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Pillole di cultura: Messa

a cura del prof. Luigi Casale

Andare di palo in frasca alla scoperta delle parole, è quello che di solito facciamo in questo spazio virtuale del Libero Ricercatore: tra detti e motti cerchiamo parole comuni e parole dotte.

Il titolo dell’intervento di oggi ci propone la parola “messa”. Se la leggiamo, nella sua strutturazione italiana, come participio del verbo “mettere” significa: “appoggiata”, “adagiata”, “depositata”, “conservata”, a seconda dell’oggetto, del contesto comunicativo, dell’avverbio con cui l’accompagniamo. “Ho messo l’orologio”; “ho messo da parte un piccolo risparmio”; “mettere tutto in ordine”; “mettere in evidenza”; e così via. Ma se la leggiamo come sostantivo, cioè con un articolo davanti: “la messa”, allora essa significa tutt’altra cosa. Significa: “celebrazione eucaristica”; assemblea domenicale dei cattolici intorno all’altare. La santa Messa, insomma. “Dire la messa”; “partecipare alla messa”; “la messa della mezzanotte di Natale”; “una messa solenne”; ecc. … Mentre, nel primo caso “messa” è uguale a “deposta” oppure semplicemente “posta”. Tutto quello che può significare, insomma, il verbo “mettere”: come abbiamo detto.

Per chi ricorda quel po’ di latino scolastico che ancora manteniamo nella mente, è evidente che il verbo italiano “mettere” – dal punto di vista del significante – è la naturale trasformazione del verbo latino “mittere” (paradigma: mitto, misi, missum, mittere). Da “missum” (supino) deriva il participio “missus”; al femminile “missa”. Solo che nei duemila anni trascorsi dal tempo di Cesare e Cicerone fino ad oggi, il “mittere” dei latini ha cambiato significato, mentre cambiava la forma fonica. All’origine “mittere” era mandare. Qualche cosa di diverso del nostro “mettere” (che gli antichi Romani dicevano “pònere”). Anche se, con un piccolo ulteriore sforzo di comprensione (intuizioni, deduzioni, e controdeduzioni) potremmo facilmente riconoscere una certa affinità semantica tra i due significati d’uso: cosa che ci può fare immaginare la causa di questo scivolamento di significato.

Se “mittere” significa mandare – vedi le parole italiane che da questo verbo si sono formate, come: missione, missiva, mittente, messo [comunale], commesso, commissione – perché mai la messa (cerimonia religiosa dei cristiani) si chiama così? Intanto mi preme ricordare che la maggior parte delle parole significative del linguaggio della religione cristiana sono parole greche o latine, mai modificate nel corso dei secoli, oltre alle pochissime di derivazione ebraica. Si sa anche che geograficamente le origini del cristianesimo sono nel medio-oriente, poi in Grecia, e in seguito a Roma, in un’epoca in cui la cultura è caratterizzata da un fenomeno che gli studiosi chiamano “ellenismo” in conseguenza del fatto che in tutto il mondo conosciuto (ecumène = terra abitata) si diffonde la parlata greca, fino a quando lo stesso mondo non sarà conquistato da Roma; e allora insieme al greco si parlerà anche il latino: un bilinguismo diffuso, con preferenza del greco in oriente e del latino in occidente. Chi pratica il culto cattolico e va a messa, sa che alla fine della celebrazione liturgica, il celebrante saluta i fedeli con questa espressione: Andate, la messa è finita! Questa è la traduzione della formula finale latina: “Ite, missa est”, che fin dall’antichità si è conservata intatta nella forma, avendone mutato il significato. In quanto, effettivamente, la traduzione letterale di “ite missa est” è “andate, è stata mandata”. Infatti “missa est” è la terza persona singolare del perfetto (corrispondente al nostro passato prossimo) della diàtesi passiva (la forma passiva della coniugazione del verbo) di “mìttere”. Cioè: E’ stata mandata. Essendo “missa” un femminile. Ma qual è il soggetto del mandare? Qual è la cosa che è stata mandata? Qui rimangono incertezze anche tra gli storici. Certamente è l’ostia consacrata, l’eucaristia, che “era mandata” alla fine della celebrazione della commemorazione liturgica; e la comunicazione all’assemblea da parte del celebrante dell’avvenuto invio dell’ostia, indicava appunto la conclusione del rito; una specie di saluto di commiato, quasi a dire: “Arrivederci alla prossima riunione”.

Secondo questa interpretazione, due sono le ipotesi: o l’eucaristia, consacrata nelle catacombe o in una casa privata, era inviata ai cristiani nelle carceri e alle persone che per sicurezza personale non si dichiaravano apertamente come cristiani; oppure – in epoca posteriore – essa veniva mandata attraverso i diaconi alle comunità periferiche che non avendo la presenza del presbitero (= anziano: il sacerdote consacrato, da cui la parola: “prete”) non potevano celebrare l’Eucaristia.

Un’altra interpretazione è quella secondo la quale ad essere mandata era, in generale, l’offerta sacrificale (in latino “hostia” = la vittima). In questo caso “Ite, missa est” era un vero saluto per dire “la funzione è finita”, letteralmente: L’offerta del sacrificio è stata inviata al cielo, alla divinità, a Dio. E allora la formula potrebbe valere anche per il sacrificio pagano, in cui la vittima (hostia) era un animale.

Da qui probabilmente la spiegazione della traduzione moderna, molto approssimativa, ma che dà un senso al saluto: “Andate (la vittima) è stata mandata (offerta)” , e di conseguenza “Andate il rito è terminato”.

Ite missa est.

L.C.

Pillole di cultura: ‘Ncignà

a cura del prof. Luigi Casale

Il mio rapporto con questa parola è di grande familiarità, nel senso che, pur avendo avuto sempre poco da incignarmi, l’eccezionalità dell’avvenimento che essa denota, mi ci ha fatto affezionare. Comunque, come parola usata dalla prima infanzia, essa fa parte del mio patrimonio lessicale più caro alla memoria. Richiama la mamma, sempre; il papà delle giornate di festa; le prime comparenze in società, la giovinezza, l’amore, lo sposalizio, in seguito, la famiglia; dopo, il verbo ha cominciato ad essere più desueto, continuando tuttavia ad essere sempre gradita la rara occasione di incignarmi qualcosa, perché, alla fine, ha associato alla mamma, nella memoria più cara, anche la presenza della sposa.
Nella mia adolescenza quando iniziavo a frequentare… , a giocare… con la para-etimologia, nella mia ingenuità, l’avevo associata alla parola “cigno”, e la spiegavo come “farsi bello come il cigno”.
La prima delusione l’ho ricevuta quando l’insegnante d’italiano (di Castellammare, appunto), nel suo parlare corrente, corretto e forbito “in lingua”, l’ha usata come una parola per lui normale – mi sembrava – e ricorrente. Allora esiste anche nella lingua italiana? Mi son chiesto. Ed ho dovuto prenderne atto. Insieme al fatto che si cresce e si diventa grandi. Allora si impara. E si impara anche a guardare in faccia la realtà. Intanto questa sorpresa mi ha consentito di cercarla sul vocabolario italiano (non tutti la riportano) e di apprenderne un percorso etimologico più appropriato, perché scientifico. “Da una forma di tardo latino: incaeniare, si risale all’aggettivo greco kainόs (nuovo)”. Giacché ci siamo, consiglio a qualche liberoricercatore più volenteroso, non proprio giovanissimo come i miei amici di scuola media, di visitare il sito www.kainos.it (rivista telematica di filosofia), dove, anche lì, si possono trovare delle “novità”.
Finché il vocabolario mi dice voce regionale, va bene. Poi scopro che esiste anche il verbo “incincignare”, indicata come voce del linguaggio familiare toscano che significa sgualcire (maltrattare e rovinare, insomma). E si dice del tessuto. Forse è l’opposto di incignare.
Vedete che è sempre meglio sentire più campane?! E qui mi corre l’obbligo di citare il dizionario da cui ho appreso tutte queste informazioni. Non è pubblicità, badate. Ho detto obbligo: infatti si tratta di un obbligo giuridico e morale. Ma anche un riconoscimento di meriti, che non mi spettano.
Il dizionario è il DIR (dizionario italiano ragionato), edito da G. D’Anna – Sintesi [E non vi indico la data per due motivi: primo perché la pubblicazione ormai è un classico, anche se di poca fortuna; secondo: per non far sapere in giro da quanti anni sono nella condizione di pensionato]. Direttori e coordinatori del progetto: Angelo Gianni e Luciano Satta.
Allora ai miei amici di scuola media dico che, se vi va, se vi piace, la parola incignare o incignarsi (falso riflessivo: si chiama forma media del verbo) potete anche usarla nel tema in classe. E se non fate più il tema in classe, allora nelle vostre “scritture comunicative”. A risentirci. Fino a quando non vi scocciate.

Pillole di cultura: Occidente

a cura del prof. Luigi Casale

Per tutta la durata delle scuole elementari i quattro punti cardinali, sia quando se ne parlava come argomento specifico della lezione di geografia, sia anche quando in maniera estemporanea le parole ricorrevano nei testi letterari, erano chiamati ogni volta con nomi diversi, creando in noi bambini una certa confusione. Se ti trovavi ad avere una mente allenata al giudizio critico, il problema forse te lo ponevi; ma da solo non riuscivi a trovare la soluzione, né avevi il coraggio di chiedere. Se poi eri fantasioso e distratto, neanche ti accorgevi del cambiamento di nome, per cui la confusione rimaneva e non sapevi da che parte era l’occidente, oppure il settentrione. Senza dire che inizialmente e per lungo tempo non avevi neppure realizzato che cosa esattamente fossero i cosiddetti punti cardinali, e che cosa volessero significare quei nomi tanto usati, ma certamente non appartenenti alla lingua italiana: Est, Ovest, Nord e Sud. Questo almeno fino alla terza elementare.

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In seguito i punti cardinali li dovevi riconoscere dalla direzione delle braccia distese: a sinistra c’era Est, a destra Ovest, dietro la schiena Nord, davanti Sud (ma solo se sapevi come disporti, vale a dire che già eri capace di “orientarti” da solo). E non era neppure necessario distendere effettivamente le braccia, perché bastavano quelle dell’immagine del libro sussidiario (l’altro libro era il libro di lettura) dove un bambino aveva le mani distese e prolungate da una freccia. Intanto avevi acquisito una serie di parole nuove (e strane), come Oriente e Occidente, Settentrione e Meridione. E ancora ti scuotevi di nuovo quando ti accorgevi che erano usati anche i termini: Levante, o Ponente, o Mezzogiorno, che poi erano quelli già sentiti in famiglia o per strada, da contadini e pescatori (altro che previsioni del tempo!) e che ormai eri in grado di riferire in maniera corretta ad una direzione lontana all’orizzonte, alla posizione di certe strade, ad un punto del panorama, alla zona di cielo dove spunta il sole o dove tramonta, o dove si trova nei diversi momenti della giornata. Mentre a scuola solo ti dicevano che il Nord (cioè: il “lato di cielo dove il sole non arriva mai”) era dalla parte del Vesuvio. Allora, finalmente, disponendoci con le spalle al Vesuvio (dove non avevamo necessità di guardare: tanto il sole là non ci arrivava mai) e distendendo le braccia, potevamo finalmente riconoscere l’est sulla punta della mano sinistra, il sud sulla punta del naso, l’ovest sulla punta della mano destra. (Ma eravamo ormai più grandicelli e già ci ricordavamo con leggera nostalgia del disegno del bambino del libro sussidiario). Forse eravamo alla scuola media. Fu allora che un insegnante ci indicò la corrispondenza biunivoca dei singoli nomi all’interno delle tre serie di denominazione dei quattro punti cardinali, quando già nei libri e sulle carte geografiche cominciavamo a familiarizzare con il simbolo della rosa dei venti con tutti quei nomi che neanche immaginavamo che ci fossero tanti venti: con la loro provenienza e con le altre direzioni intermedie indicate sulle bisettrici dei quattro quadranti in cui veniva suddivisa la mappa del cielo. Est, ovest, nord, sud. Ma perché poi non: est, sud, ovest e nord? Che è il senso del movimento del sole, o anche della successione delle ore della giornata in corrispondenza con gli spostamenti del sole? Così imparammo ad usare anche i termini boreale ed australe (e via discorrendo) per indicare l’emisfero nord e l’emisfero sud della Terra. Perciò si veniva a formare un sistema di due rette perpendicolari (assi) ai cui estremi, sulla direttrice orizzontale si pongono i punti Est-Ovest e su quella verticale i punti Nord-Sud (nomi di derivazione anglosassone o di antico tedesco). Ma, come abbiamo visto – venivano usati anche gli altri nomi (derivati dal greco e dal latino): Oriente ed Occidente; Settentrione e Meridione; Levante, Ponente, Tramontana, Mezzogiorno; Boreale e Australe (utilizzati massimamente per indicare i due emisferi in cui l’equatore divide il globo terrestre).

Cerchiamo ora di analizzarli ai livelli morfologico e semantico. Le prime quattro sono parole di origine latina. Oriente è participio del verbo orior (nascere, sorgere) per cui l’espressione « sole oriente » (per chi ha ancora reminiscenze di studi di latino, aggiungiamo: ablativo assoluto) significava « mentre il sole sorge ». Poi nella parlata corrente è rimasto solo « oriente ». Stesso discorso vale per « occidente »: participio del verbo occidere [ob+cado = cado in avanti]. Quindi « sole occidente », il sole che cade. Settentrione invece viene da “septem triones” (sette bestie). Triones era una parola poco usata (e solo al plurale); essa designava i buoi da tiro aggiogati. Erano chiamate così le sette stelle dell’Orsa maggiore [il Carro] e di quella minore. Perciò le “septem triones” erano, per metafora e poi per antonomasia, le stelle del Gran Carro, quindi il Nord. Meridione si è formato sul modello strutturale di settentrione. Meridio (o meglio: meridie) deriva da “media die” (“medio die”, se dies – giorno – era usato al maschile) e significava “a metà della giornata”, quindi in direzione di dove si trova il sole a mezzogiorno. Levante e ponente – come si vede chiaramente – sono altrettanti participi (di verbi italiani, questa volta: levare e porre). Levante = che si leva ; ponente = che va a posarsi. Mezzogiorno – l’abbiamo già visto – è la traduzione di meridies (che è la trasformazione in avverbio o la sostantivizzazione dell’espressione « medio die »). Boreale, Tramontana, Australe derivano dal nome dei venti (origine mitologica per Borea e Austro; mentre il terzo viene da “trans montanus” = proveniente da dietro i monti. Nomi che oggi troviamo proprio sulla rosa dei venti). Oriente e Occidente, Settentrione e Meridione, come ognuno sa, sono usati anche per indicare aree geografiche: l’Occidente, l’Oriente, il Vicino Oriente, il Medio Oriente, l’Estremo Oriente. Così anche Levante e Ponente; vedi la denominazione della costa ligure o l’appellativo di Sol Levante che si dà al Giappone.

 

L.C

Pillole di cultura: Oratorio

a cura del prof. Luigi Casale

Da qualche anno – si sa – curo la rubrica di semantica storica sul sito internet del Libero Ricercatore di Stabia (www.liberoricercatore.it): una qualificata presenza di carattere popolare, sociale, e culturale nella città. Lo scopo dichiarato è quello di spiegare (cercare di chiarire) perché si usano certe parole e come esse hanno acquistato il significato che oggi gli diamo.
Si sa anche che la pratica della lingua comporta, nel tempo, una trasformazione delle strutture linguistiche, e fonetiche (modificazione dei suoni significativi), e morfologiche (delle forme grammaticali), e semantiche (del loro significato, cioè di quello che esse vogliono dire; o meglio di quello che noi vogliamo dire). È quello che si chiama “evoluzione della lingua”.
E così, riuscire a comprendere e spiegare il meccanismo dei fenomeni evolutivi – fin dove possiamo arrivare, naturalmente – rende trasparente la lingua che usiamo.
“Non è che con una lingua opaca si comunichi di meno”. L’abbiamo detto (e anche scritto) nella dichiarazione programmatica. E lo ripeto qui.
E’ solo che con la lingua trasparente si ha una migliore comprensione delle cose di cui si sta parlando. Perciò si esercita un controllo maggiore sulla realtà, controllo indispensabile alla comprensione dei fatti e alla formulazione dei giudizi.
Oggi, come indicato nel titolo dell’articolo, intendo parlare di “oratorio”; e del senso che la parola comporta, in riferimento all’oggetto indicato (il “referente”: cioè la cosa che normalmente chiamiamo “oratorio”) per fare alcune considerazioni sulla portata, sulla storia, sulla funzione, dell’Oratorio. Per dare al lettore che mi segue oltre alla informazione anche un minimo di formazione (arricchimento culturale e umano).
Noi, data la storica presenza dei Salesiani a Castellammare, abbiamo una certa familiarità con l’oratorio. Ma proprio questa eccessiva sicurezza dovuta al fatto di presumere di sapere che cosa sia l’oratorio, potrebbe portarci a pensare che esso sia solo il luogo dove si gioca a pallone, si fa teatro, o altre iniziative di carattere associativo di tipo assistenziale o di tipo formativo.
Ma in città esiste un altro luogo, più antico della presenza salesiana, che si chiama “oratorio” ed è l’Oratorio di san Filippo Neri e san Luigi Gonzaga, a piazza Giovanni XXIII, accanto al Museo diocesano, una volta attivo e frequentato. E non sappiamo se lì si giocasse a pallone e si facesse teatro.

* * *

Oratorio, secondo la definizione del vocabolario Devoto e Oli, è “il luogo sacro destinato al culto e riservato a determinate persone o comunità”. E credo che ci possa bastare. Ma subito aggiungiamo a questo la parte di significato che noi stessi ci siamo formato nella testa attraverso l’uso di questa parola, e il contatto con l’oggetto che essa indica. Infatti, a mano a mano che si andavano organizzando anche dei servizi sociali, educativi, e ricreativi, o per la gioventù o per i gruppi oppure per le famiglie, “oratorio” per noi è divenuto, per estensione, anche l’insieme degli spazi attrezzati dove queste attività si svolgono; col rischio di perderci, della parola, il suo originario significato. Cioè che l’oratorio si costruisce intorno ad una chiesa, o ad una cappella, o comunque di un angolo (sala di riunioni o luogo consacrato) dove pregare.
“Oro/orare” – verbo latino – significa infatti: “parlo, invoco, supplico”. Da questo verbo deriva tutta una serie di parole che ancora usiamo, tra cui: oratore (colui che tiene un discorso) e orazione (discorso pubblico, ma anche preghiera). E chi ha ancora una reminiscenza di latino, ricorderà le espressioni sentite durante l’infanzia: “ora pro nobis” (prega per noi!) delle litanie alla Madonna e ai santi; ma anche “ora pro nobis peccatoribus” (prega per noi peccatori) dell’Ave Maria; oppure “orate fratres” (pregate, fratelli!), l’invito rivolto ai fedeli da parte del sacerdote celebrante prima di iniziare la preghiera eucaristica della messa; o anche “ora et labora” (prega e lavora!), il significativo motto benedettino consegnato al monaci come emblema di una regola di vita.
Nella storia a noi più vicina, la spiritualità di S. Filippo Neri, ripresa poi da S. Giovanni Bosco, ha considerato il gioco, la ricreazione, il lavoro, l’attività formativa, come una preghiera. In un progetto di educazione totale della persona. Per questo motivo queste attività si svolgono in Oratorio. Esse da sole già sono preghiera, tuttavia si sublimano nel momento della invocazione a Dio, nel luogo deputato: che sia il campo di calcio, oppure il teatro, o la stanza delle riunioni, o la cappella dove si custodisce il Sacramento.
Ciò significa che al centro di tutte le attività dell’oratorio c’è un tipo di catechesi (insegnamento religioso) costruito a partire dal proprio vissuto individuale, offerto a Dio come preghiera. Infatti è questo l’oratorio: come per i monaci benedettini, il luogo dove tutta la vita è una preghiera.
Ma volendo si potrebbe anche prescindere da una opzione di fede, intesa come scelta personale di adesione ad una proposta religiosa e accettazione di una rivelazione divina, e spostare il problema sul piano della ragione o della coscienza. E troveremmo comunque una risposta, che, antropologicamente parlando, tenga conto della tradizione culturale e storica di una collettività. Anche in questo caso non si dovrebbe prescindere dalla centralità della “preghiera” nella vita dell’uomo, e si recupererebbe allora, ancora una volta sebbene in maniera laica, il senso originario di “oratorio”, attraverso la valorizzazione del culto alla divinità, l’adorazione del Dio della vita, le devozioni scaturite dalla pratica dei buoni sentimenti, e un ideale di vita accettata e svolta in sintonia col creato. Almeno per gli esseri razionali.
Per questo motivo anche in una possibile visione laica – e diciamo pure laicista – chiunque può avvicinarsi all’oratorio rispettandone la finalità di chi l’ha ideato e l’ha voluto, e di chi, accettandone l’eredità, ne ha fatto motivo di impegno civile, morale e religioso. Come si vede, qui non c’è né proselitismo, né coartazione di coscienze, ma piuttosto una vera educazione allo spirito libero e alla responsabilità personale.
Anzi a voler essere veramente “laici”, bisognerebbe partire dal riconoscere che nel progetto educativo, è primaria e fondamentale l’esigenza – ai fini di una educazione totale e completa della persona – della preghiera non come qualcosa di estraneo o di aggiunto alla umanità, ma come l’atteggiamento più naturale e congeniale della stessa condizione umana.

 

L.C.

 

 

Pillole di cultura: Ordo Divini Officii

a cura del prof. Luigi Casale

L’Ordo Divini Officii è un lunario, un calendario, un annuario, o come vogliamo chiamarlo. Letteralmente è “un’ordine di servizio”.
Una guida, insomma. Solo che quest’ordine lo emana – anno per anno – l’Ordinario (il vescovo) del luogo e riguarda il Servizio Divino. Cioè la liturgia: e in particolare la Messa e la preghiera comunitaria (corale) che i religiosi sono tenuti a fare durante la giornata (quello che ancora si chiama “l’Ufficio divino”), che da quando i preti se lo dicono da soli in separata sede è chiamato anche “breviario”, dal nome del libro personale che è andato a sostituire i grandi codici che venivano disposti sui leggìi nei Cori delle cattedrali e dei conventi.
Quel libretto esiste ancora, anche se in lingua italiana (ma in certi posti è ancora in latino: dove si avvicendano preti di diversa nazionalità).
Lo puoi trovare nella sagrestia di ogni chiesa o cappella, o a casa di ogni sacerdote. Credo che nelle Curie vescovili (anche in quella di Castellammare) siano raccolte le copie di tutti gli anni, da quando si è iniziato a pubblicarlo. A voi è capitato di trovare quella del 1900. Se diamo traduzione del frontespizio (lo farò di seguito) si capisce meglio di che si tratta. Intanto penso sia il caso di spiegare com’è fatto. È un calendario a forma di libro, in cui in corrispondenza della data, ogni giorno, è indicato che giorno è: dom (domenica) feria prima (lunedì), feria secunda (martedì), fino a feria sexta. Poi c’è il nome del santo o dei santi di cui si fa memoria, o il nome della festa liturgica del ciclo annuale. Il colore dei paramenti da utilizzare, l’arredo e gli altri paramenti che si possono usare. Poi tutte le preghiere che si devono aggiungere o che si possono tralasciare quel giorno dagli altri “ordinari” (i libri ufficiali delle preghiere). Poi come si devono svolgere le cerimonie del culto divino. Ecc. ecc…
All’inizio del libretto vi sono alcune tabelle (un calendario in sintesi con le fasi della luna e le date delle feste più importanti) e la spiegazione dei segni abbreviativi.
Facciamo un esempio: alla pagina 6 (continuando nella 7) troviamo:
4 Fer. 5 …….
……….
5 Fer. 6 ……
…………
+ (la croce indica che è festa solenne) 6 Sabb …(te lo scrivo in italiano) Epifania del Signore; dupl (si possono dire due messe) [Festa] di prima classe con ottava, ecc. Poi seguono tutte le raccomandazioni di quali preghiere fare e di quali cerimonie e di quali gesti. Con il relativo decreto (se c’è) che lo prescrive.

Adesso traduciamo il frontespizio. Il resto se vi interessa potete farvelo spiegare da qualche vecchio canonico. Intanto vi assicuro che il libretto esiste ancora e viene consegnato ogni anno a tutte le chiese. Solo che, a causa delle ripetute riforme, è diventato molto più agile.

ordo_divini

DISPOSIZIONI PER IL DIVINO UFFICIO
per l’anno 1900
(che) NELLA CITTÀ E DIOCESI DI CASTELLAMMARE DE STABIA
che si devono osservare giorno per giorno
DURANTE LA RECITA DELLE ORE E IL SACRIFICIO DELLA MESSA
SECONDO IL RITO DEL BREVIARIO E DEL MESSALE ROMANO
recentemente rivisto
E SECONDO LA RIFORMA FATTA DA Sua Santità Nostro Signore LEONE pontefice XIII
per ordine (ultimo rigo)
dell’eccellentissimo e reverendissimo Signore
Don Michele De Jorio
per grazia di Dio e della Sede apostolica
vescovo della stessa diocesi
pubblicate dalla Tipografia Vollono di Castellammare 1900.