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Pillole di cultura: Effimero

a cura del prof. Luigi Casale

Effimero significa “di breve durata”, che dura un giorno.
La sua origine è in una espressione della lingua greca: ̉εφ’ημέραν (leggi: ef’emèran) = “per un solo giorno”. Effimero, quindi – etimologicamente parlando – dovrebbe significare: della durata di un giorno.
Altre parole della stessa origine sono efèmera (insetto la cui vita dura un giorno), effemeride o efemeride (libro delle registrazioni giornaliere; rubrica giornalistica a cadenza quotidiana; e via discorrendo), emeroteca sezione di una biblioteca dove si raccolgono e si custodiscono le pubblicazioni quotidiane; e – per estensione – anche tutte le altre pubblicazioni a stampa (periodiche).
Ricordiamo il saluto augurale dei greci: kalimèra (buon giorno), parola che nella forma Calimera o Calimero è presente anche nella lingua italiana come toponimo o appellativo.
La parola effimero, dunque, per significato è vicina agli aggettivi giornaliero (“che vale un giorno solo” oppure “che si verifica ogni giorno”) e quotidiano (dal latino “cotidie” (= ogni giorno), a sua volta da “quot diebus” (= per tutti i giorni, cioè “che si ripete ogni giorno”), e al sostantivo diario (dal latino “diarium” – proveniente da “dies” = giorno – che significava razione giornaliera, quota di denaro, di materiale, o d’altro che doveva bastare un giorno).
Diarium, poi, ha la stessa formazione di “salarium” = razione di sale, che si dava ai soldati.

Pillole di cultura: “Egregio”: Detto e non- detto

a cura del prof. Luigi Casale

“Egregio Signore!” Ma che sarà mai questo “egregio” con cui tante volte mi hanno chiamato e continuano a chiamarmi nella corrispondenza e nella comunicazione formale?
Mi fa ricordare la risposta di un personaggio delle barzellette giovanili (napoletane), il quale una mattina essendo stato apostrofato dal suo compariello con l’appellativo di “aitante”, così gli rispose: “Aità (Gaetano!), si aitante è ‘na cosa bbona, aitant’a te e aitante pur’a me. Ma si aitante è ‘na cosa malamente, hai tant’i chilli pàccari …. Hai capito, Aità?”
Ora “egregio” risulta che sia la trasformazione di una espressione latina che suona più o meno così: “E grege”, e che letteralmente significa: “uscito dal gregge”. Sul piano del significato corrisponde perciò al più moderno “distinto”.
Quindi nella metafora di “egregio” è sottinteso che una persona per essere distinta (ma non capisco perché mai si dovrebbe essere distinti) deve uscire fuori dal gregge. Praticamente deve essere un pecorone, o almeno esserlo stato.
Stessa considerazione per l’aggettivo “esimio” (dal verbo eximere). Esso vale sempre come “distinto”, perché esentato da certi obblighi, perciò privilegiato, eccellente.
Conclusione: accettate con bonaria tolleranza quando qualcuno vi chiama egregio oppure esimio. Ma se vedete che mentre vi dà il benvenuto accenna a un sorriso sornione e allusivo, allora potete anche voi, in segno di umiltà, riconoscere la vostra “ignoranza” e ricambiargli il complimento, rispondendogli: “Scusate l’ignoranza! Non so se la mia arriva alla vostra. Ma che significa egregio?”. E sarà ripagato.

Pillole di cultura: Emancipazione

a cura del prof. Luigi Casale

Emancipazione, emancipato, emancipare (o emanciparsi): rispettivamente sostantivo, aggettivo e verbo. Queste parole oggi indicano – sempre rispettivamente – il fatto, la condizione, l’azione relativi ad un’attività umana, che possiamo chiamare “l’uscita da una situazione di diritto e il passaggio ad una nuova condizione di diritto in qualche modo più ampia di benefici e di potestà”. Per esempio, è emancipata la persona che migliora la propria cultura e acquista perciò una maggiore libertà di giudizio; è emancipata la donna (o l’uomo) che si libera dai condizionamenti di un sistema di valori obsoleto (pregiudizi), a volte addirittura limitativo della dignità e della libertà della persona; è emancipato il minore (o la minore) al quale il giudice riconosce la facoltà di agire alle stesse condizioni di un maggiorenne.
Andiamo adesso alla storia della parola. La parola latina “mancipium” (pl.: mancipia) presso gli antichi Romani indica lo schiavo (servus/serva) nato in casa, cioè lo schiavo figlio di schiavi. In latino “manu càpere” infatti è afferrare con la mano, tenere in mano. Il verbo “capio-càpere” è prendere; quindi anche “fare prigioniero”, tanto che i “captivi” (oggi diciamo “i cattivi”, ma con significato completamente diverso) erano proprio i prigionieri. Mancipium (parola di genere neutro) all’origine è il prigioniero (la persona che ha perduto i suoi diritti) o per atti di guerra o per incapacità da parte sua a saldare un debito. Quindi si tratta di una persona che in qualche modo si trova ad aver perduto la sua originaria libertà, divenendo proprietà del vincitore o – nel caso – del creditore.
L’eventuale riscatto, per merito o per denaro, da parte dello schiavo; o la restituzione del debito da parte sua, oppure un atto di liberalità del padrone (dominus) potevano restituire in qualsiasi momento la libertà al mancipium, che diveniva “e-mancipiis”: [Vi ricordate il valore di “provenienza” della preposizione latina “e/ex” ?] appartenente cioè alla categoria degli ex schiavi, e veniva chiamato anche liberto. Poi decideva lui se voleva o no continuare a mantenere rapporti di amicizia o di correttezza col suo ex padrone.
Quindi emancipare significa fondamentalmente “fare uscire dalla condizione di servo”, cioè restituire alla libertà.

* * *

Emancipazione, oltre a ciò che abbiamo detto sopra, è anche il termine tecnico per indicare l’istituto giuridico attraverso il quale viene riconosciuta al minore la facoltà di agire (e la responsabilità che ne consegue) di un maggiorenne.

Pillole di cultura: Espedito

a cura del prof. Luigi Casale

Espedito, Irene, Filomena, Felice e altri sono nomi – come tante volte in altre occasioni ho avuto modo di dire – derivati da aggettivi o participi. La nostra tradizione cristiana ne ha fatto dei santi. Creandone poi la leggenda che è divenuta storia. Attenzione ! Il mio non vuol essere un discorso disfattista per negare la validità di una tradizione bene incardinata nella cultura di un popolo. In questo caso la civiltà cristiana. Basti considerare che quasi tutti i nomi all’origine, in quanto “appellativi”, indicavano una qualità dell’uomo, o un’aspirazione ideale, o un motto augurale, se non una condizione oggettiva. Ad esempio che cosa può significare il nome Primo, o Secondo, o Sesto, o Decimo? E Spurio e Postumo? Se non la condizione di nascita del neonato? Questi nomi se diffusi dall’uso sono applicati ad altre persone individuandole; e se costui è di qualche importanza sono passati alla storia diventando modello per tante famiglie nella scelta del nome da dare ai propri discendenti. Pensate che in qualche famiglia si trova il nome Cane o Mastino.
Nella cristianità delle origini i “santi” erano i proseliti del messaggio evangelico, i seguaci della nuova religione, i convertiti, i cristiani appunto. Essi poi attraverso una vita coerente e santa, diventano fedeli, nel senso di confidenti in Dio e nel senso che hanno mantenuto l’impegno fino all’ultimo giorno della loro vita o con una morte santa o con la prova del martirio. Così la Chiesa delle origini li rappresenta nella preghiera della celebrazione liturgica. E nel caso in cui si riesca a individuarne e a conservarne la tomba, essa diventa oggetto di devozione e meta di pellegrinaggi. Si dà la creazione del “santuario” (utilizzando un termine già in uso presso i Romani), specialmente se il santo è il fondatore di una chiesa o il suo primo vescovo (cattedra), del quale il corpo si conservava sotto l’altare maggiore.
Si sa pure che le catacombe erano i cimiteri dei cristiani che col culto della custodia del corpo mortale intendevano esaltare due valori: quello della santità del corpo, e quello dell’immortalità della persona.
Quindi – e così torniamo ai nomi – intorno al corpo dei morti: i santi, si sviluppa il culto della memoria, cosicché i loro nomi si diffondono.
Tuttavia di alcuni santi, di cui pur si sono trovati i corpi (le ossa) e di cui si ha anche notizia della devozione presso i primi cristiani, per mancanza di altri documenti, non è stato possibile tracciare un profilo biografico, se non stabilirne il periodo della morte e l’origine della devozione stessa. Ora questi santi erano chiamati con qualche parola o espressione trovata nella epigrafe della lapide tombale (da qualcuno creduto o nome di persona o soprannome).
Quindi non è esatto dire che certi santi non esistono perché non sono mai esistiti; ma piuttosto che essi certamente sono esistiti – prova ne è la tomba ritrovata e la devozione attestata già al periodo della loro morte – e che di essi non si è sicuri che quello sia il vero nome (cioè quello con cui sono stati chiamati quando erano vivi). Si tratta perciò, se proprio lo si vuole conoscere, il vero nome, di approfondire gli studi e la ricerca.
Così Gennaro (Ianuarius) è aggettivo collegato al dio romano Giano, Agostino (Augustinus) è il diminutivo di Augustus, l’appellativo che dal 27 a.C. fu assegnato agli imperatori romani, Felice e Pio (Felix, Pius) altri titoli assegnati agli imperatori a partire da una certa data. Mentre Espedito (exspeditus) probabilmente viene da una espressione che si incideva sulla tomba per indicare la data di morte (spedito al cielo); e così Irene (in pace); o Filomena (amata). Per fermarci a quelli che ci sono più familiari. Ma ve ne sono tanti e tanti.

L.C.

 

 

 

Pillole di cultura: Esplicito

a cura del prof. Luigi Casale

Esplicito è l’opposto di implicito.
La parola “implicito” la usiamo per dire “sottinteso”, quando vogliamo dire che una cosa, anche se in maniera non chiara e manifesta, è già contenuta nel discorso stesso.
“Era implicito” significa quindi: “anche se non l’ho detto, lo si doveva capire da quello che ho detto”. Così, al contrario, “esplicito” significa “detto chiaramente”.
Come termini tecnici della grammatica i due aggettivi significano: il primo, “implicito”, non sufficientemente spiegato; l’altro, “esplicito”, spiegato chiaramente. E vengono usati nell’analisi del periodo per indicare i due tipi (forma) con cui possono presentarsi le proposizioni dipendenti: o “non sufficientemente spiegate”, oppure “chiaramente spiegate”.

Rispetto a che cosa le proposizioni dipendenti possono apparire “non spiegate” (implicite) oppure “spiegate” (esplicite) ?
Rispetto a due elementi di analisi: 1) la persona del verbo; 2) il tempo dell’azione.
Agli studenti si insegna che quando la frase dipendente è espressa con un verbo di “modo finito”, cioè definito (i modi che hanno la coniugazione [ io, tu, egli, ecc.]: Indicativo, Congiuntivo o Condizionale) si chiama “proposizione esplicita”, cioè, chiara, spiegata. Quando invece il parlante utilizza un “modo infinito” cioè indefinito, come sono: Infinito, Participio, o Gerundio, si dice che essa è una proposizione implicita (non chiaramente spiegata).
E infatti, mentre le voci verbali di modo finito hanno elementi strutturali che ci indicano persona e tempo, quelle di modo infinito invece, nella loro struttura morfologica, non hanno quegli elementi (suffisso temporale e desinenza) per comunicarci la persona che fa l’azione e il tempo dell’azione. Se diciamo “canteranno” (cant-era-nno) si capisce che chi canta sono “essi” e che l’azione “avverrà nel futuro”.
Ma se diciamo “cantando” non si capisce chi canta (Cantando io? Cantando tu? Cantando essi?) né se ha cantato, canta o canterà .
“Cantando” indica, allora, solo una contemporaneità, un’azione che si svolge “contemporaneamente” all’azione del verbo della frase reggente, fatta dallo stesso soggetto del verbo reggente. Per precisare eventualmente che si tratta di un soggetto differente, devo dirlo espressamente: io cantando, essi cantando, tu cantando, ecc.
Procediamo con un esempio: “Viene cantando” indica che l’azione del cantare è presente, perché presente è il tempo di “viene”. E chi canta è la stessa persona che viene. Mentre in “vennero cantando” l’azione del cantare è passata come è passata l’azione del venire (venn-ero). E la stessa cosa possiamo dire della persona: chi canta sono “essi oppure esse”, perché essi/esse è il soggetto di vennero.
Tutto questo significa, come ho detto, che la forma “cantando” del verbo cantare non contiene elementi strutturali (suffissi o desinenze) che ci facciano capire chi fa l’azione; e in quale tempo – in assoluto – la fa. Perciò “cantando” è una proposizione implicita. Per farla esplicita devo dire: Viene mentre canta. Oppure: Vennero mentre cantavano. E in questo caso posso anche cambiare il soggetto della dipendente: Viene (lui) mentre (io) canto, e rispettivamente, Vennero (essi), mentre (noi) cantavamo.

Chiusa questa breve (e sostanziosa) parentesi, più adatta ai mie amici scolari e studenti, che però fa bene anche a noi perché ci fa ricordare di quando si andava a scuola e nello stesso tempo ci fa comprendere meglio, adesso, il significato dei due termini, esplicito e implicito, usati – in questo cantesto – con l’accezione propria del linguaggio della grammatica, vediamo ora le altre possibili accezioni, o meglio, il significato originario (etimologico) delle due parole.
Il senso resta, comunque: “spiegato” per esplicito, e “non-spiegato” per implicito.
Ma perché?

Qui ci vuole un po’ di latino. E mi aiutino adesso gli studenti liceali!
Se avremo pazienza, vedremo “spiegarsi” (quasi che uscissero dalle pieghe di un cartoccio) davanti agli occhi – e all’intelletto – una serie di parole, tutte collegate alla stessa radice di “implicito ed esplicito” ( il verbo latino plico/plicui/plicatum/plicare).
Il verbo latino “plico/plicare” significa infatti proprio: piego, faccio una piega, avvolgo, accartoccio.
Scusatemi! Qualche studente liceale mi sta suggerendo che il gruppo consonantico latino “pli” (di plico) in italiano è divenuto “pie”
(p l i c o = p i e g o).
Allora, di conseguenza: ex-plico = porto fuori dalla piega, spiego.
Come pure: in-plico = metto dentro la piega, chiudo nel plico (ecco un’altra parola italiana collegata al verbo latino plico!), quindi nascondo.
E così abbiamo spiegato (!!!) il significato di esplicito e implicito, nonché quello di plico (parola dotta molto utilizzata negli uffici postali, per dire busta o involucro). E, sperando che il discorso sia più chiaro (esplicito !!!) ora, affido a voi il compito di continuare l’approfondimento semantico e la ricerca lessicale dandovi l’avvio con qualche accenno, implicito (!!!) nel quadro sintetico che segue.
Consigliandovi, inoltre, di andarvi a rileggervi il lemma “semplice” già pubblicato nella stessa rubrica “pillole dicultura”.

QUADRO SINTETICO (o schema riassuntivo)
Dal verbo latino: plico / plicui / plicatum / plicare derivano:
Ad+plico = applico (adatto … nel plico o alla piega)
Cum+plico = complico (metto insieme … nel plico o nella piega)
Ex+plico = explico (porto fuori … dal plico o dalla piega)
In+plico = implico (metto nel plico o nella piega)
Re+plico = replico (piego di nuovo)
Du+plico = duplico (piego due volte)
Tri+plico = triplico (piego tre volte)
Multi+plico = moltiplico (piego molte volte)

P.S. Lo stesso meccanismo di formazione (metaforico-semantico) si è ripetuto successivamente con l’uso della parola “volta” (da
“voluta” [= avvolta], a sua volta – lupus in fabula ! – derivata da volvo [ = volgere, rotolare, far girare]); quando diciamo: “Prima volta”,
o: “C’era una volta”, oppure: “Due o tre volte”.

L.C.