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Pillole di cultura: Desiderare

a cura del prof. Luigi Casale

Se vediamo una stella cadente – si sa – esprimiamo un desiderio. Chi sa perché?
E’ la fascinazione che le stelle esercitano sulla nostra vita. E’ un fatto proverbiale.
La contemplazione del cielo stellato, la convinzione di ricevere ognuno l’influsso di una stella, la stessa credenza che il nostro destino sia determinato dalla congiunzione degli astri (con tutta la conseguente produzione di oroscopi), ci mettono in un atteggiamento di acquiescenza di fronte a questo potere misterioso. Quasi a voler sottolineare la nostra dipendenza dal cielo, o meglio, il riconoscimento della nostra limitatezza e, nello stesso tempo, della nostra forza e della potenza delle nostre aspirazioni. Probabilmente questo atto, esistenziale e filosofico insieme, è la intuizione della dignità di esseri pensanti, che ci appartiene.
“Sidera” in latino sono gli astri, le stelle. In italiano esiste l’aggettivo “siderale”.
Chi ci crea qualche problema è il prefisso avverbiale “de”. La preposizione corrispondente vale come caratteristica che indica una separazione, oppure una provenienza dall’alto. “Privo di”. Oppure: “Discendere da”.
Presso i Romani, e in genere presso tutti i popoli antichi, gli àuguri, tra gli altri sistemi di segni (come viscere di animali, voli d’uccelli, ecc.) da cui trarre gli auspici, avevano anche le stelle. E quando il cielo era coperto, la privazione delle stelle era un ostacolo al riconoscimento di quelle certezze che essi cercavano; per cui la condizione di insoddisfazione per questa mancanza era un “desiderare” cioè essere privi delle stelle; e, di conseguenza, anche di quelle realtà di cui ognuno si immaginava che le stelle fossero portatrici. (In questa prima ipotesi il “de” ha un valore privativo).
Nel suo secondo significato di “discendere da” l’interpretazione più che essere opposta appare complementare alla prima ipotesi. Cioè “desiderare” significherebbe aspettarsi dalle stelle quelle cose di cui per il momento siamo privi (causa la mancanza delle stelle).
Ora ci rendiamo conto di che cosa veramente significhi essere nati sotto una buona stella?
Contrariamente agli “assiderati” che muoiono dal freddo per essere stati tutta la notte “sotto le stelle” (latino: “ad sidera”), o esposti alle inclemenze della stagione fredda.

 

Pillole di cultura: Meteco

a cura del prof. Luigi Casale

Metèco è lo straniero che vive stabilmente in uno Stato; e come tale, visto con ostilità. Nel greco moderno la parola significa semplicemente “straniero”. Essa è formata a partire dall’antica espressione greca μέτ-οικος = che ha cambiato casa (o separato da casa, cioè lontano; e quindi emigrante).
I meteci, nell’antica Atene, erano gli stranieri residenti. Queste persone non partecipavano alla vita politica della città, ma, purché pagassero una tassa, potevano svolgere tutte le attività in piena libertà.
La parola, da sempre usata dagli storici per lo studio dei rapporti sociali nell’antica Atene, è stata recuperata all’uso corrente in Europa, entrata anche nel lessico italiano, dopo il successo discografico del cantante greco-francese Georges Moustaki (1969), che in una famosa sua canzone tale si definiva.
Perciò potremmo anche dire che “meteco” ci viene dal francese. Specialmente se consideriamo la posizione dell’accento tonico (“metèco” dal fr. métèque).
Così succede per tante altre parole apparentemente entrate nella nostra lingua dal francese o dall’inglese. Mentre difatti esse sono molto più antiche, e già conosciute in Italia dai classicisti. Come, per esempio, la parola reclàme. In latino esiste “rèclamen” che dovrebbe dare in italiano réclame (e così è stato; e continua ad esserlo solo per qualche vocabolario e per i puristi). Noi, invece, i parlanti quotidiani diciamo “reclàme” utilizzando la forma francese “réclame” ( pronuncia: reclàmə).
Ma se proprio qualcuno volesse fare una bella figura, (non so però a che cosa possa servirgli!) può anche dire rèclame e mèteco. Correndo il rischio – se nessuno lo capisce – di essere guardato male.
A lui la scelta.

[Vedi: economia, ecologia, parrocchiano, diocesi, ecumenico, ecc.].

Pillole di cultura: Diocesi

a cura del prof. Luigi Casale

Sono tante le parole che contengono nella loro composizione l’elemento strutturale “eco/oco”, di origine greca, che in qualche modo aggiunge alla parola composta il significato di “casa”. (In questa rubrica ne abbiamo già esaminate alcune: economia, ecologia, parrocchiano, parrocchia.) Diocesi è una di esse.
Oggi la diocesi è la circoscrizione territoriale sottoposta alla giurisdizione di un vescovo. Ma all’origine, al tempo della riforma dell’impero Romano fatta da Diocleziano, la diocesi era una delle unità territoriali amministrative in cui era stato diviso l’impero; quindi una regione molto più ampia delle attuali diocesi.
La parola deriva dalla espressione greca: dià oikías (διά οικίας = attraverso le case), e significa: unione di più centri abitati.
Come ho detto, nell’organizzazione territoriale della Chiesa cattolica la diocesi è guidata da un vescovo (“episcopo” – sempre di origine greca – che letteralmente significa: colui che osserva dall’alto; o che guarda intorno. Cioè – diremmo oggi – il guardiano, il sovrintendente o, anche, il pastore).

Pillole di cultura: “di primo pelo”

a cura del prof. Luigi Casale

Oggi si usa l’espressione “di primo pelo”, molto diffusa, per dire “giovane”, “nuovo del mestiere”.
L’espressione, infatti, proprio questo significa; anche se il pelo o la barba incipiente non c’entrano proprio niente. Ma perché?
Se questa espressione significa “giovane” lo è solo per traslato. Vale a dire grazie ad una metafora (parola che è sinonimo di traslato). Le due parole sono – esattamente – dei “calchi”, cioè una è la copia dell’altra; sempre dal punto di vista della semantica.
Traslato viene dal latino (trans + latum [dove “latum” è uno dei temi del verbo fero=portare]) e significa: portare attraverso, portare di là; quindi traslato = “trasportato”, trasferito.
Metafora è invece di origine greca (metà + phoréō e significa la stessa cosa “trasportato”.
Ciò che è trasportato – secondo il significato delle due parole – da una determinata sfera lessicale ad un diversa sfera lessicale è proprio il significato.
Il parlante che usa una determinata parola, appartenente ad una certa sfera di parole (si dice anche: lessicale), è capace e/o decide, o in maniera autonoma ed originale, oppure, appoggiandosi ad una convenzione già esistente tra i parlanti, di trasferirne il significato ad una realtà che dovrebbe essere indicata con un’altra parola (appartenente perciò ad una diversa sfera lessicale). [Si definisce sfera lessicale un elenco di parole che ruotano tutte intorno allo stesso argomento].
La definizione della metafora, così come l’abbiamo formulata, sembra complessa; ma – mi pare – chiara e completa.
Una più evidente spiegazione ce la darà proprio l’esame della espressione che stiamo esaminando. Se il pelo di cui si parla qui fosse veramente il pelo della barba o altra peluria adolescenziale (come si è portati a credere; e come certamente lo è per chi la lingua è opaca), il significato di “primo pelo” passando all’adolescente che comincia a sperimentare la comparsa e la crescita della barba, andrebbe a significare – in altre parole – giovane o giovanile. In questo caso si parlerebbe del pelo per indicare la persona a cui il pelo appartiene. E già questo comportamento è un esprimersi “per metafora”. Anche se qui è comunque presente un legame logico, cioè un certo rapporto di vicinanza, tra le due realtà a confronto. Le grammatiche dicono “la parte per indicare il tutto”.
Però si dà il caso che il nostro “pelo” (quello della espressione da cui siamo partiti e che usiamo abitualmente, non è il pelo anatomico della specie umana, il quale, se riferito alla barba, indicherebbe l’individuo maschio adulto. Se riferito ad altro pelo indica “che sta crescendo”, maschio o femmina che sia.
Il “pelo”, di cui si parla – veramente (e qui entra la semantica storica) – è il “pilum” dei Romani, cioè il giavellotto, una specie di lancia corta che faceva parte della dotazione del soldato. È solo un caso che anch’esso sia riferito all’uomo, maschio, adulto. Ma – in questo caso: è il caso di dirlo – qui si tratta di un dato di cultura, non di un dato di natura.
I Romani chiamavano “primipìlus” il soldato di prima fila, o il comandante di una unità militare, com’era il centurione. Ma non è escluso neppure che con questa espressione si potesse indicare il soldato appena arruolato (“alle prime armi”, si direbbe oggi; al “primo giavellotto”, avrebbero detto i Romani. In latino: “primpìlus”. E allora – solo per puro caso – le due espressioni, quella antica e quella moderna, quella trasparente e quella ancora opaca, coinciderebbero).
In Cesare, però, e in altri autori il “primipìlus” è il centurione del primo manipolo dei triarii, i veterani: quelli con tre lustri di anzianità e perciò all’ultima ferma, la quarta. Quindi è il comandante dei più anziani, anziano egli stesso.
A conclusione di questa nostra conversazione possiamo notiamo come la trasparenza della lingua rischia di stravolgere completamente il significato dell’espressione.
Comunque resta il fatto che è meglio saperle le cose, che non saperle.
Conoscere è meglio di non-conoscere.

Pillole di cultura: Eccetera

a cura del prof. Luigi Casale

Ecc., ecc. – Che strano trovare quest’eccetera-eccetera all’inizio del discorso! –
Sì! E’ vero. Certe volte ce ne sono di quelli che quando la parola gli piace te la condiscono in tutte le insalate, la usano dappertutto e chi è attento a queste cose si accorge che essa è fuori luogo. Allora due sono i casi: o l’ha imparata da poco, e allora per non dimenticarla, forse inconsciamente, la va ripetendo spesso per farla sua. O pensa che la parola sia chic, e faccia scicche anche esibirla. (Anzi i casi sono tre). Oppure ha un tic, non può fare a meno di ripeterla almeno una volta ogni dieci parole. Il vizio è più forte di lui. Eccetera. Eccetera!
Questa parola, da sola, o ripetuta due volte, la si usa per interrompere una sfilza di tante altre cose, cosicché facciamo a meno di nominarle, o perché pensiamo che il ricevente le conosca, oppure che le possa immaginare, o che tutte quelle eventuali precisazioni alle quali rinunciamo non siano necessarie ai fini della comprensione dell’atto comunicativo. Eccetera.
“Eccetera” è la forma agglutinata dell’espressione latina “et cetera” e significa “e le restanti cose”, “e ciò che segue”, “e le altre cose”.
In latino ci sono diversi aggettivi (o pronomi) per indicare il concetto di altro. E questi, quasi tutti, si sono conservati nella lingua italiana; come: altro [alius]; altro tra due [alter]; restante [reliquum]; tutti quanti gli altri (maschile) [ceteri]; tutte le altre cose (neutro) [cetera].
I giovani latinisti sanno che al neutro plurale ceterus fa cetera = tutte le altre cose. Quindi: “et cetera” = “e tutte le altre cose”.