“Un popolo che distrugge il suo passato, è un popolo che non ha futuro”
Capita spesso, nella realtà, di osservare qualcosa che ci riporta alla mente i versi di una poesia, le note di una canzone, le parole di un articolo. Una sensazione che può essere dolce quando rievoca ricordi piacevoli e amara se fa riaffiorare infelici memorie. Purtroppo l’esperienza che sto per raccontarvi è di quelle tristi. Prima di narrarvela vorrei proporvi il ricordo rievocato da ciò che ho visto. Si tratta dello stralcio di un articolo di Cesare Brandi (Siena 1906-1988) fondatore dell’Istituto Centrale del Restauro e massimo teorico mondiale del restauro conservativo. Articolo pubblicato nel lontano 1965.
“Chi da Napoli voglia andare a Sorrento per la strada costiera, sa d’incontrarsi via via in luoghi dai nomi prestigiosi, Torre Annunziata, Portici, Castellammare, luoghi nati sulle rive del mare, a valle del Vesuvio, luoghi che per secoli sono stati cantati, celebrati, dipinti. È bene dire che di questi luoghi non sono restati che i nomi. Il mare è dietro una fitta cortina di case, l’edilizia, tolta quella antica superstite, è di tipo intensivo e volgarissimo: in una parola tutta la costa da Napoli a Castellammare è trasformata in un quartiere suburbano di Napoli, affollato, congestionato, senza verde e senza azzurro, se non quelle strette strisce di cielo che si ritagliano fra i tetti delle case. Questo risultato, che la costiera vesuviana condivide con Posillipo, non è affatto dovuto al caso, naturalmente, ma agli uomini, anzi alle autorità che l’hanno permesso: e nessuno speculatore, senza connivenze avrebbe potuto arrivare a tanto.
Detto questo, e per non piangere sul latte versato, ci rivolgiamo all’altro lato del golfo di Napoli, la penisola sorrentina, che sta per essere investita dalla colata di cemento. Appunto perché una volta era la lava che minacciava i comuni vesuviani, ed ora che il Vesuvio non fuma più, occorre non privare la terra napoletana di quel raro privilegio, estendendo il beneficio di sostituire alla lava il cemento. Né si creda che, nella sostituzione, vi sia miglioramento alcuno, per la prosperità di quella terra, in quanto che, se sulla lava, come dimostrano le falde del Vesuvio e dell’Etna, con un lento processo di disgregazione nascono i fichi d’india, i pistacchi e le vigne, sull’edilizia intensiva non sventolano che i panni stesi. Nessuna eruzione del Vesuvio o dell’Etna ha distrutto per sempre un paesaggio; anche gli orridi campi di lava hanno il loro fascino infernale, ma la colata di cemento riesce a cancellare dalla faccia della terra perfino questi luoghi vesuviani, di tutti, forse i più ameni, sereni e accattivanti. Poiché ormai la colata cementizia è alle porte della penisola sorrentina, vediamo se almeno questa, in tutto il Golfo di Napoli, possa essere salvata…”. (Brandi, 1965 in Capati, 2001).
L’autore propone, nel resto dell’articolo, di evitare la distruzione aiutando la penisola sorrentina ad attrezzarsi e articolarsi verso l’unica industria che può ospitare: il turismo. Un turismo genuino basato sull’offerta di unicità paesaggistica, naturalistica e ricchezza culturale, lontano dall’azzerante globalizzazione. Per fare ciò bisogna preservare tutto ciò che ancora rappresenta l’unicità del nostro territorio e laddove è inevitabile costruire nuove infrastrutture, necessarie per evitare un impossibile immobilismo, bisogna farlo seguendo il buon senso e il gusto estetico dell’edilizia antica.
La città di Castellammare di Stabia è la porta di accesso naturale alla penisola sorrentina, il centro antico e la zona collinare e montana della città ancora conservano molte delle singolarità che rendono unico un viaggio in penisola sorrentina. Queste singolarità sono purtroppo continuamente minacciate dall’avanzare costante ed illegale della colata cementizia. Le autorità oggi come in passato si dimostrano incapaci di evitare tutto ciò. Quindi vi capiterà, come è successo a chi scrive, di voler fare una passeggiata per un antico sentiero che da via vecchia Pozzano porta al borgo montano delle Camarelle attraversando splendidi terrazzamenti agricoli, con i caratteristici muri a secco di pietra calcarea, coltivati con le più tipiche essenze della nostra cultura contadina: gli ulivi, i noci, le viti e gli agrumi. E di trovarvi di fronte ad una volgarissima via in cemento larga alcuni metri e lunga qualche chilometro che come una ferita nel fianco della montagna ha distrutto il sentiero, i terrazzi con i muri di pietra calcarea, gli antichi coltivi e con essi un pezzo del passato della città, compromettendo così la speranza di un futuro migliore.
La via della vergogna:
Testi consultati:
- Capati M., 2001 – Il patrimonio insidiato. Editori riuniti Roma.
Ferdinando Fontanella
Twitter: @nandofnt