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Pillole di cultura: Computer

a cura del prof. Luigi Casale

Molte delle parole che usiamo sono di importazione. Ma fino a che punto?
Prendiamo in considerazione il termine computer. Prima di arrivare a computer siamo passati per calcolatrice, poi calcolatore, e ancora per elaboratore, e cervello elettronico; finalmente prima di chiamarlo PC (personal computer), ci siamo fermati per qualche anno a computer. E mi fermo qui, perché tutto quello che è venuto dopo è rimasto fuori dalla mia portata, e quindi fuori dalla mia tasca. Personalmente mi sono fermato al portatile (il PC), e non mi sono ancora adattato al tascabile.
“Computer” passa per parola inglese. Certamente è una voce del lessico inglese, ma non è di origine anglo-sassone, in quanto fu importata sull’Isola dalla Francia. Come tante altre, nella stessa determinata epoca storica. E la Francia – si sa – è di lingua romanza, cioè, come l’Italia la Spagna e il Portogallo, ha una lingua che deriva dal latino.
“Compter” e “conter” sono verbi francesi e derivano dall’unico verbo latino computare. Essi corrispondono in italiano, uno a “contare”, l’altro a “raccontare”. Matematica e italiano. Ragione e sentimento. Certezze e fantasie. Se vogliamo riferirci agli schemi scolastici. E ancora: scientifico e classico, scienze esatte e scienze umane. E qui rischiamo di non finirla più. Col pericolo di aprire la vexata quaestio, la eterna controversa, la tormentata questione. Che, stando alla scelta linguistica, desumibile dalla origine etimologica del verbo “computare”, sembrerebbe che i Romani avessero superato o probabilmente mai assolutamente sollevata. Se è vero che l’originario latino “computare” significa esattamente le due cose, indifferentemente. Infatti computare è formato da cum+putare. Puto è il verbo che ha alla radice l’idea che noi esprimiamo col verbo re-putare (ritenere, stimare, valutare) rafforzata dalla preposizione cum (insieme), che indica la complessità del giudizio o più probabilmente la molteplicità delle soluzioni possibili.
Computare quindi contare e calcolare; ma anche leggere e raccontare. In ultima analisi “valutare attentamente e giudicare”.
Ma per restare dentro la lingua italiana che a noi, parlati competenti, più facilmente potrà mostrare l’evidenza di certe comparazioni semantiche, (cioè, ci consente più agevolmente di raggiungere la sospirata trasparenza) vediamo quante parole – e in quale area semantica si trovano – derivano dal verbo computare (o compitare, una variante che col tempo si è specializzata, spostandosi di significato pur restando all’interno della stessa area semantica).
Oltre ai generici “contare” e “conto”, vi sono computisteria, contabile, contabilità. Mentre compitare (che va a significare: leggere in maniera sostenuta puntualizzando sillaba per sillaba) contempla “compito” e “compitazione”, e accoglie nella sua specifica area semantica anche “racconto”.
Per finire una spiegazione anche della parola “calcolare” che noi usiamo come corrispondente del latino “computare”. Calcolare deriva da calculum, che significa pietruzza o più esattamente “piccolo calcare”. (Proprio come i calcoli della cistifellea!)
Perciò calcolare nasconde la prima idea del computer, cioè un ragionare con l’aiuto di un “mezzo materiale”, direi quasi meccanico, le pietruzze. Il pallottoliere primitivo. La prima macchina calcolatrice. Il primo cervello artificiale, a cui affidare la memoria delle primitive operazioni di calcolo aritmetico.

L.C.

 

 

Pillole di cultura: Crisi

a cura del prof. Luigi Casale

Quante volte al giorno, almeno di questi tempi, sentiamo o usiamo la parola crisi?
E, poiché ci riferiamo al delicato momento che sta attraversando l’economia nazionale e quella mondiale, l’avvertiamo come una maledizione. Ma di crisi si parla anche in altri campi, non solo in quello dell’economia. La salute, l’umore personale, le relazioni sociali, tutto è soggetto a crisi. Inoltre di punto critico di parla anche a proposito dei fenomeni naturali della fisica e della chimica.
Ora scopriamo però che la parola greca κρίσις, da cui proviene la parola italiana “crisi”, significa: separazione, scelta, e, di conseguenza, giudizio o sentenza.
Κρίνω, infatti, il verbo all’origine di queste parole, significa appunto: distinguo, scevero, separo, e giudico.
E l’aggettivo κριτικός significa “adatto a giudicare”, “proprio del giudice”.
Dallo stesso verbo deriva anche υποκριτής (attore, simulatore) da cui la parola italiana “ipocrita”; ma questa è andata a significare tutt’altra cosa.
Adesso si spiegano anche i significati di parole italiane come “criterio” (regola di giudizio) e “crivello” (strumento di separazione di particelle di diversa dimensione).

L.C.

 

 

 

Pillole di cultura: Cuccetelle e scazzuòppoli

a cura del prof. Luigi Casale

Talvolta sembro straniero tra la mia gente. E non perché, in qualità di emigrante ogni volta che torno sono sempre di meno le persone di mia conoscenza e tante, tantissime, quelle che non avevo mai viste; o anche perché rientrando non ne riconosca più la lingua. Anzi proprio per aver vissuto lontano lunga parte della vita mi accorgo di conservare un patrimonio di parole che ormai sembrano perdute dai miei paesani.
Ricordo che da ragazzo quando la mamma faceva la pasta in casa – e a casa nostra capitava spesso: qualche volta se ne offriva anche alle zie e alle stesse sue commarelle – noi, il tipo più diffusa, le cuccetelle, le chiamavamo proprio cuccetelle. E così la famiglia della nonna da cui forse ci veniva questa denominazione di questa pasta, semplice da prodursi, ma che richiedeva tuttavia una grande abilità che solo il tempo e la pratica potevano fornire.
Si affusolava l’impasto (solo semola di grano duro doppio zero che noi compravamo da Cutigniello – Ditta Molino e Pastificio Gallo – e acqua tiepida), in spessi cordoni: si tagliavano in pezzettini questi cilindri allungati, i quali, nello stesso tempo che la lama del coltello separava, venivano resi a forma di piccoli cubi: il tempo di una leggera stagionatura, ed ecco che, schiacciati e adattati sulla estremità del pollice, e … u vi’ lloco! … a cuccetella era pronta da poggiare sul panno bianco accanto alle altre fino a farne uno o due chili a seconda della necessità: più spesso la minima quantità giusto per la cottura giornaliera della famiglia.

cuccetelle

Le cuccetelle del “Casale”

 

Tante piccole cucce (crani, teste, pelate), perciò cuccetelle, distese sulla tovaglia, il tempo che si asciugassero.
[Di mio padre che dai venti anni in su fu calvo, in famiglia si diceva scherzosamente e simpaticamente che aveva la cuccia]. Perciò oggi che anche la lingua napoletana si è appiattita sul quella toscana, le cuccetelle si direbbero, tutt’al più, cappelletti. Ma quello che non capisco… perché orecchiette?
E poiché “cuccetelle” non solo si chiamavano nella nostra famiglia, ma anche presso i vicini di casa, e – suppongo – così in tutta la città, allora io continuo chiamarle cuccetelle, anche se non l’ho mai trovato scritto sulle confezioni in commercio.
Quanto all’etimologia della parola, l’ipotesi è la seguente. Cuccetelle diminutivo di cuccia (testa rasata); cuccia da coccia, a sua volta come metafora, dal latino cochlea (conchiglia).
La stessa cosa mi capita con la parola “scazzuòppoli” con cui noi chiamavamo gli gnocchi, pur sapendo che molti li chiamavano strangulaprieviti.
Anche quest’ultimo termine mi sembra d’importazione. Allora, metafora per metafora, io continuerò a chiamare scazzuoppolo il piccolo manufatto di semola e farina con aggiunta di fecola di patata, senza forma definita. Mi sembra più adatto alla forma dello scazzuoppolo. Anche se poi mi presenta qualche problemuccio per ricostruirne l’etimologia.
Chi usa la parola però, attraverso alcuni passaggi analogici non ha difficoltà ad isolare alcuni tratti semantici presenti in essa. E partiamo da scazzimma: cispa. Questa è prodotta normalmente dagli occhi; ma, in quantità notevole, quando essi sono affetti da congiuntivite.
Scazzare è, almeno per noi, stuzzicare o scrostare eventuali incrostazioni o secrezioni biologiche dalle parti delicate del corpo, da cui anche il più generico scazzellare (scollare, separare, isolare), contrario di azzeccare.
Quest’ultimo termine mi costerà un ulteriore approfondimento.
Quindi se scazzimma equivale a “caccola biologica”, per analogia scazzuoppolo è il pezzetto di pasta fresca senza una sua forma determinata.

L.C.

 

 

Pillole di cultura: Cultura

a cura del prof. Luigi Casale

(Pillole di cultura: Dettata da un’emozione profonda (e dal desiderio di commemorare la figura del preside Carosella, amico e maestro), nasce oggi l’analisi semantica della parola cultura, proposta dal prof. Casale).

Come sanno i lettori amici del liberoricercatore, questa modesta rubrica “le pillole” è classificata sotto la voce “cultura”.
E’ giusto pertanto dedicare anche a questa parola, così importante, l’attenzione che merita. Perciò oggi la mia (e vostra) ricerca riguarderà il lemma “c u l t u r a“.
Avremmo dovuto farlo già da tempo. Ma, ora, fatto il necessario mea-culpa, senza pretesa di averne una giustificazione, vi provvedo a tambur battente.

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Lemma si chiama ogni voce del vocabolario, considerata come elemento unitario del lessico (insieme dei lemmi) . E significa “cosa detta (o pensata)”; quindi, parola.
La parola “lemma” etimologicamente deriva dalla radice greca: leg/log , da cui derivano anche il verbo “légō” (dico) e il sostantivo “lógos” (discorso, pensiero, parola) tante volte richiamati in queste pagine; e tante altre parole italiane, come lettura, leggenda, logica; nonché i suffissi “-logìa” e “-logo”.
Il tipo di struttura linguistica della parola lemma [leg + mat = lemma] indica generalmente una cosa concreta, una “sostanza”, che prende significato dall’azione indicata dal verbo. Quindi: lego = dico; lemma = cosa detta. Di queste parole ce ne sono tante nella lingua italiana – e in tutte le lingue europee – e sono quelle che terminano con la sillaba “ma” [da: –mat], come lemma, appunto; e sono tutte maschili, in quanto le originarie parole greche così formate sono di genere neutro. Vedi: dilemma, teorema, problema, idioma, tema, ecc. patema o politeama. E anche lemma. Ma ce ne sono ancora tantissime.

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Oggi, però, parliamo di “cultura”. Forse ne ho accennato a proposito di “colono”. Parola, insieme a “cultura” e a “culto”, etimologicamente collegata al verbo latino “colo” (= coltivare/abitare/venerare).
Ad ogni modo se la “cultura” è dei dotti, come generalmente si ritiene, e “colono” è, invece, il contadino (o l‘abitante della colonia, il colonizzatore), come ognuno bel sa; “culto” è un servizio verso la divinità, un atteggiamento collettivo proprio dell’uomo religioso. Questo collegamento semantico delle tre parole, riconducibili alla medesima radice, alla fine di questa nostra disquisizione dovrebbe aiutarci ad evitare i diversi pregiudizi sociologici dovuti – per la parte che ci interessa – alla scarsa competenza della lingua (quanto a trasparenza).
Vuoi vedere che proprio questo si vuole significare – cioè il superamento della visione di una società tripartita, fatta di dotti (aristocrazia), clero e contadini – quando si dice: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”? Cosa che tuttavia non sempre va a genio alle altre due categorie: i dotti e il clero che vorrebbero distinguersi dai coltivatori: i cafoni.
Nello stesso tempo, però, la nostra riflessione ci fa capire anche un altro dato di fatto: cioè che all’albore delle civiltà la classe sacerdotale, con l’anelito di penetrare il muro del mistero, si fa depositaria delle conoscenze acquisite che poi essa stessa custodisce attraverso un sistema di segni grafici, creando la scrittura.
Quindi “colo”, verbo latino, originariamente significa “coltivare” (e quindi abitare un luogo). O che sia la terra l’oggetto del colo, o – per metafora – la casa, o la regione geografica; o che sia la persona stessa, la famiglia, il gruppo sociale, il “colere”, il “coltivare”, rappresenta sempre una tipologia di attività, pratica o ideale, indispensabile alla vita umana, che in base all’oggetto può essere: l’agricoltura (che come conoscenza e abilità tecnologica rappresenta e comprende tutta la cultura materiale), il gusto del bello (estetica) o il senso del giusto (morale); o, nella forma più alta, la riflessione sulla condizione umana e la conseguente opzione esistenziale (filosofia e religione). Solo questa costante attività del “coltivare e coltivarsi” procura la autodeterminazione razionale, cioè la libertà.
Questa – a parer mio – è la vera comprensione della parola “cultura”.

Pillole di cultura: Deriva

a cura del prof. Luigi Casale

L’imbarcazione senza ormeggi e senza pilota va “alla deriva”.
Ogni volta che si rappresenta una realtà in evoluzione, cioè “naturalmente in movimento” (geografica, sociologica, linguistica), alla fine se il processo sfugge al controllo, si parla di “deriva”. Perciò c’è la teoria della “deriva dei continenti” per cui le grandi masse terrestri (i continenti), che si suppone facessero parte di un unico blocco (pangèa), dopo essersi separati continuano a spostarsi e, scivolando sulla piattaforma sottostante, si allontanano, ognuna in una direzione diversa e opposta.
E si dice “deriva linguistica” il fenomeno di allontanamento (puramente ideale) formale e strutturale – fonetico e morfosintattico – delle lingue generate da un’unica lingua originaria. Per esempio la grande famiglia delle lingue indeuropee, oppure le moderne lingue europee dette romanze perché derivate dalla lingua dei Romani, il latino e perciò dette anche neo-latine.
Così si parla di “deriva morale” (o sociale) a proposito di sbandamenti e allontanamento di individui o di gruppi dal sistema di valori condiviso e sperimentato.
Il tratto semantico che caratterizza le parole italiane che hanno alla base la radice di “deriva” è quello di “allontanamento per separazione”.
Questa radice è la stessa di “rivus” (corso d’acqua); modificata poi dal prefisso “de” (provenienza e allontanamento); per questo motivo il verbo “derivare” originariamente – prima cioè di un suo uso traslato, in conseguenza della metafora – significa “far defluire da un fiume (o da un lago) un corso d’acqua”. La parola poi, proprio a causa di una generalizzazione dell’uso metaforico, è andata a coprire tutta la grande area di significato che conosciamo oggi e con cui usiamo la parola: familiarmente e con competenza.
Altra cosa è “arrivare”, che è formata dalla parola “ripa” (sponda del fiume). Quindi “ad ripam” è: dirigersi verso la sponda. Le due parole latine: “rivus” (corso d’acqua) e “ripa” (sponda) sono apparentate, in quanto risalgono alla comune radice “rve”; “Arrivare”, dunque (ad ripam ire = andare verso la riva), è raggiungere una meta, un obiettivo, un termine: sia del percorso spaziale che di quello ideale.
Arrivare, a rigore, non è il contrario di derivare anche perché alla loro base vi sono due parole diverse.

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“Rivalis” – sostanzialmente – è colui che sta sulla sponda opposta, il dirimpettaio. Oggi invece è il nemico (rivale).
Lo stesso mutamento di significato era avvenuto presso i Romani con la parola “hostis” (nemico).
Hostis all’origine doveva essere “straniero”. Basti pensare al tedesco Gast (ricostruito sullo stesso ètimo) che significa ancora “forestiero, ospite, invitato”. E alle prole italiane: oste e ospite. Nonché a “hotel”.
Poi di nuovo, partendo dallo stesso concetto di straniero, si determinano connotazioni opposte nelle parole: ospitalità e ostaggio. La prima con l’idea di positività, la seconda tutta negativa.