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Pillole di cultura: Ambizione

a cura del prof. Luigi Casale

“Ambizione” è l’andare di qua e di là alla ricerca di qualcosa. Il verbo “àmbio/ambìvi/ambìtum/ambìre”, da ambi (intorno; di qua e di là) + ire (andare), significa “andare in giro”. Nell’antica Roma la parola veniva usata per indicare l’attività di chi, candidato ad una carica pubblica, andava casa per casa a cercare il voto elettorale. Perciò “ambizione” – all’origine – non è tanto desiderare, aspirare, cercare di avere, o bramare il successo, o pretendere un riconoscimento, come la intendiamo oggi; quanto piuttosto il darsi da fare col sollecitare personalmente il consenso elettorale. In alte parole: andare in giro a cercar voti, uno per uno presso tutti gli elettori raggiungibili.
E “àmbito” [sost.] è lo spazio limitato, circoscritto, in cui ognuno si muove.
“Ambiente” [part. pr. del verbo ambire] è uno spazio definito, che ci contiene. Tipologia di luogo, reale o metaforico.
Mentre ambìto [part. pass. del verbo ambire] oggi vale “fortemente desiderato”.

Pillole di cultura: Anfiteatro

a cura del prof. Luigi Casale

La parola “anfiteatro” è formata da due elementi strutturali: anfi e teatro (greco: amphì +théatron).
Sappiamo che l’edificio pubblico che chiamiamo anfiteatro è una costruzione tipicamente italica; tant’è che se si vuole indicare inequivocabilmente il teatro (sia come genere letterario che come spazio per le rappresentazioni), lo si chiama “teatro greco”. E infatti il teatro (opera letteraria e manufatto architettonico) è interamente greco.
A questo proposito voglio ricordare che il genere letterario: “teatro classico” (che pur essendo di carattere narrativo, è sempre un’opera letteraria scritta in versi, cioè fatta di metro e ritmo, quindi è poesia) comprende tragedia, commedia, dramma satiresco; e, prima ancora, anche ditirambo; oltre a qualche altra forma di rappresentazione fatta di danza e di mimica. Per quanto riguarda la tragedia e la commedia, si tratta della forma più alta di produzione letteraria della Grecia classica, insieme all’epica e alla lirica.

Il teatro. La struttura architettonica destinata fin dall’antichità ad accogliere questi spettacoli a contenuto mitologico, storico-realistico, o burlesco, è fatta da una serie di gradoni a semicerchio appoggiati ad un pendio collinare. Immaginiamo un semicerchio: dalla parte della curvatura si disponevano gli spettatori (sui gradoni concentrici appunto); di fronte, dalla parte del diametro (la corda che sottende l’arco) è piazzata la scena. È questa una costruzione in muratura che rappresenta una facciata di abitazione, generalmente con più di una porta d’entrata (casa privata, sede pubblica, oppure tempio) con davanti una piazzetta (il proscenio). Quindi la scena è fissa (cioè sempre la stessa): una strada che va a destra, una strada che va a sinistra, una piazza al centro. La confluenza di un trivio, insomma, essendo la terza strada quella dalla quale lo spettatore osserva. Sia per gli attori che per gli spettatori la finzione scenica era immaginata sempre all’aperto e supponeva due strade, una a destra e l’altra a sinistra, delle quali la prima andava in città verso il Foro, l’altra andava fuori città che, a seconda dei casi, poteva essere o verso il porto o il campo di battaglia, o verso la campagna in direzione di un’altra città. I pochi attori presenti sulla scena si muovevano in questo spazio circoscritto, così definito dal Prologo, il personaggio che introduceva la storia. Ma conoscendo l’opera che stava per essere rappresentata, tutti gli spettatori riuscivano ad immaginare anche la direzione delle uscite. Anche le tre porte della scena erano o entrate o uscite, ma indicavano gli interni. Là si svolgevano le azioni violente o truculente, o indecenti. Quindi quelle azioni non erano viste dal pubblico degli spettatori. O erano raccontate dai personaggi che da quelle case uscivano, oppure all’esterno giungevano soltanto grida, suoni e rumori, che dovevano dare l’idea di quanto accadeva all’interno. Successivamente uno degli attori veniva a raccontare agli spettatori che cosa era successo dentro l’edificio.
L’anfiteatro. È invece un corpo ellittico costruito su zona pianeggiante, i cui gradoni, a forma di ellissi questa volta, sono una vera e propria costruzione architettonica poggiata sopra una serie di gallerie circolari (essenzialmente archi, quindi) con la volta a botte. Erano questi i passaggi attraverso i quali gli spettatori raggiungevano il posto a sedere. Gli anelli concentrici, e delle gallerie e dei corrispondenti ordini dei posti che le sovrastavano, andavano a restringersi intorno ad un’ampia arena ovale, nella quale si svolgevano spettacoli di grande movimento: giocolieri e saltimbanchi, caccia di belve, battaglie navali, scontri di gladiatori, e altri giochi di squadre (due o più anche contemporaneamente): tutti giochi di forza fisica e di resistenza, più o meno violenti.
“Amphì” – da cui deriva anche la forma “ambo”, che è andata a sostituire il numerale “duo” – è avverbio (e preposizione) e significa “di qua e di là”, “in giro”, “da tutte le parti”.
Il fonema “ph” ( pronuncia / fi / ) della lingua greca è labiale (come “p” e “b”), e ciò significa che si pronunciava accostando le labbra, proprio come “p”, “b” e “m” (e non come la nostra moderna “fi”). In pratica era una “p” fortemente aspirata. Quindi anche la nasale che la precede prenda la forma di labiale, cioè “m” (e non “n”). Quando la “ph” nella sua evoluzione fonetica (alla distanza) diventa “f” (perde cioè la caratteristica labiale) anche la “m” perde la sua, e diviene “n” (che, come dentale, può essere pronunciata a labbra aperte). Per questo motivo oggi la parola è “anfiteatro”. Quando invece il fonema per qualche motivo si dovesse trasformare in “b” (e continua perciò a conservare la sua caratteristica labiale), costringe allora anche la nasale a mantenersi labiale. Ed è ciò che succede in “ambo”.
La trasformazione di amphì in ambo, e l’utilizzo di questo avverbio col valore di “due volte”, ha fatto sì che la parola anfiteatro venisse interpretata come “due teatri: uno da una parte e uno dall’altra”, facendo nascere la leggenda dei due teatri girevoli che ruotando formavano l’anfiteatro, all’origine della forma dell’anfiteatro.
La verità è che i rispettivi manufatti del teatro e dell’anfiteatro sono strutture del tutto diverse ed hanno storie completamente diverse, sia sul piano linguistico e culturale sia su quello architettonico e strutturale. Anche se poi tutt’e due le costruzioni hanno a che fare col théatron (visione; spettacolo). Il verbo greco, infatti, è theáomai = guardo, osservo. Per anfiteatro si tratta però di un “vedere tutt’intorno, vedere di qua e di là”.

Notiamo ora due cose.
Prima. In alcune lingue europee come il francese, il grafema “th” di théatre, thème o thermes, rappresenta lo stesso fonema che è rappresentato dal grafema “t” (senza la “h”). Quindi in francese lo stesso suono / t / a volte si scrive “t” e altre volte “th”.
La presenza della “h” (quando c’è) in effetti è solo il segno di una memoria storica, cioè che all’origine (nella lingua greca antica) quella “t” era aspirata (th ). Per lo stesso motivo si è conservato anche il grafema “ph” di philosophe o phisique.
Seconda. La presenza della radice di théaomai compare anche nella parola italiana “politeama”, con cui si chiamano alcune sale cinematografiche per significare che esse sono polivalenti (adatte a più usi), essendo idonee ad ospitare diverse tipologie di spettacoli (greco: polù = molto; corrispondente al latino: plus e plurimus).
Aggiungiamo – giacché ci siamo – una nota di tecnica teatrale. Nel teatro greco antico – come ho detto – la scena è fissa, e rappresenta un tratto di strada, all’aperto, davanti ad un gruppo di case, o ad un tempio o ad un diverso edificio pubblico. Da un lato si va al Foro (verso la città), dall’altro al porto o al campo di battaglia, o fuori città verso la campagna o in direzione di un’altra città.
Abbiamo già detto che i testi del teatro classico erano in versi. La rappresentazione prevedeva che molte azioni (antecedenti al momento scenico, oppure quelle scabrose) venissero raccontate (diegèsi); ne discende che la rappresentazione vede pochissimi attori sul proscenio a sostenere l’azione scenica dal vivo. La maggior parte della vicenda (le scene di violenza o truculente o di intimità più o meno volgari che si immaginano svolte all’interno degli edifici, quelle che si erano già svolte, quelle che si svolgevano lontano nel tempo e nello spazio), erano solo raccontate dagli attori una volta usciti nel proscenio. Della storia rappresentata, molto più di quanto non si vedesse era invece raccontato.
L’anfiteatro invece non ha bisogno di questo tipo di soluzioni, in quanto le sue rappresentazioni mancando di testo prefissato, sono di pura azione o di abilità o di forza. E’ tutta un’altra cosa.

Pillole di cultura: Antrasatte o all’intrasatte

a cura del prof. Luigi Casale

“Tutt’a un tratto, improvvisamente”. Questo dovrebbe essere il valore dell’espressione. Nel nostro linguaggio napoletano.
Anche questa espressione è importata dalla lingua francese. (Sempre che la mia ipotesi sia giusta, naturalmente).
La parola francese è “entracte” (leggi: antract) = intervallo tra due atti teatrali, interruzione, pausa.
Per una certa affinità situazionale da noi è passato a indicare, “a sorpresa” (perché il fatto che succede all’intrasatte, si inserisce di forza e inaspettatamente nel tempo dell’azione, quasi a modificare la continuità del divenire.
All’intrasàtte, appunto!

Pillole di cultura: Appiccià e stutà

a cura del prof. Luigi Casale

Abbiamo già trattato le parole “accendere” e “spegnere” (oltre alla parola “estinguere”). Perciò ho pensato di andare a visitare le corrispondenti parole napoletane “appiccià” e “stutà”.
Per chi ritiene sia poco limitarsi in questo tipo di ricerca all’origine latina delle parole oppure allo spostamento di significato per via di metafora, vorrei precisare che questo nostro impegno di lavoro è orientato soprattutto a fornire un metodo di lavoro. E mi pare che si possa tranquillamente dire che al punto in cui siamo questo obiettivo sia stato raggiunto.
Così il primo passo è fatto. Eventuali ulteriori passi alla ricerca delle origini delle parole possiamo sempre tentarli, sia che continuiamo a risalire il tempo della storia sia che ci spostiamo in ambiti disciplinari affini o confinanti. Però dobbiamo allontanare da noi l’illusione di raggiungere il capolinea di questo percorso, a meno che non si voglia mantenere la presunzione di penetrare l’atto creativo dell’origine del linguaggio.
Dunque, accendere, spegnere e estinguere, etimologicamente parlando – come a suo tempo abbiamo evidenziato, fanno parte della sfera lessicale (insieme di parole che ruotano intorno ad un tema) del “colore” e della “luce” [Vedi il lemma Accendere (II)]. E faccio notare di passaggio che anche nella lingua francese, sebbene esistano sinonimi appartenenti ad altre sfere lessicali, alcune parole corrispondenti alle italiane “accendere e spegnere” (“allumer” = ad-luminare e “éteindre” = estinguere) si ascrivono alla medesima sfera lessicale, in quanto presentano gli stessi tratti semantici.
Ora mi resta di far vedere i tratti semantici che caratterizzano “appiccià” e “stutà”.
Appiccià = ad-piceare (pix = pece; piceus = imbevuto di pece; picea = abete [resinoso]); quindi “appicciare” = “avvicinare alla pece, alla resina” (sostanza che infiamma).
Stutà = ex-tutare (ex = allontanamento; tutus = sicuro); quindi mettere al sicuro, allontanando (dal fuoco, evidentemente!).
Allora scopriamo che, rispetto ad accendere e spegnere (o estinguere) dove si insisteva sugli effetti luminosi delle due operazioni dell’accendere o dello spegnere il fuoco, i vocaboli napoletani di appiccià e di stutà evidenziano l’atto di avvicinare la sostanza infiammabile nel caso di appiccià, e quello di mettere al sicuro il focolaio con un’operazione di controllo che poteva essere quella di allontanare la fiamma. Ciò dimostra che nella formazione del significato si è passati da una percezione sensoriale dei fenomeni ad una operazione di tipo tecnologica.
Fin qui ci siamo mossi operando solo sulla scorta delle parole.
Ma lavorando in collaborazione con gli storici: delle istituzioni, dei costumi, dell’economia, della cultura materiale, o con gli esperti delle diverse discipline del sapere, i risultati ai quali siamo giunti possono non solo essere verificati, ma confortati, integrati, o arricchiti.
Con questo credo che, piano piano, si vada definendo anche la portata dell’espressione: lingua trasparente, tante volte utilizzata in queste pagine.P.S.: a Castellammare all’ ingresso della vecchia caserma della Guardia di Finanza in via Gesù vi era una lapide che ricordava i finanzieri stabiesi caduti nella seconda guerra mondiale. Il primo nome della lista era “Capitano Giovanni Acanfora”con accanto la dicitura “Disperso”. Anche di questa lapide non se ne sa più nulla.

Pillole di cultura: A rrassu sia (approfondimento)

a cura del prof. Luigi Casale

La paraetimologia, molto praticata dagli antichi – ma anche da molti moderni sprovveduti, come lo sono io – è un tentativo di etimologia non scientifica, guidato da impressioni, sensazioni, coincidenze fonetiche e semantiche puramente casuali, che messe assieme dal ricercatore originale e intuitivo produce una brillante soluzione al problema dell’origine delle parole e della loro motivazione significativa. Certamente se uno già conoscesse tutto, non avrebbe domande da porsi e di conseguenza non avrebbe bisogno neppure di ricercare risposte.
Essa, dal punto di vista metodologico, è importantissima – direi quasi indispensabile – nella ricerca scientifica e nell’applicazione didattica di questa parte della linguistica. È il percorso iniziale del cammino verso il risultato scientifico del dato finale una volta superata la fase empirica della ricerca. La sua soluzione provvisoria si pone come punto di partenza di una indagine che è suscettibile di muoversi in tutte le direzioni fino a trovare, attraverso passaggi successivi, la strada giusta.
È quello che è capitato a noi con la spiegazione della espressione napoletana “arrassusia”.
Io l’avevo collegata all’avverbio tedesco “raus!” (fuori!). E la soluzione era bellissima.
Poi, leggendo e rileggendo – proprio come il galileiano “provando e riprovando” delle esperienze scientifiche di laboratorio – mi sono imbattuto nella soluzione ugualmente accettabile, ma soprattutto più pertinente, che vorrebbe arrassusia trasformazione della espressione latina “adrasum sit” (che sia cancellato!) di provenienza giuridica e notarile. Se la prima soluzione appariva bellissima e originale questa seconda è più naturale e verosimile. Perciò va accettata incondizionatamente. Fino a prova contraria.
Tuttavia, nella speranza di trovare un raccordo tra le due (nel tentativo illusorio di stemperare questa mia ignoranza) ho voluto verifica se per caso anche il “raus” tedesco non avesse qualche derivazione dal “rasum” latino. Visto che nel medioevo il latino era lingua ufficiale (universale per quanto riguarda l’Europa), non si sa mai che qualche influsso l’abbia lasciato anche nella lingua tedesca. Ma a fugare questo mio tentativo di salvare capre e cavoli subito è intervenuto un bravo germanista che mi ha spiegato che “raus” deriva piuttosto dal detto “da aus” equivalente a “aus da” (fuori da qui).
L’espressione “da aus” poi, per poter essere pronunciata senza cacofonia (superamento dello iato), ha generato la consonante eufonica “r” , originando la parola “da-r-aus”, la quale nel tempo è divenuta “raus” (lontano da qui, via!).

Allora, per la spiegazione di “arrassusia” accettiamo di buon grado la spiegazione “adrasum sit”, e ringraziamo chi ce l’ha suggerita indicandoci anche una fonte letteraria, cioè la professoressa Marina Avitabile di Cava de’ Tirreni. Grazie, professoressa Marina!
Ora, per capire completamente il senso di questa spiegazione, dobbiamo fare un piccolo accenno a quel fenomeno linguistico, psicologico, antropologico, e apotropaico, del tabù: il divieto cioè di pronunciare una parola, perché convinti che col suo allontanamento, si tengano lontani anche tutti gli influssi negativi che la sua presenza potrebbe comportare.