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Pillole di cultura: I mesi dell’anno

a cura del prof. Luigi Casale

Gennaio; febbraio; marzo; aprile; maggio; giugno; luglio; agosto; settembre; ottobre; novembre; dicembre. Sono i nomi dei mesi dell’anno. Sono trascritti con l’iniziale minuscola – pur essendo oggi dei veri e propri “nomi propri” – in quanto all’origine essi erano aggettivi. Queste origini cercheremo di vedere qui di seguito.
Non chiedetemi però perché i mesi siano dodici. Né perché essi abbiano una durata differente in termini di numero di giorni. Una cosa intanto possiamo notare, che nel tempo si è definita e ci è stata consegnata. Ed è che da Gennaio a Luglio si alternano un mese più lungo e un mese più corto: Gennaio (31 gg.), Febbraio (28/29 gg.), Marzo (31 gg.), Aprile (30), Maggio (31), Giugno (30), Luglio (31). Poi da Agosto a Dicembre si interrompe l’ordine della successione per ripartire di nuovo da un mese lungo: Agosto (31), Settembre (30), Ottobre (31), Novembre (30), Dicembre (31). E di nuovo il ciclo ricomincia. Eternamente. Sicché nel ritmo dei mesi, due volte nell’anno si susseguono due mesi da 31 giorni: Dicembre / Gennaio e Luglio / Agosto. Se tutto questo abbia una ragione scientifica non lo so. Bisognerebbe chiederlo agli astronomi. Noi ne seguiamo la storia civile, quella delle riforme, delle leggi, dei provvedimenti, e delle consuetudini radicate nel tempo. Diciamo perciò – per ora – che si tratta di un dato culturale.
L’attuale sistemazione dell’anno civile è il risultato politico di tutta una serie di credenze, di intuizioni, di scoperte, di risposte ai problemi, spesso anche pratici, che l’uomo ha cercato di dare alla misurazione del tempo in armonia con le leggi della natura. E’ frutto quindi di razionalità ed esperienza. In prospettiva economica: come tutte le cose umane.
Passiamo ora al numero dei giorni dell’anno, di cui posso dirmi più sicuro. O no? Sono 365; 366 ogni 4 anni. I cosiddetti anni bisestili. E so anche che il numero dei giorni dipende dalla lunghezza dell’orbita che la terra percorre ruotando intorno al sole; e dalla durata (cioè quante volte essa ruota su se stessa per percorrerla. Tutto è relativo!). La terra per percorre la sua orbita intorno al sole, poiché gira anche su se stessa con un asse inclinato rispetto alla direzione dei raggi solari, impiega 365 giorni – 365 giri su se stessa – . Quindi, 365 alternanze di buio e di luce.
Ma dopo 365 giri che la terra fa a guisa di trottola inclinata, non si completa – del tutto – la sua corsa intorno al sole. Infatti rimane ancora un pezzettino da percorrere per arrivare alla posizione di partenza (un po’ meno di sei ore). Fino al tempo di Cesare nessuno ci faceva caso; però alla distanza le stagioni si spostavano. Gli antichi allora con decreti dei sacerdoti preposti a questo compito, ogni tanto inserivano nell’anno dei mesi intercalari, aggiunti in maniera estemporanea. Evidentemente ogni popolo prendeva i suoi provvedimenti autonomamente, così com’erano autonomi e indipendenti i criteri della misurazione del tempo. Che, certamente, non potevano coincidere.
La riforma di Giulio Cesare – che, data l’estensione dell’imperium Romanorum, coinvolse una vasta area del mondo conosciuto – stabilì che ogni quattro anni nel mese di febbraio, dopo il 24° giorno (che si chiamava “sextus ante Kalendas martias”, cioè: sesto giorno prima del 1° marzo, o sestultimo di febbraio) si inserisse un giorno in più (il bis-sextus, il sestultimo per la seconda volta). Infatti dopo quattro orbite intere che la terra compie intorno al sole, la somma dei (quattro) pezzettini – un po’ meno di sei ore – corrisponde quasi alla durata di una giornata. E poiché il 24 febbraio, secondo il modo dei Romani di chiamare i giorni, era detto “sesto giorno” [diem sextum] prima delle Calende di marzo, il secondo “diem sextun” fu detto “bis sextum”. Da ciò l’aggettivo bisestile che andò a denominare l’anno che conteneva questo giorno aggiunto. Oggi che chiamiamo i giorni diversamente, negli anni bisestili invece di ripetere il 24 febbraio, aggiungiamo il 29.
Con il provvedimento di Cesare, però, si andava oltre il compimento dell’orbita solare, anche se solo di un poco. Restava comunque un inconveniente. Alla distanza sarebbe stato necessario sottrarre quanche giorno, per mettere l’anno alla pari e far coincidere le stagioni. A correggere questa sfasatura intervenne la riforma del Papa Gregorio XIII. Si decise così che in occasione di determinati anni bisestili non si aggiungesse la giornata in più. E per recuperare tutta la eccedenza accumulatasi negli anni già trascorsi, da Cesare a Gregorio, fu necessario allora eliminare dal calendario 11 giorni. Così quell’anno, 1582, anno della riforma del calendario, dopo il 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre. Gradualmente la riforma fu accettata in tutta Europa.
Ma prima di quella di Cesare, stando agli storici, c’era stata la riforma di Numa Pompilio, il secondo re di Roma. Sembrerebbe confinata nel mondo della leggenda. Ma a riscattarla dall’alone di leggenda e ad avvalorarla di un fondamento di storicità intervengono da una parte il nome stesso di Numa, dall’altra quello dei mesi dell’anno, portando elementi a sostegno della sua credibilità storica.
Mentre Romolo è l’eroe “eponimo”, cioè che avrebbe dato il nome alla città, Numa rappresenta “il legislatore”, colui che ha dato le istituzioni civili alla città. Questo periodo storico – che certamente c’è stato ma di cui ignoriamo la durata – è riassunto nel nome stesso del re che la tradizione ci ha consegnato come organizzatore dello Stato e creatore delle leggi. Il vocabolo νόμος [nòmos] è proprio “legge”. Inoltre il fatto che alcuni mesi si chiamino ancora “settembre”, “ottobre”, “novembre” e “dicembre” è segno evidente che all’origine i mesi venivano indicati con un aggettivo numerale e che il loro numero non superava il dieci. Perciò se in epoca storica se ne contano dodici, è evidente che qualcuno ci ha messo mano. La storia ci fa il nome di Numa. Se poi la determinazione del numero dei mesi in dodici sia già opera di Numa, oppure l’aver fissato a dieci il numero dei mesi fosse la base per un’ulteriore riforma operata da altri, diventa secondario per la nostra indagine.
Ciò che conta è che già a quei tempi si cercava di provvedere ad eliminare il precedente disordine (o ciò che si riteneva tale).
Anche gli storici antichi non sempre si mostrano di unanime parere.
Resta il fatto che i legislatori hanno sempre cercato di far coincidere l’anno sociale ed economico che dava ordine alla vita degli uomini, con l’anno astronomico che naturalmente dà ordine ai ritmi della terra.
Proprio per ovviare agli inconvenienti derivanti da queste sfasature quando esse divenivano palesi, presso gli antichi le motivazioni di carattere politico e sociale si trasformavano in provvedimenti di carattere religioso. Così attraverso periodici rituali venivano inserite le giornate mancanti (mesi intercalari). Tuttavia, poiché tutto avveniva in maniera empirica (ed estemporanea) restava pur sempre il margine di incertezza che alla distanza riproponeva lo squilibrio. Gli astronomi e i matematici lo sapevano; ma forse anche i contadini se ne accorgevano. Da questa consapevolezza nacque la riforma di Giulio Cesare. In onore del quale quello che già era stato il quinto mese, e che si chiamava quintilis, da allora prese il nom di Iulius. [Aggiungiamo qui che anche il mese sestilis in seguito cambiò nome, e divenne Augustus in omaggio ad Ottaviano Augusto.]
Seguendo il ciclo del sole, ci siamo dimenticati della luna. Anche la luna in rapporto alla terra (cioè, rispetto alle modificazioni periodiche che apporta alla terra o che si possono notare dalla terra) era un mezzo per misurare lo scorrere del tempo. Anzi, a parte l’alternarsi di notte e giorno, era quello che più degli altri accompagnava la vita degli uomini nel computo delle giornate. Sul ciclo della luna (circa 28 gg.) si calcolò il mese. La radice indeuropea *men indica la “luna”, e il derivato “mensis” (mese) è l’aggettivo per dire “lunare” [ciclo o percorso]. E molto probabilmente proprio sulla base del ciclo lunare si stabilì la settimana, che richiama le fasi della luna. Da mensis viene anche il nome del ciclo della fecondità femminile della specie umana.
Non va trascurato tuttavia il fatto che ogni popolo avesse il suo sistema di calcolo e il suo particolare calendario.
Noi intanto ritorniamo alle parole, dicendo che calendario deriva dal nome Kalendae, con cui i Romani chiamavano il primo giorno del mese, e le cerimonie religiose che vi si praticavano. In effetti venivano proclamate (kalère = chiamare) le due feste del mese che erano la base per il conteggio dei giorni: le Idi, a metà mese, e le None, nove giorni prima. Ma forse c’erano altri “richiami”, come scadenze, rinnovo di contratti, o far memoria dei tempi dell’attività agricola. Comunque il tutto serviva a dare ufficialità all’avvio del nuovo mese, onde evitare che si creasse qualche confusione nel popolo.
Kalendae – lo dico per chi ha dimestichezza col latino – è un gerundivo e significa: [le feste] “che devono essere proclamate”.
Quanto al nome dei mesi abbiamo già detto che esso è un aggettivo: all’origine un numerale. E, quasi sempre, era accompagnato dal sostantivo “mensis”. Quelli che oggi non sono indicati col numerale hanno preso, nel tempo, il loro nome da feste, divinità, o personaggi storici.
Ianuarius da Ianus (il dio Giano) o da ianua (porta).
Februarius da februa (purificazione).
Martius da Mars (il dio Marte). Aprilis da aperio (aprire: aperto, soleggiato). Maius da Maia (la dea Maia). Iunius da Iuno (la dea Giunone); Iulius (da Giulio Cesare); Augustus (da Cesare Ottaviano Augusto); September; October; November; December, restano il ricordo di quando l’anno contava dieci mesi.

Pillole di cultura: Juorno

a cura del prof. Luigi Casale

In latino “giorno” era detto “dies”. I ragazzi di prima liceo, primo anno di latino, sanno che tutti i nomi di 5^ declinazione sono femminili, ad eccezione di uno: dies = giorno, che è maschile. Molte volte però per il meccanismo dell’analogia anche dies veniva trattato come femminile. Era un errore? Chi lo sa? Sta di fatto che per la pratica di quest’uso (o se preferite: per il ripetersi di questo errore) la parola dies a volte figurava come nome maschile, a volte come nome femminile. Alla distanza, poi, le grammatiche scolastiche hanno teorizzato anche una leggera differenza di significato tra i due nomi al punto da specializzarli a seconda delle situazioni di contesto in cui la parola era utilizzata.
Sicché c’è un dies maschile e una dies femminile.
L’aggettivo derivato da dies è “diurnus” o “diurna”, che si è conservato nella lingua italiana col medesimo significato (che riguarda il giorno, che appartiene al giorno). Da questa forma, seguendo le regole insite nella lingua stessa che col tempo fanno trasformare la parlata, da “diurnu” si è passato all’odierno “juornu”, corrispondente all’italiano “giorno”.
A proposito, facciamo notare che “odierno” deriva dall’avverbio “hodie = oggi”, che ha origine nell’espressione latina “hoc die” (in questo giorno). Inoltre la parola “die” è attestata nella lingua italiana nella forma apocopata – scusate, ma si dice proprio così e significa: troncata – “di’” . Esempio: “Buon di’”.
Ritorniamo al “diurnus/giorno”. Per dire che anche in italiano la lingua si è attrezzata di due parole, una maschile e l’altra femminile, per indicare l’arco temporale delle 24 ore: esse sono “giorno” e “giornata”. Non vi spiego la differenza tra le due, perché non la conosco; ma vi invito a verificare se nel vostro personalissimo modo di usare le parole c’è la percezione di una differenza di significato tra giorno e giornata.

Pillole di cultura: Lontano

a cura del prof. Luigi Casale

Nell’illustrare il lemma “pagano” il cui valore etimologico è quello di “appartenente al pagus” (parola latina che equivale a villaggio), abbiamo richiamato anche il termine “vicino”, che vale “appartenente al vicus” (quartiere). E abbiamo anche detto che – a rigore – un vocabolo che potrebbe indica il contrario e dell’uno e dell’altro è “urbanus” (appartenente all’urbs = città [Roma]).
A questi aggettivi che indicano una provenienza o appartenenza, possiamo aggiungere anche “villanus” (appartenente alla “villa” = fattoria). Usati come sostantivi essi diventano: il pagano, il vicino, il villano, e, anche se meno usato come sostantivo, l’urbano (il cittadino).
Ora tutti questi nomi nell’italiano contemporaneo hanno perduto la loro connotazione originaria, propria del tratto semantico di “appartenenza ad un gruppo sociologico” (definito in base al luogo), e hanno recuperato un nuovo significato, connotato dalle abitudini di vita e dal comportamento morale. Significato che, pur se aggiuntosi naturalmente in forza dell’uso linguistico (metafora) di queste parole da parte dei parlanti, esso è stato determinato da un pregiudizio egocentrico e discriminatorio di tipo psicologico che tende a differenziare e quindi ad escludere chi è diverso da noi.
Perciò oggi l’opposizione urbano / villano ha come accezione principale quella di “educato / maleducato”. Così come pagano si oppone a cristiano, e vicino è il contrario di lontano.
Così siamo giunti alla parola che vogliamo esaminare: “lontano”.
Essa, come abbiamo detto, si contrappone a “vicino”, sia come avverbio che come aggettivo.
Ora si tratta di cercare di recuperarne la trasparenza attraverso l’indagine etimologica e la storia delle parole, così come abbiamo fatto con “vicino” e con le altre parole già studiate.
“Lontano” è l’adattamento nella lingua italiana di un aggettivo latino medievale: “longitanus”: dalla stessa radice “long-” (che concettualmente indica la distanza).
In epoca classica, infatti, il latino usava le seguenti parole: longus (aggettivo, che significava lungo) e longe (avverbio, che significava lontano).
A questo punto va detto subito che la spazialità (cioè la collocazione relativa di due oggetti) nella lingua latina, quali che siano i vocaboli usati, ha sempre la doppia dimensione dello spazio e del tempo, dimensione che solo il contesto può rendere esplicita e isolare.
Da queste due parole, perciò, derivano: longinque (lontano / dopo un lungo intervallo di tempo), longinquus (luogo esteso / di lunga durata; distante / antico), longinquitas (lunghezza / distanza / lunga durata), longiter (lontano / a distanza), longitudo (lunghezza / lunga durata), longiturnitas (longevità), e, per finire, longitanus (lontano), diffusesi nel medioevo.

 

L.C.

 

 

 

Pillole di cultura: Mambrucco

a cura del prof. Luigi Casale

“La fortuna del signor Giuliano Averna di Venezia! Svelato il mistero del Mambrucco!” Potrebbe essere l’occhiello (soprattitolo) di un titolo sensazionale. O la voce dello strillone che di quell’avvenimento va gridando la notizia in prima pagina….
E’ un guaio non conoscere le lingue… Ma fortunatamente ci sono gli amici. Quanto a me ne parlo bene un paio, l’italiano e quella che si dice “materna”. [Cari amici, sentite che bella connotazione ha questa parola?].
Perciò chiedo venia se la ricostruzione della parola non dovesse soddisfare completamente. E vi prego di scusare anche l’amico poliglotta che me l’ha suggerita. Come diceva mio padre…, non so se la mia ignoranza arriva alla vostra.
Forse il signor Giuliano aveva ragione circa il significato di questa parola. Ma nel senso che adesso vi dirò.
Ancora una volta, anche nella determinazione del significato della parola mambrucco ha giocato il pregiudizio sociologico e la protervia, causata da un egocentrismo becero e deleterio, di chi l’ha adottata e di chi la usa. Debolezze umane! Stupidità!
Ma torniamo alle parole, possibilmente con animo libero.
A detta del mio amico poliglotta, mambrucco dovrebbe essere una parola onomatopeica (che ripete cioè il suono – attraverso la scelta delle parole giuste (fonetica) – dell’oggetto che si sta nominando. La si trova spesso nelle poesie del Pascoli e di tanti altri poeti d’ogni lingua e d’ogni epoca. [Chi non ricorda il verso: “Mentre la neve fiocca, fiocca, fiocca” oppure quest’altro “Ecco, ecco, un cocco, un cocco per te.”?].
L’onomatopea la si trova anche nei fumetti. Ma questa è un tipo di onomatopea troppo facile (stupida come onomatopea, ma d’effetto, e perciò insostituibile), che non vale la pena neanche chiamarla tale. La ricordiamo solo per evitare che qualche studente la consideri onomatopea, nel senso letterale con cui l’ho definita. Poi c’è ancora un’altra onomatopea che è quella che ripete, storpiate, le parole degli altri, le espressioni di lingua ascoltate dagli “stranieri”. (Anche la parola “straniero”, sociologicamente parlando, non è che sia tanto simpatica!)
Ognuno di noi sa come chiama il vicino parodiandone il modo di parlare. Cin, ci, là è il cinese; Scimmsciamm è il provinciale.
Immaginate voi, che il napoletano distingue lo stabiese dal modo di dire “che cosè?”.
Perché il napoletano di Napoli dice “ched’è”. Il provinciale dal lato di Torre dice “chigghiè” o “ch’rè”. [Scusate se la scrittura non corrisponde alle vostre aspettative. Stiamo concordando, con i più fedeli lettori, una maniera condivisa di scrivere il napoletano.]
Fatto il preambolo, tra il linguistico e il moralistico, passiamo al nostro mambrucco.
Mi dicono che mambrucco dovrebbe essere la parodia di una espressone tedesca: la parola voleva proprio indicare il tedesco che parla tedesco. La vita è strana! … e anche giusta, a modo suo.
Ma questo dove poteva succedere se non in un contesto dove col tedesco si era costretti a convivere? Se non storicamente o geograficamente, almeno idealmente e culturalmente.
Mambrucco quindi è la deformazione parodiata – specialità tutta italiana – dell’espressione tedesca “man braucht” (serve, c’è bisogno, occorre), probabilmente sentita come una specie di intercalare, dall’interlocutore di lingua italiana. Un’ultima precisazione: questa parola a Napoli è stata importata. Perciò non la conoscevo. A questo punto il signor Giuliano è libero di riempire la parola di tutti i significati che vuole. Ma affinché essa diventi segno del codice-lingua, c’è bisogno (man braucht!) che anche gli altri parlanti ne riconoscano il significato (più o meno).
Ma la storia non è cominciata con i veneziani verso i tedeschi, o con i napoletani verso i torresi, o verso quelli dalla parte di Pozzuoli. O degli stabiesi verso gli scafatesi. E’ partita molti millenni fa. (E adesso che ci troviamo a vivere tutti mischiati: dovremmo chiamarci reciprocamene: millevoci.)
Pensate alla parola “barbaro”. Essa è passata a Roma dalla Grecia. I Greci, abituati ad ascoltare suoni duri (le consonanti cosiddette mute: k, p, t, gh, d, … le occlusive, o esplosive, insomma) cominciarono a chiamare “barbarbar” (è lo stesso meccanismo della onomatopea che ho definito di secondo tipo: più o meno, quella dei fumetti, per intenderci) i vicini parlanti che utilizzavano più labiali e liquide. Da qui la parola “bàrbaroi” (i barbari). E così nacquero anche i barbari, che forse erano più affettuosi, rispettosi e simpatici di loro. Ma di questo non sono sicuro. Non vorrei adesso che per questo qualcuno cominciasse a chiamarmi “piùomeno”.

Pillole di cultura: Marmellata

a cura del prof. Luigi Casale

Le parole sono come le ciliegie: una tira l’altra. E qui nel discorso entrano a proposito anche le ciliegie. Veramente. Infatti oggi ho in mente di parlarvi di “marmellata”.
Subito la parola marmellata mi ha rimandato a “confettura”, questa a “confetti”, e da quest’ultima sono giunto al verbo latino “conficio”.
La maggior parte dei produttori di marmellata (la conserva alimentare a base di frutta preparata con l’aggiunta di sostanze zuccherine) indica sui vasetti della dolce e proverbiale leccornìa la definizione di “confettura”. Quasi che marmellata fosse un termine regionale, da lessico familiare. Convinti che confettura sia più adatto alla denominazione della categoria merceologica per i risvolti giuridici, normativi e commerciali della comunicazione. Eppure c’è stato un tempo in cui passava l’idea – non so fino a che punto corrispondente alla realtà dei fatti – che la marmellata fosse un prodotto diverso dalla confettura. Diverso per qualità, per prezzo, e per lo stesso processo di preparazione del prodotto finale. Ma quali che fossero i referenti reali delle due parole, a noi interessano i significati, le accezioni, la loro formazione e la loro storia.
Marmellata è di origine portoghese (marmelada) e significa “confettura di marmelo (mela cotogna)”. Perciò “cotognata” è la traduzione puntuale, precisa, della parola “marmelada”. E’ strano, ma anche da noi, in Italia, l’unica marmellata che prenda il nome dalla frutta utilizzata è la “cotognata”. Della cotognata oggi ci è rimasto solo un nostalgico ricordo. Poi, il termine d’importazione portoghese è stato applicato per estensione a tutte le altre “marmellate”, o meglio, confetture, per chiamarle col termine generico.
Così “marmellata”, pur significando “cotognata”, si è esteso a tutte le confetture fatte con ogni tipo di frutta. Sempre nella lingua portoghese la fabbrica di marmellata si chiama “confeitaria”.
Non è escluso tuttavia che la seconda parte delle due parole portoghesi: “marmelata” (-melata) e “marmelo” (-melo), abbiano a che fare col miele (parola di provenienza greca, e poi latina, diffusa nell’area mediterranea). E questo spiegherebbe, da una parte, il modo più antico – caduto in disuso con la diffusione dello zucchero – di preparare le conserve di frutta; dall’altra, l’eventuale differenza, dove essa esista, tra le due qualità di prodotti.
La nostra “confettura” – come parola – viene da confetto, da cui anche “confettificio” e “confetteria”. Ma non ha nessun rapporto semantico con “zucchero”. Significa semplicemente “fatta con …”, “preparata con …”. (Anche se questi preparati rientrano tra quelli ottenuti grazie all’impiego di sostanze zuccherine.) Come già accennato, tutte queste parole hanno origine comune nel verbo latino “fàcere” (=fare). Cioè: “preparare”. Non si chiamano “faccende” anche tutti i lavori di casa svolti dalla padrona?
E qui è necessario richiamare alcune nozioni di latino che già ho avuto modo di presentare in analoghe situazioni. Il verbo fàcere al presente è “facio” (=io faccio), al perfetto è “feci” (=ho fatto), e al participio perfetto è “factum” (=fatto). Notiamo la trasformazione della vocale. Il verbo “facere” cambia la vocale radicale [la “a” di fac] non solo all’interno della sua coniugazione, ma anche quando crea verbi derivati, composti cioè col prefisso preposizionale.
A seconda della preposizione che si aggiunge come preverbio (cum=con; ad=verso; de=da [sottrazione]; e=da [provenienza]; in=verso l’interno; per=per [intensificazione]; sub=sotto; ecc,) o dell’avverbio, abbiamo i verbi: cum+facio (conficio, confeci, confectum), ad+facio (afficio, affeci, affectum), de+facio, (deficio, defeci, defectum), e+facio (efficio, effeci, effectum), in-facio (inficio, infeci, infectum), per-facio (perficio, perfeci, perfectum), sub+facio (sufficio, suffeci, sufficere); e – se il preverbio è un avverbio – i verbi bene+facio (benefacio, benefeci, benefactum), male+facio (malefacio, malefeci, malefactum). Come si vede, in essi la “a” di facio si è trasformata in “i” oppure in “e”. Questo fenomeno fonetico, tipico delle lingue indeuropee, altrove l’abbiamo chiamato apofonia, o gradazione vocalica, o Umlaut.
[Vedete, cari amici delle scuole medie, quante parole della lingua italiana trovano origine nel verbo fare, a cui difficilmente pensiamo! Affetto, confetto, difetto, effetto, infetto, perfetto, deficiente, efficiente, sufficiente, inficiare, superficie, maleficio, beneficio, opificio, panificio, ecc. ecc. Così anche confezione e confettura. Ognuna di queste parole meriterebbe un’analisi semantica particolareggiata. A voi il compito di provarvici.]
Confetto, confettificio e confettura fanno parte della famiglia. Quindi, confetto essenzialmente significa “fatto”, “preparato con diversi ingredienti”, anche se poi va a significare il prodotto finito, in questo caso i confetti. La stessa cosa vale per confettificio e confettura.