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Pillole di cultura: Eufemismo

a cura del prof. Luigi Casale

Eufemismo è quella figura retorica che opera sul significato delle espressioni (quindi possiamo dire: “è una tecnica espressiva della lingua, orientata verso la semantica”), che ci permette di evitare parole “sconvenienti” e pertanto impronunciabili, sostituendole con altre più presentabili e meglio accettate dal contesto sociale, senza falsare con questo le intenzioni comunicative. Quando dovremmo usare parole che si riferiscono a realtà poco igieniche e quindi impresentabili nella comunicazione verbale, oppure quelle che richiamano realtà negative che noi pensiamo di tenere lontane se non le nominiamo affatto (fenomeno del tabù), ci serviamo di un tipo di metafora, che ci fa sostituire le parole sconvenienti – quale che sia il motivo della inibizione morale o sociale – con altre che richiamano la stessa idea, ma senza mostrare tuttavia la crudezza della realtà rappresentata, rispettando così l’interdizione del tabù.
In queste situazioni, però, è anche possibile ricorrere ad altre possibilità. O si modifica la fonetica delle parole incriminate, sostituendo vocali o consonanti, oppure ci si serve di una perifrasi: cioè si utilizza un giro di parole al posto della parola che non si può pronunciare. Così la morte di una persona è la “dipartita” o il “decesso”. Sessant’anni fa il cancro era “la malattia che non si dice”. Ma possiamo pensare anche ai vari termini allegorici che si utilizzano in maniera familiare per indicare in pubblico gli organi sessuali.
La parola eu-fem-ismo, strutturalmente è formata da tre elementi portatori di significazione semantica. Il suffisso “–ismo” che indica un termine astratto del tipo di quelli che si riferiscono a fenomeni, o movimenti culturali o sociali. Il prefisso “eu–“ che indica qualcosa di positivo, “fatto bene” [al contrario di “dis–“ che indica una negatività, una cosa opposta al bene; vedi: “dis-piacere”]. L’elemento radicale “–fem–”, che dà il significato portante all’intera parola; e significa dire, parlare, dal verbo greco φημί [phēmì]. Vedi anche il lemma “Fato”, in questa stessa rubrica di cultura.
Tra gli eufemismi figurano molte espressioni utilizzate in maniera scherzosa o per non bestemmiare, o per non nominare atti osceni, o per non imprecare contro le persone care.
Sono eufemismi le parole: “cavolo”, “pisello”; sono eufemismi le espressioni: “mannaggi’a maruzza”; “rompere le scatole”; “andare a quel paese”; e tante altre che nel corso della giornata pronunciamo senza neanche accorgercene.
Ne conosco una simpatica, ricca di allusioni nello stesso tempo e rischiose e bonarie, in base alla predisposizione dell’uditore.
A Torre, per esempio, per mandare una persona in malora si dice: “Va’ fa’ a Bbuosco!”
E la cosa bella è che qualcuno dopo una brevissima pausa aggiunge anche: “K’a Torre te sanno!”

L.C.

Pillole di cultura: Fato

a cura del prof. Luigi Casale

“Post fata resurgo” o meglio “Post fata resurgam”. L’espressione non è difficile da analizzare. Più difficile è capirne il senso, per poterla tradurre in italiano.
“Post” è dopo. “Fata” (plurale) sono i fati (il destino; ciò che deve accadere). “Resurgo” è la prima persona dell’indicativo presente; “resurgam” è la prima persona dell’indicativo futuro. Traduzione: “Dopo i fati risorgo” (presente) oppure “Dopo i fati risorgerò” (futuro). La frase non esprime una speranza, ma piuttosto una certezza. Finito un ciclo, ne inizia un altro.
Fatum (il fato) quindi corrisponderebbe a quello che noi chiamiamo il destino.
Non so se in italiano la parola debba essere scritta con l’iniziale maiuscola. Si può anche pensare che la cosa dipenda dalle convenzioni, dalle convinzioni, o dai segnali che si vogliono trasmettere nella comunicazione.
Nessuno tuttavia – credo – oggi scriverebbe “Destino” (con la maiuscola).

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Eppure presso gli antichi Romani il Fato era qualche cosa di più del destino. Era una necessità. La necessità del divenire storico. Sentita coma trascendenza. Alla quale erano sottoposti anche gli dei. Ed è evidente. Dal momento che gli dei, secondo la concezione dell’uomo antico, si comportano proprio come gli uomini, e degli uomini hanno pregi e difetti. Ne riproducono i comportamenti, e quando prendono parte alle vicende umane (cioè entrano nella storia) schierandosi per l’uno o per l’altro eroe, ìl loro intervento non riesce a modificare ciò che è predestinato, stabilito, detto, o scritto fin dall’eternità. A meno di non inficiare il valore simbolico del Mito stesso. (Vedi i racconti dei poemi epici, o della tragedia classica).
Perciò Fatum essendo ciò che è stabilito dall’eternità, è “il detto”. Che esiste prima del tempo dell’uomo (la storia), e fuori dal dominio degli dei.
Fatum, infatti, significa proprio “il detto”. E’, infatti, participio passato – meglio se diciamo “perfetto” – del verbo latino: for, faris; fatus sum; fari ( = “parlare, dire”).
La radice della parola è “fa”, corrispondente alla radice greca φα/φη [fa/fē] (vedi il verbo φημί [phēmì] = parlo, dico), la quale ritorna in tutta la grande famiglia di parole (si dice anche: sfera lessicale) di quest’area semantica (cioè, campo di significato). Parole che troviamo, quasi identiche, nel francese, nel portoghese, nello spagnolo, ecc.
Ecco: Fatum possiamo tradurlo “il Detto”. Il greco del periodo ellenistico dice Logos (Λόγος= Logos). Che s. Girolamo, in latino traduce Verbum (Parola di Dio), non potendo utilizzare una parola fortemente connotata dalla storia del pensiero religioso del mondo classico. Basta leggere l’inizio del vangelo di Giovanni.
Però, nella visione cristiana il Verbo è persona, il Figlio di Dio. Egli stesso è Dio.

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Da quanto detto, emergono due cose importanti. La prima attiene alla storia delle culture. E ci mostra quanto siano sorprendentemente vicine culture che noi abbiamo sempre considerate diverse e opposte. Senza voler sminuire con questo la differenza, l’originalità, e la grande novità del Cristianesimo, sia rispetto alla visione ebraica che a quella pagana.
La seconda è di tipo antropologico e ci fa vedere in ogni civiltà una costante dell’atteggiamento dell’uomo antico: la meraviglia e la consapevolezza storica di fronte alla comparsa e alla pratica del linguaggio (simbolizzare, produrre testi, argomentare, raccontare; e poi anche scrivere) come potenza originale e creativa. Quasi consegna di una eredità divina.
Se poi questa attività “divina” la rappresentiamo con la parola greca, scopriamo un altro assioma: l’identità tra pensiero e linguaggio. In greco λόγος (logos) è pensiero ed è discorso.
Tutto questo discorso sulla “parola”, o parlare del “discorso” merita un ulteriore approfondimento. Che lascio alla vostra riflessione.
Se vi va però, cari amici della scuola media, potete anche continuare da soli a giocare con le parole partendo da quelle italiane: fante, fata, fama, famigerato, fàtico, infante, nefando, affabile, ineffabile, favella, favola, affabulazione, fandonie.
E tutte le altre che riuscirete a trovare (come: prefazione, ecc.). Non è difficile. Vi aiuterà il vocabolario.

Pillole di cultura: Ginnastica

a cura del prof. Luigi Casale

Fino a cinquant’anni fa – si era nel 1963, anno della riforma della Scuola Media Unificata – in Italia Ginnasio era il nome della scuola (media dalla durata di 5 anni) che preparava agli studi “classici” (linguistici, storici, filosofici) proprio perché impostati sulla base della eredità culturale della classicità greco-romana. Studi che si completavano nel corso del “Liceo classico” che durava tre anni (5+3), contrariamente agli altri indirizzi liceali e tecnici che duravano cinque anni (3+5).
Ci rendiamo conto che la differenza di durata era solo apparente perché comunque gli anni di scuola media (tra quella inferiore e quella superiore) era sempre di otto anni. Solo il percorso dell’indirizzo “magistrale” (formazione di maestri e maestre) durava sette anni (3+4) e abilitava all’insegnamento senza la necessità di continuare gli studi universitari.

Quella che all’inizio degli anni 60 fu definita la Scuola media unica, precedentemente era una scuola “media” diversificata in due percorsi: il ginnasio (di 5 anni; ma poteva anche essere interrotto al terzo anno per passare poi alle scuole tecniche professionalizzanti) e la scuola di avviamento al lavoro (3 anni; con possibilità di proseguire gli studi nel liceo scientifico, magistrale o presso gli istituti tecnici, e addirittura all’Università, con l’esclusione solo di alcune Facoltà).

L’istituzione del cosiddetto Liceo scientifico, o artistico, che si differenziavano dagli altri corsi quinquennali, non aveva sminuito l’aspetto selettivo del Liceo classico: nella forma e nella sostanza; tanto che solo l’aspirazione alla formazione classica continuava a tenere in vita i due esami di sbarramento (esame di ammissione), quello che ammetteva alla scuola media (dopo la quinta elementare) e quello per accedere al triennio conclusivo del Liceo (dopo la quinta ginnasiale). Creando così una differenza nel conteggio degli anni tra liceo classico e tutti gli altri corsi della scuola media superiore. Anche se si trattava solo di una differenza nominale. In effetti il Liceo classico aveva conservato nella denominazione delle classi una particolare anomalia, che fino a pochi anni fa ha consentita di mantenere almeno nella memoria storica la parola ginnasio, per chiamare le ex-classi ginnasiali (4^ ginnasio, 5^ ginnasio) che poi altro non erano che il biennio iniziale del Liceo classico: quella che appariva solo una trascurabile anomalia nascondeva però una volontà conservatrice di una tradizione scolastica elitaria, oltre ad una terminologia (e una concezione) classicheggiante.

Fuori dall’Italia già da tempo la parola Gymnasium era passata a designare la palestra, lo spazio per l’attività fisica, la sede cioè degli esercizi sportivi, la “ginnastica”, appunto. Evidentemente i termini gymnasium e ginnasio, e la stessa parola ginnastica sia in Italia che altrove erano “parole dotte”, cioè parole entrate nella lingua moderna senza aver subito la naturale trasformazione che subiscono le parole nella lunga e lenta evoluzione che la lingua viva subisce attraverso l’uso costante.
Ginnasio, ginnastica, ginnico: fanno parte della famiglia di parole riconducibili all’aggettivo greco γυμνός = nudo (completamente senza vestiti). Il ginnasio è perciò il luogo dove si sta nudi. Il luogo quindi degli esercizi fisici. La statuaria antica oltre ai soggetti in tema, cioè gli atleti rappresentati nel momento dell’esercizio fisico, ci presenta una vasta gamma di personaggi mitologici, sia maschi che femmine, completamente nudi.

Quanto alle donne è risaputo che a Sparta esse ricevevano la stessa educazione dei maschi. Mentre per le altre città dell’Ellade la loro crescita e la loro formazione, compresa la cura del corpo e gli esercizi fisici, avvenivano in appositi gruppi femminili.
Nella lingua e nella tradizione italiana il Ginnasio è divenuto la “palestra della cultura”, il luogo delle esercitazioni del pensiero (classico). Linguisticamente si dice che ha operato la metafora (cioè la trasposizione di senso dietro una parola che significa un’altra cosa.

L.C.

Pillole di cultura: Idiota

a cura del prof. Luigi Casale

Oggi è il turno di idiota. Se consulto il vocabolario italiano, il primo che mi capita sottomano (Dizionario della lingua italiana, di Devoto e Oli), leggo alla voce idiòta: “Caratterizzato da una vistosa e sconcertate stupidità” ; … e cose simili (più o meno). La definizione del lemma si conclude, poi, “… [ …dal greco: idiòtes, individuo privato senza cariche pubbliche … ]”.
Faccio notare di passaggio che nella stessa pagina si trovano parole come idiòma e idiotismo, che proprio niente hanno a che vedere con la stupidità. Idioma è una lingua particolare, propria di un gruppo di parlanti ben definito (diciamo: una lingua nazionale oppure un dialetto); e idiotismo è una forma espressiva particolare, tipica di un gruppo di parlanti molto ristretto (corrispondente – potremmo dire – o a un quartiere o a una sola città).
Allora vado a consultare un vecchio vocabolario di greco antico, il buon Bonazzi (“Dizionario Greco – Italiano, compilato ad uso delle scuole della Badia di Cava dei Tirreni da S. E. l’Arcivescovo di Benevento, D. Benedetto Bonazzi O.S.B., professore pareggiato nella R. Università di Napoli”) – meritava proprio questa citazione! Ricca di informazioni e di storia. L’altro vocabolario di greco antico, ancora in uso nelle scuole (che negli anni ha soppiantato il Bonazzi, monaco benedettino), è il Lorenzo Rocci S.J. (religioso della Compagnia di Gesù) – dicevo: vado a consultare lo storico vocabolario greco e concludo – mi pare di capire – che l’“idiòtes”, presso i greci era una persona che in un certo senso viveva da solo, badava ai fatti suoi, non si curava di partecipare alla vita pubblica e alla gestione dello Stato. E la chiamate stupida una persona tale?
Intanto oggi utilizziamo la parola così come essa ci è arrivata, e prendiamo atto dell’enorme scivolamento di significato che essa ha dovuto subire per arrivare fino a noi, passando attraverso la lingua latina che ce l’ha consegnata.
Però a ben riflettere, chi è più idiòtes (che pensa ai fatti suoi!) oggi, chi prende parte alla politica o chi se ne tiene lontano?

 

Pillole di cultura: I giorni della settimana

a cura del prof. Luigi Casale

Il nome dei giorni della settimana è una delle prime cose che si insegnano ai bambini, come le dita della mano, o i mesi dell’anno. Un apprendimento seriale. Per tenere allenata lamemoria. Lunedì. Martedì. Mercoledì. Giovedì. Venerdì. Sabato. E domenica.
Certamente la suddivisione del tempo in settimane non è della tradizione classica. Essa fa parte della cultura ebraica. Vedi il racconto biblico della Creazione.
E l’origine dei nomi? Intanto diciamo che a rigore la settimana così com’ è oggi non comincia dal lunedì (Forse la settimana lavorativa, sì). Se, secondo la tradizione ebraica, il sabato è il giorno del riposo, allora questo è il settimo. Ne abbiamo conferma nel passo evangelico in cui si racconta che “il giorno dopo il sabato” Maria Maddalena e, successivamente, Pietro e Giovanni trovarono la tomba vuota. Quindi quel giorno, che in seguito i cristiani chiamarono giorno del Signore (dies dominica), cioè quella che noi chiamiamo ancora “domenica”, era ed è il primo giorno della settimana.
Abbiamo detto “dies domenica”. Mentre “dominica” è l’aggettivo derivato da Dominus = il Signore, “dies” è un nome che significa “giorno”, trattato, a seconda delle situazioni, a volte come femminile, a volte come maschile. Così “la domenica” in italiano è diventato un nome femminile; “le dimanche” (francese) e “el domingo” (spagnolo) sono al contrario nomi maschili.
“Dies”, che nel caso della parola “domenica” si è eclissato, negli altri cinque giorni si è mantenuto trasformandosi nel suffisso “–dì” (lune-dì, ecc.). D’altra parte la parola è presente nella lingua italiana come forma “di’” (da diem), viva nell’espressione “buon dì”.
Parlavamo degli altri cinque giorni. Essi sono dedicati ai personaggi dell’Olimpo Romano. Scomparso Apollo dalla domenica, sono rimasti Diana (la luna), Marte, Mercurio, Giove e Venere. “Il sabato”, poi, ha conservato la forma della lingua ebraica.
Quindi nei nomi della settimana si conservano presenze di una cultura che contiene elementi della civiltà classica (romana), di quella ebraica e di quella cristiana. Di queste tre culture, o meglio, della loro sintesi (sincretismo) noi conserviamo la matrice. Sulla quale poi si sono sovrapposte con maggiore o minore incidenza la civiltà germanica (invasioni “barbariche”) e quella araba, considerando che quella greca e bizantina sono gia componenti di quella classica.
Nel linguaggio ufficiale della chiesa il nome dei giorni della settimana, a parte il primo, denominato come abbiamo detto “dies dominica”, gli altri, sono designati col numerale: feria secunda, feria tertia, feria quarta, feria quinta, ecc., dove feria è la parola latina che significa “festa”. Ancora così sono chiamati i giorni della settimana nella lingua portoghese.
Anche da noi – chi va in chiesa il Giovedì Santo lo sa – quella festa si chiama “Feria quinta in cena Domini” (La quinta festa della settimana della commemorazione della cena del Signore).