due pietre collocate in un posto sottovento, in mezzo alle quali accendeva un fuoco che alimentava con arbusti vari. La cucina montanara diffondeva intorno uno stuzzicante profumino. ‘Ndunetta, una donna non molto alta e nemmeno tanto giovane, vestiva di scuro con uno scialle sulle spalle e aveva lunghi capelli corvini tirati sulla testa e raccolti dietro nel classico tuppo. Di tanto in tanto per attirare l’attenzione dei presenti su ciò che vendeva, dava la voce: “Accattateve a ‘nzerta ‘e castagne, ca cheste so’ chelle d”o prevete!…” I pellegrini che arrivavano al tempietto di buon’ora erano accolti dal Rettore Don Giacchino Quartuccio, che offriva come colazione una fetta di buon pane fresco su cui poggiava un pezzo di cagliata, fatta con latte di mucca appena munto (la cagliata detto in napoletano è ‘o latte quagliate ‘ngoppe ‘o ppane). A sera la montagna veniva rischiarata da magnifiche luminarie, che da Castellammare sembrava come se tra il verde degli alberi ci fossero tante lucciole. O mia gioventù, dove sei tu? Con te hai portato via tanti ricordi: Don Giacchino, Tobia, ‘Ndunetta, ‘e sovere pilose, la gente festante e a me hai lasciato tanta, tanta nostalgia di quel mondo felice…” (4).
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Bibliografia essenziale e fonti consultate:
(1) GIOVANNI CELORO PARASCANDOLO, 1965. Castellammare di Stabia, pag. 218;
(2) EGIDIO VALCACCIA: informazioni ottenute da ricerche personali e da interviste;
(3) LA BIBBIA: Antico Testamento, Libro di Tobia (Tb 6,1-19);
(4) CIRO ALMINNI: dai suoi ricordi d’infanzia;
Nota: le immagini di corredo sono tutte (foto M. Cuomo)