I miei anni a Torino
di Gioacchino Ruocco
Torino immagine tratta dal Web
Gentile signor Nocera, approfittando della sua risposta (rif.: rubrica “Lettere alla Redazione” – 30 agosto 2009), vorrei portare alla luce alcuni aspetti della vita che, negli anni della mia permanenza a Torino, conducevano i nostri compaesani meno abbienti, mentre noi, più fortunati, avevamo la nostra isola, quieta e rassicurante, sulla quale vivere e consolare la nostra emigrazione.
Perché mi trovavo a Torino: avevo smesso di navigare e cercavo un posto a terra quando alcuni colleghi mi parlarono di un ente di diritto pubblico che assumeva personale per lo svolgimento dei compiti ispettivi di natura tecnica. Fra i tanti riuscii a spuntare come destinazione Torino che avevo conosciuto letterariamente attraverso i libri di Cesare Pavese. M’innamorai perdutamente di questa città e del Piemonte: il lavoro mi permetteva di girare in lungo e in largo e visitare tanti paesi che fino ad allora per me non erano mai esistiti. Mi innamorai così del Canavese e delle Langhe. Arrivavo per il mio lavoro fino a Ceresole reale nel parco del Gran Paradiso lontano dalle nebbie e dalle diatribe della pianura, ma tra le tante esperienze mi capitò di incontrare anche nostri paesani. Inizialmente pensavo che a Torino, di Castellammare, ci fossero soltanto il sottoscritto e il compagno d’avventura Fortunato Setale, impegnato nello stesso lavoro fino a quando non mi capitò di recarmi, per motivi di lavoro, in un palazzo di via Cibrario, dove per poco non andavo al manicomio. Varcando il portone d’ingresso, come a volte capita, mi trovai in una realtà diversa da quella che mi ero lasciato alle spalle soltanto qualche metro prima. Le voci che percepivo, e non una, ma tante, si rincorrevano all’interno di quella realtà, erano di gente che parlavano il mio dialetto, quello di Castellammare e quando il portiere che mi stava aspettando si rese conto che io ero un suo paesano, dal centro del cortile grido a tutti: “L’ispettore è paisano nuosto. E’ de Scanzano!” Le voci che prima interloquivano in maniera evidente e rumorosa zittirono di colpo e i volti appesi alle ringhiere, assieme ai panni messi ad asciugare, diventarono tanti. Odori di sugo, di verdure, di fritti. Dopo lo stupore, mille domande: come mi chiamavo, a chi appartenevo, fino a quando non spuntò uno di loro che, colpo di scena, mi conosceva. Mi guardò con occhi sorridenti e increduli, come per dirmi: “Ma non mi riconosci?” Poi quando mi disse il suo cognome Sorrentino, mi sembrò impossibile di aver ritrovato Carlo e la sua chitarra, con quale avevo composto qualche canzone giù al Centro sociale INA CASA del San Marco. Durante il servizio militare l’avevo perso di vista, anche se lui attraverso la radio privata dove lavora mi aveva cercato per propormi come autore e collaboratore. Dovetti accettare per forza un invito a pranzo e promettere di ritornare con mia moglie a far loro visita. Cosa che avvenne regolarmente per qualche tempo e mi toccò, per riconoscenza, dare una mano a chi me la chiedeva. Da quel momento i miei compaesani saltavano fuori da ogni dunque facendomi scoprire nuove isole, nuove assembramenti in cerca della sopravvivenza. Erano come i girasoli della cicoria in mezzo ai campi, ne cercavi uno e, dopo un attimo ne trovavi cento: a Nichelino, a Favria, a Moncalieri. A Ciriè, mi dicevano, c’erano più gragnanesi che piemontesi e non mancavano presenze in altre località. Molti amavano mimetizzarsi, poi, al dunque, si manifestavano con tutta la loro natura appena percepivano la voce di un loro paesano. Ho conosciuto molti piemontesi innamorati del nostro paese. Se ne erano innamorati sentendone parlare. Dopo due anni a Torino andai a vivere a Settimo Torinese per permettere a mia moglie di stare vicino alla scuola che aveva scelto come sede definitiva ed anche lì apparvero altri compaesani, ma di diversa estrazione e con pretese di sistemazione, con retribuzioni stratosferiche, senza vergognarsi di dirmi in faccia che, secondo loro, tutti ex marittimi, conducevo una vita modesta. Certe volte non sapevo se era meglio negarmi o accettare comunque questi rapporti, per rendere meno pesante la vita dei miei compaesani nei primi approcci con Torino e le problematiche che come “terroni” affrontavano per trovare una casa, per farsi capire, ecc. ecc.
Io non ho mai rinunciato al mio dialetto, anzi la mia biblioteca era abituata da anni ad ospitare Pavese accanto a Pasquale Ruocco, Fenoglio accanto a Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Chiurazzi, Di Giacomo, Galdieri, scrittori italiani accanto a scrittori russi, americani, spagnoli, ecc.
Anche io avevo la mia isola paesana. Mia moglie aveva dei parenti in Piemonte che erano arrivati per altre strade di lavoro, ed ogni settimana era un obbligo riunirsi a turno presso uno di noi per il pranzo della domenica e per raccontarsi vita, morte e miracoli di parenti, amici, conoscenti e per sentire la voce dei genitori, ma mia moglie pensava sempre di ritornare. Le riunioni acuivano questo desiderio e la mancanza del paese diventava più forte nei giorni di nebbia e di freddo, anche se intorno a lei crescevano la stima e la simpatia, i favori dei locali che apprezzavano il suo impegno professionale.
Io, invece, a dire il vero, mi stavo integrando anche se il cuore desiderava il contrario. Vivere di malinconia non mi è mai piaciuto, ma essendo stabiese nell’animo e nella mente non potevo venir meno alla mia individualità ed indipendenza per cui nel 1972 lasciai Torino per Roma. Al di là delle mie peripezie, sento che chi è stabiese non può vivere altrove perché non sa o non vuole dimenticare l’appartenenza alle proprie origini tanto da fargli rispondere sempre e comunque allo stesso modo, a chi gli chiede: “Sei di Napoli?” – “No, so’ ‘e Castiellammare”, che resta l’unico teatro possibile delle rappresentazioni delle sue gesta.