articolo di Maurizio Cuomo
La statua lignea di San Catello, in origine interamente indorata, posta sull’altare nella cappella di San Catello della Concattedrale di Santa Maria Assunta e San Catello di Castellammare di Stabia, viene portata in processione dai fedeli stabiesi il 19 gennaio (festa liturgica) e la II domenica di maggio (celebrazione del patrocinio). La statua del Santo Vescovo, venne commissionata nel 1604 a uno scultore napoletano di nome Giovanni Battista, e portata a Stabia il 16 gennaio 1609. Il Santo è inginocchiato su un cuscino, con la testa fiera, eretta, con le braccia incrociate sul petto, vestito con gli abiti pontificali (Mitra – Piviale – Pastorale) in atteggiamento di preghiera a Dio e di incoraggiamento e conforto al popolo. Il culto di San Catello fu approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti il 13 Settembre del 1729, attribuendo la venerabilità di patrono di Castellammare di Stabia.
Per rendere al lettore in modo significativo quale sia il forte legame e quanto affetto ancor oggi gli stabiesi nutrono per il Santo raffigurato in questa storica ed artistica statua (da sempre venerata dal popolo di Stabia), riportiamo a seguire un breve cenno descrittivo, tratto da una conferenza del compianto Mons. Francesco Di Capua, stabiese eccelso e vero studioso di storia locale, che nel 1928 al Palazzo Vescovile, con accorata maestria, così ebbe modo di descrivere l’antica opera lignea:
“Questa statua è opera di uno scultore napoletano del Cinquecento (di nome Giovanni Battista), il quale, probabilmente, tenne presente e, forse ricalcò una statua molto più antica. L’aspetto del nostro Santo è quello di un uomo pieno di energia e di tristezza. Il suo volto affilato dai disagi, dai dolori e dalle mortificazioni, rivela la fibra energica d’un antico condottiero romano e l’immensa pensosa bontà di un vescovo cristiano. Fissate i suoi occhi vivi e chiari, che, leggermente socchiusi, s’incurvano nelle orbite: quanta bontà! Quanta tristezza! Le sue guance, un po’ smunte, son vivamente colorate, come di chi le abbia abbronzate dal sole e dalle fatiche. La barba gli dà un aspetto incomparabile di dignità e di maestà, velata e ammorbidita da una grande bontà. Ma nella bocca, piccola e fine, par che lo scultore abbia voluto concentrare tutta la potenza del suo genio e della sua arte. Le labbra si schiudono a dolce, sommessa preghiera, come di chi, rapito in estasi, continui ancora la sua orazione. L’aspetto del nostro protettore è quello di un uomo che ha sfidato il gelo dei nostri monti e il solleone delle nostre pianure; che ha sentito l’urlio delle tempeste ululanti tra le gole di Monte Faito, e i mugghii dei marosi fischianti sulle nostre spiagge; che, intrepido, ha resistito alle prepotenze dei magistrati greci, e, impavido, ha offerto il petto alle spade dei Longobardi. Nel suo volto si legge lo strazio di chi ha visto il fuoco distruggere le case dei suoi figli, le messi dei suoi fedeli, i templi del suo Dio. Nei suoi occhi balena il muto dolore di chi vede rivolgersi a lui mille sguardi chiedenti un aiuto che non si sa come dare. Le sue braccia par che si stringano al petto per reprimere i palpiti del cuore: vuole soffrire in silenzio per non accrescere, col proprio, l’altrui dolore”.