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Pillole di cultura: Pagàno

a cura del prof. Luigi Casale

Nelle modeste lezioni dei pochi lemmi pubblicati abbiamo avuto modo di vedere come parole e termini di implicazione geografica o comportamentale abbiano poi modificato la portata del loro significato, spostandosi su un’area semantica differente – se non proprio lontana e opposta – da quella di partenza. E’ lo “scivolamento di significato”, il fenomeno esaminato dalla linguistica tra i problemi della semantica. Inoltre, abbiamo anche parlato di come l’origine di questo fenomeno risieda nell’uso della lingua, cioè nel comportamento dei parlanti, e trova giustificazione nella “originalità” del parlante nel formulare le sue espressioni comunicative. Cioè la creatività con cui il parlante produce i testi linguistici, (è quella che Jakobson chiama “funzione poetica” della lingua). E si appoggia sui meccanismi della metafora e dell’analogia. A tale riguardo rimando alle parole già esaminate in questa rassegna, come cafone, egregio, idiota, mambrucco, barbaro, e qualche altro vocabolo che, seppure di traverso, ci ha offerto l’occasione di riflettere sull’argomento: il passaggio di certe parole dall’area sociologica a quella morale. Oggi voglio proporre la parola “pagano”, insieme ad altre che nel corso nella trattazione del tema dovessero eventualmente presentarsi sullo schermo della mente. “Pagano” deriva dal latino “pagus” che significa villaggio. Il paganus, perciò, è essenzialmente l’abitante del piccolo abitato di campagna, in contrapposizione a chi vive in città (“urbanus”). Rimandando ad un momento migliore la specifica etimologia della parola pagus, per adesso possiamo dire che, a seconda del contesto comunicativo o della geografia dell’area dei parlanti nonché della loro provenienza, “paganus” poteva significare oltre che “paesano” o “contadino”, anche “civile = opposto a militare”. Quindi la discriminante è chiaramente geografica e sociologica. Rispetto a chi non appartiene al pagus. Proprio per questo motivo, in ambiente cristiano all’origine della nuova religione, il paganus andrà ad indicare colui che si distingue dalla comunità ebraica e – in seguito – dalle prime comunità cristiane che successivamente furono chiamate chiese (“assemblee dei credenti”). Col passar del tempo il significato della parola andò sempre più spostandosi verso il senso di “non credente” oppure “legato a credenze e riti primitivi”, e, perciò, “da convertire”. Vediamo così come da una caratteristica sociologica di appartenenza (neutra) si passa ad una connotazione negativa di “privazione di un bene spirituale”, di “un elemento culturale positivo”. Ed ecco la discriminazione. Il pregiudizio, conseguente alla esasperazione egocentrica. Negli stessi testi biblici del Nuovo Testamento – per intenderci: i testi scritti in lingua greca – troviamo anche la parola “gentili” per indicare quelli che non sono ancora cristiani. La parola “gentile” è l’equivalente italiano di un aggettivo latino derivato da “gentes”. Le “gentes” erano le grandi famiglie romane, quelle che avevano la denominazione completa: Nomen, Prenomen, Cognomen. Dei tre (“tria nomina”) quello che indicava la famiglia era il Nomen o “nomen gentilicium”, il nome della Gente, cioè il nome della famiglia: Tullius (la gens Tullia), Julius (la gens Julia), Cornelius (la gens Cornelia), Sempronius (la gens Sempronia). Quindi le “gentes” erano le famiglie. [Ricordo che il termine gente è parente a generare, e che perciò è legato al concetto di nascita, stirpe, discendenza]. Ciò indica che, fino a un certo periodo, chi aveva un nome gentilizio era evidentemente “cittadino romano”. Però, quando poi si è diffuso il Cristianesimo già la cittadinanza era ormai diffusa a tutto l’impero, anche se veniva concessa solo a persone appartenenti ad una ristretta cerchia. Paolo, detto appunto l’apostolo delle Genti, che era di Tarso (oggi in Turchia), rivendicando la sua “cittadinanza romana” (di cui effettivamente si onorava) dovette essere tradotto a Roma per subire il processo. Quindi possiamo dire che “i gentili” che inizialmente erano i cittadini romani in quanto appartenenti – perché censiti a Roma – alle Gentes, poi cominciarono ad essere anche i “cittadini romani” di nuova acquisizione, sebbene originari e ancora residenti nelle Province (vedi l’ebreo Paolo); e, successivamente, tutte quelle persone identificate come “altri” dagli Ebrei e in seguito dai Cristiani. Analogamente succede con “vicino” e “rivale”. Ma non starò qui a dilungarmi. Il “vicinus” e la “vicina” sono le persone che abitano il vicus (strada, quartiere, villaggio). Mentre i “rivales” sono gli abitanti della stessa riva o quelli della riva opposta. E si potrebbe continuare con “urbano” e “villano”.

Pillole di cultura: Paraustiello

a cura del prof. Luigi Casale

“Addò vai a parà cu ‘sti paraustielli ?!”

La spiegazione di questa frase potrebbe essere più semplice di quanto si possa pensare. Paraustiello dovrebbe essere il diminutivo del calco napoletano della parola paragone (paraòne, paravone), come da gallo viene ‘u “uallo” o ‘u “vallo”.
Da paragone, il napoletano “paravone”; e da questo, “paravustiello” o “paraustiello”.
Parare lo si usa come “parare una trappola” (a buon intenditor, poche parole…), “parare una rete”.
Qui c’è niente da aggiungere. E’ una parola latina rimasta tale e quale nell’uso della lingua napoletana; e corrisponde all’italiano “preparare”.
L’italiano ha selezionato la forma col prefisso al posto di quella radicale del napoletano.

Pillole di cultura: Parrucchiano

a cura del prof. Luigi Casale

C’è un detto che dice: “…trasire int”a coppola d”o parrucchiano”. Oppure l’altro che è quasi una barzelletta se non proprio una scena.
– “Zi’ pre’! ‘O cappiello va stuorto.”
– “Accussì hadda i’.”

* * *

“Trasire int”a coppola d”o parrucchiano” significa – fuori metafora – addentrarsi troppo in questioni che non ci riguardano e che comunque non sono di nostra competenza. E che l’altro (‘o parrucchiano) non gradisce partecipare.
Notiamo che – fatto salvo lo spirito della “facezia” – l’espressione è banalizzata al livello popolano. Perché nessuno, se non un popolano, avrebbe chiamato coppola il copricapo del reverendo o del monsignore. E pensare che ce ne sono di diversi tipi! Già questo, cioè conoscere il rispettivo nome appropriato, richiederebbe una certa specializzazione.
Il secondo detto, sempre parlando di copricapi e di religiosi, completa il quadro e la dice lunga sulla percezione della differenza sociale e culturale tra il clero e il popolo. Nonché sulla autorevolezza delle rispettive convinzioni. Ma, di questo il “popolo” si rende conto, se è capace di esprimere questa percezione con i “paraustielli” che abbiamo presentato.
Ma a noi oggi interessa la parola “parrucchiano”. In napoletano è il titolare della parrocchia, cioè il parroco. Nella lingua italiana, però, parrocchiano è l’amministrato, il residente della parrocchia che vive la dimensione comunitaria propria della chiesa cattolica. Il fedele insomma. Il credente che nella Chiesa si riconosce.
In italiano quindi c’è il parroco e ci sono i parrocchiani. In napoletano, invece, … tinimmo ‘o parrucchiano e po’ ci stammo nuje: i cristiani.
Parrocchia, parroco, parrocchiano, hanno per radice la parola greca oikía (οικία) che significa casa. [Vedi anche i lemmi Economia ed Ecologia].
“Parrocchia” in effetti è la trasformazione e l’adattamento alla lingua italiana dell’espressione greca/ellenistica: parà oikías (παρά οικίας = presso le case). La parola, divenuta appannaggio della cristianità, all’origine indicava una realtà di villaggio. E solo la presenza di “un’assemblea del circondario”, cioè la comunità cristiana – diremmo oggi: di quartiere – ha fatto sì che l’espressione εκκλησία παρά οικίας corrispondesse alla “chiesa vicina (o intorno) alle case”. Vale a dire la parrocchia (εκκλησία = assemblea, convocazione). Lo stesso significato ha anche la parola “sinagoga” (riunione, convocazione). Nella parola chiesa si fa perno sul “chiamare dentro”; con la parola sinagoga invece si insiste su “far venire insieme”.
[In qualche regione è chiamata “pieve”, assumendo il nome dal popolo (latino: plebs = plebe, cioè popolo)].
In tutti i casi la parola è andata ad indicare in seguito anche la costruzione, la chiesa di mattoni, la sinagoga, la pieve, intorno alla quale si addensavano le case.
Tralascio, in quanto compito degli storici, tutti gli aspetti storico-giuridici, organizzativi e gerarchici, di queste istituzioni, che pure hanno qualche differenza tra di loro. Solo voglio evidenziare un fatto che per quanto di natura psicologica interessa ancora il linguista. E, per conseguenza, potrebbe incuriosire anche il lettore di queste pagine/pillole. Gli studiosi di psicolinguistica (o di sociolinguistica) sostengono che la sfera lessicale (è l’insieme di tutte le parole che per significato ruotano intorno ad un argomento: per dirla in maniera semplice) della religione (del mistero, del sacramento, della fede) nel processo di evoluzione, mantiene le parole identiche a se stesse più a lungo. La stessa cosa succede per la sfera della soggettività (cioè, dell’intimo della persona: dell’io).
Che la cosa sia evidente fra i cristiani, ce ne rendiamo conto. Ma se facciamo caso, adesso che sempre più siamo a contatto con altre religioni e ci interessiamo ad esse, notiamo che le parole – come dire? – tipiche, storiche, fondamentali, caratteristiche, della loro vita spirituale quasi mai vengono adattate alla nuova lingua.

Pillole di cultura: Patente

a cura del prof. Luigi Casale

Forse non a tutti è manifesto [è “patente”] che la parola “patente” sia un participio presente. Il fatto di averla usata sempre come un sostantivo femminile (la patente) ci distoglie da un’analisi corretta. Sono diversi i participi presenti, passati al rango di nomi sostantivi: cantante, studente (che sia trattato come sostantivo lo dimostra il fatto che la lingua ne ha creato il corrispondente femminile: studentessa; cosa che non succede con cantante), amante, montante, ecc.; altri sono diventati aggettivi, e come tali trasformatisi in seguito in nome proprio: presente, costante (Costante), prestante, vagante, ecc.; ce ne sono poi di quelli che interpretiamo perfino come preposizione; vedi, per esempio, mediante, non-ostante. Fra tutti questi, alcuni – come patente e presente – trovano difficoltà ad essere ricondotti ad una forma di infinito. Infatti, il verbo di cui patente è participio, non esiste più. Era un verbo impersonale (cioè che già al tempo dei Romani aveva sono le terze persone singolari; come oggi è il verbo piovere) E “patet” il cui infinito presente era “patère”, significava “appare, é evidente, è manifesto”. Perciò, oggi, “patente” (participio) significa: che è evidente, che è palese, che è manifesto, che appare. Mentre la forma sostantivata (al femminile) “la patente” è un documento che rende manifesto un fatto. Nel caso di quella automobilistica – quella più frequentemente indicata con questo nome e che i francesi chiamano “permesso di condurre” – attesta che alla persona che ne è titolare è stata riconosciuta la capacità di guidare un mezzo meccanico di locomozione. Però oggi, anche se non tanto spesso, si sente ancora dire: “la cosa è patente”. Cioè: il fatto è evidente, è manifesto, appare chiaramente. Il contrario di “patente” è “latente”. Vale a dire: che non si vede, che è nascosto. Forse riconosciamo con maggiore familiarità la parola “latitante”, participio di un verbo (latitare) ancora vivo nella lingua italiana, derivato dalla forma intensiva del radicale (“latet, latère”, opposto a “patet, patère”), anch’esso impersonale. Di questi verbi intensivi o iterativi, abbiamo avuto modo, da qualche parte, di parlare già. Ricordate la coppia: capio/capto? Ora, possiamo aggiungere anche cano/canto (cantare). Per dire che in molti casi, nel passaggio dal latino all’italiano, il verbo radicale si è estinto, mentre la forma col suffisso si è conservata.

Pillole di cultura: Pisone

a cura del prof. Luigi Casale

“U Pəsónə”. Precisiamo che la “e” capovolta (ə) è la rappresentazione grafica, la trascrizione (il grafema) di una vocale caratteristica della lingua napoletana. Si tratta di quel fonema che – se noi chiamiamo “colore” la differenza tra le vocali: a , e , i , o , u , della lingua italiana – dovremmo dire (nel caso nostro) “senza colore”. Per capirci: è quella vocale, finale di parola, che i napoletani non pronunciano a meno che non sia accentata. Così si dice abitualmente. Ma non è esatto. In effetti essa non cade, perché i napoletani la pronunciano bene. Semplicemente la producono senza il “colore”: diventa cioè una “vocale indistinta”. È una ulteriore vocale che nella lingua italiana manca.
Ma perché mi fate sprecare tante parole se – napoletani o no – conoscete il modo di parlare dei napoletani? … allora, … ci siamo capiti?
Detto questo, e considerato però che la tastiera del PC non la prevede, nelle finali continueremo ad indicare la vocale della corrispondente parola italiana. Mentre nel mezzo delle parole la indicheremo con una e, così ognuno la produrrà come “naturalmente” la sa pronunciare. Da napoletano.
In sede scientifica, quando sarà il momento, ricorreremo ai sistemi grafici convenzionali.
Quindi, oggi parliamo di “pesone”. Se vi dicessi, in maniera sbrigativa che pesone è un grande peso, per quanto io dica una banalità, pur sbagliando nel metodo, in sostanza direi una cosa giusta. Perché, essendo “u pesone” la rata mensile (pattuita) che paghiamo al padrone di casa per occupare – si dice locare – l’appartamento in cui viviamo …. Chi mai sarà disposto a negare che esso non costituisca un “pe-so-ne”, cioè un grande peso? Ma ci arriveremo!
“U pesone” è l’equivalente della parola italiana pigione. Parola femminile: “la pigione”. Se qualche volta la diciamo al maschile è solo perché siamo influenzati dal nostro parlare napoletano.
Pigione è la trasformazione medievale, arrivata nella lingua italiana, della parola latina pensionem, da cui viene anche l’altra parola italiana (senza trasformazione, questa volta!): pensione. Sia nel senso di vitalizio che percepisce chi ha svolto delle prestazioni lavorative, sia nel senso di corrispettivo che dobbiamo pagare a chi giornalmente ci offre vitto e alloggio (“Stare a pensione”: o presso esercizi pubblici o presso famiglie private). Da qui viene anche il nome stesso degli alberghi più modesti: la pensione. ( “Stella maris”, “Casa serena”, “La lucciola”, ecc.).
Pensio/pensionem, all’origine, è la pesata (dal verbo latino: pendo = pesare), ma, poiché il pensum è la quantità di lavoro quotidiano, il compito assegnato (metaforicamente: il peso), pensio/pensionem è anche la quota di danaro che in cambio dev’essere corrisposta a chi fa quel lavoro, cioè la rata giornaliera. Il lettore perspicace si rende conto che quello che all’inizio sembrava uno scherzo, quasi una provocazione, poi si è rivelata una verità. Cioè che pisone è collegato – risalendo alle sue più antiche origini – proprio al gravame di un peso.
Ma, per quanto ce ne rendiamo conto, non dobbiamo meravigliarcene più di tanto, perché, come spesso abbiamo detto ogni qualvolta abbiamo parlato di lingua opaca o trasparente, ogni parola, o per effetto della metafora, o per conseguenza delle avvenute mutazioni socio-economiche, passando nelle successive fasi della sua utilizzazione comunicativa, cambia – a volte anche profondamente – il suo significato. La stessa dialettica socio-economica, poi, fa in modo che la parola continui a trasformarsi e a passare da un’area di significato all’altra. Solo per restare in questo ambito della vita e dell’abitare, possiamo considerare che “piso” è la parola spagnola per dire appartamento, e che “pisolino” è il riposo pomeridiano.
Ma se ci spostiamo da quest’area, troviamo che parole della stessa sfera lessicale, cioè sempre collegate agli etimi: pendo (pesare), pensum (peso), pensio (pesata), vanno a coprire altre aree semantiche, anche abbastanza lontane da quella di partenza.
Per fare un esempio. Pendo e *pondo – le differenzia una semplice variazione apofonica – hanno la medesima radice, così pure pensum e pondus.
Allora, partendo da questi etimi, consideriamo che cosa vanno a significare le parole: pensare o ponderare! Che proprio da essi derivano. (Intelligenti pauca = Per la persona intelligente, poche parole).