Archivi tag: castellammare si racconta

Castellammare di Stabia Anno scolastico 1950-51

Ricordi Fotografici

Ricordi fotografici

di Beppe Cuomo

Foto Scolastiche

Clearwater, Florida
Agosto 2009

Caro Maurizio, è la prima volta che ti scrivo, anche se seguo il liberoricercatore, spronato soprattutto dal mio grande amico Frank Avallone. Ti mando alcune foto di 50 anni fa e più:

Sono il fratello di Enzo Cuomo, che penso, conosci. Dopo la maturità classica nel ’58, sono andato a Genova, dove mi son “perso” nella musica, ed ho iniziato la mia vita di “giramondo”.

Ora vivo qua in Florida… Troppo lungo per raccontarti della mia vita: ho incontrato tanta gente, anche famosa e ne ho viste tante…

Un saluto ed un augurio per il futuro, Beppe Cuomo

P.S.: Un carissimo saluto al Prof. D’Angelo, so che lui si ricorda di me ed io di lui.

orologio_scanzano

Scanzano negli anni ’50

Scanzano negli anni ’50

di Gioacchino Ruocco

orologio_scanzano

Orologio a Scanzano

Premessa dell’autore
Non so se chi vi comunica i soprannomi che pubblicate (nella rubrica dove ho ritrovato anche l’appellativo della famiglia di mia nonna “ ‘e Chiuvetielle” , che abitava a Vicolo Sorrentino, ‘ncopp’‘o Suppuorteco), vi fornisce anche una descrizione del soggetto di riferimento, che altrimenti potrebbe restare un nome astratto o solo di conoscenza di pochi. Nella vostra carrellata ho notato alcuni soprannomi a me noti da quando ero ancora presente a Castellammare, ma tranne che per pochi, non sono sicuro di aver individuato con certezza la persona alla quale è riferito. Per quelli che vi invio ho tracciato un cenno biografico che potrebbe costituire un inizio di identikit da ampliare in una eventuale vostra pubblicazione. A me per esempio, mentre frequentavo il nautico di Piano di Sorrento, affibbiarono il soprannome di ‘o Poeta, perché scrivevo poesie in napoletano che vennero pubblicate sul giornale locale “La voce di Stabia”, ma non so quanti si ricordano di queste pubblicazioni.
A seguire metto alla vostra attenzione alcuni soprannomi storici, i personaggi e gli usi e costumi relativi al territorio di Scanzano negli anni ’50.

Personaggi di Scanzano

‘O Sissante (padre) aveva un asino con il quale effettuava trasporti di non so che genere e ‘a Sissantella (figlia) così appellata per la sua modesta altezza per l’età che aveva.

Gennaro ‘o purchiaccone che aiutava Giusuppina ‘e Milano nella fattura del pane durante la notte e durante la giornata metteva a disposizione la sua modesta abitazione di chi nel gioco delle carte dilapidava i modesti guadagni dietro modeste ricompense. Aveva litigato, forse per il vizio del gioco, con tutta la famiglia e da quel momento aveva eletto a suo esilio ‘o Suppuorteco. Un giorno mi disse che erano venti o trent’anni che non scendeva a Castellammare. Nei momenti d’ozio si sedeva vicino all’ingresso del tabaccaio e vi passava diverse ore interloquendo con tutti quelli che passavano.

Teresa ‘a lacertesa fruttivendola di modeste pretese che integrava con la sua attività i guadagni del marito che faceva il cocchiere. Viveva a piano terra nel Vicolo Sorrentino.
L’unica figlia era andata in moglie a Pauluccio ‘e maccarone, da alcuni definito guappo per i suoi comportamenti spavaldi. Abitavano nelle prossimità dell’Istituto Diocesano di Scanzano (zona “California”).

Biasina invece aveva una pasticceria su via Micheli, nella sua bottega di dolci, produceva caramelle di zucchero di forma quadrangolare di colore giallastro(1), il cui aroma adesso non so definire, forse alla camomilla.

Giggino ‘o russo negli anni cinquanta (quando il sottoscritto abitava ancora nel vicolo Sorrentino), per modificare la sua condizione che lo poneva tra chi non aveva ne arte ne parte, espatriò in Brasile con altri connazionali. Frequentò i corsi di qualificazione senza i quali era impossibile espatriare.

‘O trippone di professione fruttivendolo ambulante, abitava a Privati, con il suo carretto carico di verdura acquistate al mercato ogni mattina permetteva alle famiglie, lungo il percorso di avvicinamento a casa, di rifornirsi a buon prezzo di verdura fresca di campagna. Alcuni suoi discendenti sono ancora presenti sul ponte di Varano.

Peppe ‘o pazzo così chiamato dai miei amici più adulti, era il centauro di Mezzapietra che in sella ad una motocicletta, marca Gilera, molto potente, percorreva a folle velocità quel tratto di autostrada dove noi giocavamo a palla (il traffico a quei tempi era ridottissimo): se non era soddisfatto del modo come aveva affrontato la curva in prossimità del ponte di Mezzapietra, Peppe tornava indietro per riprovarci con maggiore velocità. Dicevano pure che aveva un negozio di moto.

‘O zione era un tipo grande e grosso che aveva una rivendita di vini gestita prima del ponte di Mezzapietra. Per chi si fermava a bere, a richiesta preparava anche delle merende “p’appuggià ‘o bicchiere ‘e vino”, che, a detta di molti, era veramente buono.

A stuccaiola la cui famiglia aveva un negozio di stoccafisso tra piazza Orologio e ‘a Scala ‘e Tatone (forse per questo l’avevano soprannominata con quell’appellativo), era un bel pezzo di ragazza: alta, formosa e appariscente. Negli anni Cinquanta si era data allo spettacolo esibendosi al Salone Margherita di Napoli con incerta fortuna.

(1) “le caramelle gialline, a quadrettini di cui parla il signor Ruocco, le chiamavamo, ‘e caramelle e sciuscelle” (e-mail del 6 agosto 2009, a firma di Frank Avallone – stabiese in Florida).

Cosa mangiavamo

Come mangiavano gli italiani negli anni Cinquanta, immagine presa dal web

Come mangiavano gli italiani negli anni Cinquanta, immagine presa dal web

Ricordo il pane caldo di forno ‘e Giusuppina ‘e Milano con sugna, al posto del burro, e alici salate che, anni dopo, mi ritrovai a consumare durante una delle prime colazioni a bordo di un dragamine del Gruppo Dragaggio di Napoli al Molo San Vincenzo;

‘E menuzzielle, che erano le teste degli spaghetti, che utilizzavamo per la pasta e fagioli i cui avanzi venivano consumati il giorno dopo averli ripassati in padella dopo che si era formata per effetto dello strutto di maiale una crosta (‘e scurzetelle).

‘E purchiacchielle, che oggi vengono vendute in vaso come piante di arredamento per terrazzi, che messi ad asciugare al sole venivano consumati nel periodo invernale assieme ad altre risultanze (melanzane, ecc.) anch’esse seccate che in famiglia chiamavamo “pacche secche” (vedi ricetta già pubblicata dal sito) con aggiunta di peperoncino e pomodori (tipo buttiglielle) conservati appesi fuori al balcone o nel sottotetto in forma di “spugnielle”.

Altro sfizio che andava di moda a Scanzano erano le briosce prodotte da un panettiere che esercitava nella zona chiamata “Abbasci’‘o Santo”, località ad alta frequentazione del “Munaciello”, come certe signore raccontavano.

Altri ricordi

Quanti ricordi affiorano alla mente, ma sento di essere stato fortunato di averli vissuti. Sull’autostrada tra località California e Vicolo Sorrentino giocavamo a pallone che più di una volta dovemmo recuperare nel rivolo che passa per la Caperrina, scavalcando la recinzione di qualche giardino per arrivare col cuore in gola al recupero non sempre fortunato della sfera che l’incosciente di turno faceva volare oltre gli ostacoli abituali.

Ricordo pure che nel mio vicolo c’era un giovane falegname che ogni anno in occasione della festa di San Nicola di Mezzapietra tappezzava la strada con un’infiorata. Guardandola dal mio balcone era uno spettacolo che m’incantava.
Lo chiamavano Filotino, ma non ricordo più il suo cognome e il suo vero nome. La casa dove abitava esiste ancora e affaccia sulla circonvallazione nel tratto in corrispondenza con Vicolo Sorrentino dove sono nato ed ho abitato fino al 1954.

Grandi eventi del 20° Secolo

Grandi eventi del 20° Secolo
di Frank Avallone

Alcuni giorni fa, il caro amico Umberto Cesino mi chiese la ragione, per cui la sua suocera, l’amico Gigi Nocera, ed io, nonostante l’età, ricordiamo la nostra fanciullezza con dovizia di particolari e con tante sfumature, a differenza delle nuove generazioni che risultano essere più superficiali e distratte. La domanda mi ha fatto pensare tanto… chi cerca trova… ed io sono arrivato ad una conclusione, che è nella logica dei fatti accaduti nel 20esimo Secolo: “Ad ogni azione c’è una reazione uguale e contraria!”, recita un famoso principio della fisica, ebbene, la causa del profondo cambiamento, che in particolare ha modificato il comportamento delle nuove generazioni, è da imputare sicuramente all’avvento della televisione.

Cartolina d'epoca (coll. Bonuccio Gatti)

Cartolina d’epoca (coll. Bonuccio Gatti)

.Fino al 1954, infatti, le notizie ci venivano fornite dai nostri genitori, dai nonni, gli zii, le zie, parenti e amici… specialmente durante i mesi invernali, quando, seduti intorno al braciere, piedi sullo scaldino, ascoltavamo i cosiddetti “CUNTI”, che i nostri famigliari ci raccontavano. Salva la veridicità del racconto, nel cosiddetto “cunto”, c’erano sempre delle aggiunte e le immancabili sfumature, di chi aveva vissuto e narrava la storia. A volte ci parlavano dei loro nonni o come si svolgeva la loro vita da bambini; storie anche di cronaca e commenti vari; storie, a volte fantasiose: “ ‘O MUNACIELLO… CAPPUCCETTO ROSSO… RAZZULLO E SARCHIAPONE, etc. ”. Storie di matrimoni, di morte, malattie, etc. Insomma, la cronaca del presente e del passato, vista attraverso gli occhi di chi raccontava. Questo era il nostro intrattenimento, sempre personalizzato e ripetuto, quasi all’infinito, per cui, a volte, ci veniva spontaneo di esclamare: “Ma questa storia non l’avevi raccontata già? Oppure, interrompevamo per ricordare che il fatto non era andato proprio così come ci veniva raccontato! Il “Cunto” ci rendeva quindi partecipi dell’evento per farci arrivare a conclusioni nostre personali, ma sempre basate sulla conoscenza che avevamo dei personaggi e delle circostanze. Naturalmente, prima dell’avvento della televisione e tralasciando la radio, lusso di pochi, l’altro modo per sapere e conoscere, era leggere un buon libro; ma anche questi, nel dopoguerra erano rari e costosi. Visto l’argomentare di questo scritto, trovo opportuno citare, uno dei miei cari amici d’infanzia, Vittorio Di Martino… “‘O poliziotto”, che mi somigliava, sia per personalità che nel carattere. Il suo soprannome derivava dal fatto, che era sempre attento a quello che succedeva intorno a lui: giudicava, catalogava, indagava… e vedeva le cose, con profondo senso di appartenenza e interesse. Maturo per i suoi anni, soprattutto perché quando aveva solo 12 anni d’età, aveva avuto il grandissimo dolore di perdere il suo PAPA’, Matteo, che era capitano della Paranza “Santa Barbara”, che ritornando a Porto Salvo, da un viaggio a Napoli, ebbe un infarto e morì, alla giovane età di 52 anni. Questo mi ricorda un po’ “La cavallina storna”. Tornava a casa, dopo aver guadagnato onestamente, il pane per la sua famiglia e un terribile evento lo aveva rubato all’amore dei suoi cari!! ~ Ricordo bene che in quegli anni, Vittorio mi ha raccontato, che la Santa Barbara non aveva motori, ma solo vele, per cui, quando non c’era vento, sei marinai scendevano in una scialuppa e remando, trainavano la paranza, fino al porto di destinazione. Nel 1948, Vittorio, ad appena 9 anni d’età, fu invitato dal padre a un viaggio a Capri. In tale occasione sulla paranza fu caricato: breccia, cemento e calce. Prima di partire, i marinai riempirono un barile d’acqua della Madonna. Arrivati a Capri, dovendo scaricare il pesante carico con particolari cesti chiamati “‘E CUOFANE”. Lavoro durissimo e vi lascio immaginare… sporchi, impolverati, sudati, bevvero quindi acqua in gran quantità, per cui quando arrivò il momento di cucinare la pasta e fagioli per rifocillarsi, dovettero arrangiarsi con l’acqua del mare e pochissima acqua dolce. Vittorio mi ha raccontato che la pasta e fagioli risultò squisita e che la ciurma mangiò con grande appetito. Così nel 1948 egli fu partecipe di un avvenimento, che oggi, dopo 62 anni mi ha raccontato con dovizia di particolari, a testimonianza che il ricordo del vissuto supera di gran lunga il sentito dire e non esiste telegiornale o trasmissione televisiva che possa reggere il confronto.

Grandi eventi del 20° Secolo ( parte seconda )

Alcuni giorni fa, a casa di mio figlio Joe (Pino), ho raccontato alle mie due nipotine e a mio nipote, rispettivamente di 9 – 7 e 5 anni d’età, quelli che erano i ricordi della mia prima infanzia. Quindi ho descritto la casa dei miei nonni materni, coi quali vivevo a Fondi (LT), la casa, costituita su tre livelli aveva al piano terra la stalla e la cantina, al primo piano, ben tre camere da letto e al secondo piano la cucina, il forno e la sala da pranzo. Quest’ultima stanza era arredata con il tavolo per i nostri pasti, un grosso tavolo usato per impastare la farina per la pasta e il pane, un ampio camino (in cui si cucinava usando il treppiedi o il paiolo), al cui lato vi era una credenza. La casa disponeva inoltre di uno stanzone dove venivano conservati: legumi, patate, grano, granturco (stipato a pannocchie e messo ad essiccare), ed altre prelibatezze della “terra”; poi sulle scansie erano sempre riposti dei grossi vasi di creta, in cui conservavamo noci, mandorle, melograni, uva passa (avvolta in foglie di fichi) mele, pomodori messi ad essiccare e le immancabili conserve di salsa. Al soffitto vi erano appesi salami, salsicce, prosciutti, lardo, alcune vesciche piene di sugna e tutto ciò che ricavavamo da uno o due maiali ammazzati nel mese di dicembre. Ricordo, come un sogno, il grande letto di ferro battuto, dei miei nonni e sotto di esso, a prescindere dal vaso da notte, una papera di legno, che sicuramente veniva usata nelle paludi pontine, come richiamo ai mallardi (germani reali) e alle anatre, durante il periodo della caccia. Ricordo anche un grosso gatto di nome “ ‘Ndurlitto ”, che nel dialetto locale significa (stupidino o fessacchiotto). Al piano terra, al lato sinistro dell’entrata c’era un buco rotondo, che fungeva da cesso e da pozzo nero. Nella stalla c’era il nostro cavallo di nome Gigetto e due mucche da latte. Ogni mattina e a sera, mia nonna le mungeva perché le vicine di casa venivano provviste di scodelle, a comprare il latte ancora caldo e coperto di schiuma. Io sono cresciuto con questo latte, che bevevo ed in cui non raramente bagnavo il nostro pane fatto in casa; che odore e che sapore (altro che latte scremato, pastorizzato, martorizzato ed immolato sull’altare della scienza!)
I nipotini ascoltavano in silenzio, attenti a capire quello che per loro ora risulta essere un’esperienza del tutto estranea al vivere quotidiano qui in America. Alla fine ho raccontato ai miei nipoti, il punto forte della storia (un episodio che ho appreso da mia nonna non appena sono diventato un po’ più grandicello): avevo circa 4 anni d’età, quando al principio del 1943, scomparvi alla vista dei miei cari, che allarmati, mi cercarono dappertutto e solo alla fine di lunghe e preoccupate ricerche, mi trovarono nella stalla, sotto ad una delle mucche intento a mungerla per bere direttamente dalle sue mammelle; al breve racconto ho poi aggiunto il commento che ho sentito, tante volte da mia nonna, ovvero che sono stato fortunato, nello scegliere la mucca più calma perché con l’altra avrei potuto correre il rischio di buscarmi una pedata in testa. Avreste dovuto vedere gli occhi dei miei nipotini; uno spettacolo che non dimenticherò mai e che mi fa porre questa domanda: “Il mondo, ha guadagnato o ha perso, nel 1954???” Mentre mi riempivano di domande è arrivato mio figlio Joe; alla sua vista Ashleigh (la mia nipotina maggiore), eccitatissima, gli ha raccontato la mia avventura con la mucca, che nella stalla ne avevamo due, del cavallo… il tutto raccontato in meno di due minuti e con estremo entusiasmo!!!
Tanto che mio figlio ha esclamato: “Papà, ma che gli racconti? Nel paese… a pianterreno… le mucche… il cavallo…!!! Ma dai… non è possibile!!!” Allora ho dovuto spiegare anche a lui, che gli abitanti di Fondi pur vivendo in paese, avevano appezzamenti di terreno sparsi un po’ dappertutto, anche a 3 – 4 – 5 km di distanza e che nel 1943, oltre a cavalli, asini, muli e carretti, non avevano altri mezzi di trasporto. Dunque, dove si poteva tenere il cavallo durante la notte? Certamente è molto difficile per i nostri figli e per i nipoti capire come si viveva 60 – 70 anni fa!!!
Una sera del 1970, eravamo a cena con amici (nello stato del Connecticut), quando Guido Cardinale, un mio carissimo amico, ci disse che aveva raccontato ai suoi due figli del sacrificio e della sua vita di apprendista meccanico (i suoi figli oggi lavoravano con lui in una grande officina meccanica di famiglia) di quando alla loro età (anni in cui Guido viveva ancora in Italia alla periferia di Roma), lavorando in un’officina distante da casa circa 9 km, per trovarsi (puntuale alle 7.30) al suo posto di lavoro, tutte le mattine, prima dell’alzarsi del sole, era obbligato a percorrere a piedi i 9 km, un percorso che sistematicamente era tenuto a ripercorrere a ritroso la sera, quando all’imbrunire doveva riguadagnare le “comodità” del focolare di casa!! Nell’apprendere la storia, sapete cosa gli hanno detto i suoi figli?! “Papà, ma perché non ti sei comprato un’automobile???”
Cose da non credere, Guido Cardinale, non poteva comprarsi neanche una bicicletta e questi gli volevano far comprare addirittura un’automobile!!!

Questa esperienza mi fa capire l’importanza del nostro passato e all’involontaria difficoltà di comprensione che hanno i nostri figli/nipoti ad apprendere, a capire e a metabolizzare i nostri racconti ad appena due generazioni di distanza, bisogna quindi persistere far capire, quale è stata la nostra vita e quali sacrifici comportava il sopravvivere quotidiano di quegli anni, per non dimenticare… Perciò, non ci fermiamo e continuiamo a ricordare e a raccontare…!

Grandi eventi del 20° Secolo ( parte terza )

Oggi, i genitori, parcheggiano i figli davanti al televisore, per tenerli occupati. Gli eroi. per i bimbi di questa generazione, sono personaggi di fantasia mentre i nostri erano reali; i genitori, i nonni, zii e zie; quando ci raccontavano un avvenimento erano coinvolti emozionalmente e noi lo capivamo dalla loro voce o espressione facciale, e ciò coinvolgeva anche noi emozionalmente. Per esempio, leggendo il racconto del carissimo Gigi Nocera “ ‘O LUNNERI’ ‘E PUZZANO ”, si sentono concretamente i sentimenti di apprensione dei genitori e l’amore espresso, anche quando dicono: “Puozze jetta’ ‘o sanghe!!!”; “Te scomm’e sanghe”; “Giggì, miettete ‘a sciarpe c’a fa friddo!”; Il papà che decisamente dice “Mo’ nce fermamme ‘cca’!!”, queste sono espressioni che possiamo capire e condividere a livello emozionale. Sono espressioni comuni alla nostra esperienza di vita.
La mia nonna materna, Attilia Zannella, mi raccontò la storia di suo fratello Luigi Zannella di Fondi, Latina. Era partito alla giovane età di 17 anni, per combattere nella prima Guerra Mondiale; era un giovane aitante di circa un metro e ottantacinque dal peso di ottanta chili. Circa due anni dopo, fu comunicato alla famiglia, che era stato ferito e che si trovava nell’ospedale militare di Roma. La madre era già morta, per cui si recarono a Roma, il fratello Vincenzo e la moglie Assunta. In una delle sale dell’ospedale, passando fra file di letti; zia Assunta sentì una voce esclamare: “Sorella mia!” lei si voltò, vide un giovane di non più di quaranta chili, che le faceva segno di avvicinarsi; lei si rivolse al marito e disse “Povero ragazzo! E’ fuori di senno, mi ha scambiato per qualcuno della sua famiglia!” Dovette, però, ricredersi poiché si trattava veramente di zio Luigino; irriconoscibile, quasi un cadavere. Quando mia nonna raccontava questo episodio; la sua voce si incrinava, lacrime apparivano nei suoi occhi ed io ero trasportato da una “marea” di sentimenti. Come si può avere la stessa reazione emotiva, guardando la TV?? Le storie che i nostri genitori e parenti ci raccontavano, sono impresse nella nostra mente indelebilmente… perché facenti parte di realtà vissute e personali.
Quanto detto ci dà lo spunto per riflettere: se paragoniamo una storia d’amore vista al cinema o in TV, con la storia del vostro amore, l’incontro con l’anima gemella, notiamo che la storia vista in TV, la ricordiamo per un po’ di tempo per poi dimenticarne i particolari; la prima volta che vi siete innamorati, invece? Ricordate le prime parole scambiate col vostro grande amore? Come e dove vi siete conosciuti? Come si è sviluppata la vostra storia d’amore? A che velocità batteva il vostro cuore? La gioia di quando vi ha detto si ti voglio bene? Quando tremanti vi siete baciati la prima volta? Questa è la differenza del raccontare il mondo reale ed il mondo della TV!!
Certamente, avrete raccontato questa storia d’amore mille volte, ma state ben certi che i vostri figli non si stancheranno mai di ascoltarla!!

Come una volta…

Come una volta…

di Libera Coppola

Salita I Marchese de Turris (foto V. Cesarano)

Introduzione e brevi note sull’autrice
Mi chiamo Libera Coppola sono nata a Castellammare nel 1955 nel vico delle Mammane in via I de Turris (proprio a fianco al grande vico S. Catello), dopo aver vissuto lì l’infanzia e anche parte dell’adolescenza, mi sono trasferita con la famiglia in viale Europa precisamente zona (Summuzzariello), poi ventenne, sono andata a vivere a Sorrento dove attualmente vivo. Non ho mai dimenticato di essere stabiese e grazie a Dio ho buoni motivi per venirci spesso e viverne con piacere i miglioramenti.
Oggi, nel tempo libero scrivo di Castellammare e questo mi diverte molto, a volte scrivo e rido ripensando al passato e a certi personaggi, venditori di cose che non esistono più, come “il pane con la zuffritta di zia Carulina” con cui a volte facevamo colazione la mattina, “Carulina” che era anche una cognata di mia nonna, posizionava il suo carrettino davanti alla porta della sua bottega proprio tra il vico S. Catello e il vico delle Mammane, in 15 mq aveva un supermercato con la differenza che cambiava spesso merce a seconda degli affari che trovava quando si recava a Napoli e ovviamente a seconda delle stagioni. Ritornando al racconto che vi ho spedito è la vera storia di una mia prozia: Teresa Esposito di Gennaro, nata intorno al 1903 da giovane aveva “‘o puosto” di frutta e verdura al mercatino di S. Vincenzo poi lo cedette per darsi alla riffa, lavoro certamente più redditizio e movimentato. La storia è scritta di mio pugno è fa parte di una raccolta di altri scritti sulla vita che si svolgeva a Castellammare negli anni cinquanta / sessanta (alcuni dei quali sono ancora da terminare).
Questo è un regalo che voglio lasciare alle mie figlie che nonostante siano nate sorrentine, frequentano Castellammare assiduamente e “per forza di cosa”, sono anche figlie del progresso.

…Inalando i fumi dell’acqua calda aromatizzata dai fuscelli di malvarosa, menta, finocchio ed altre erbe secche che aleggiavano dal catino di ferro preparato per il bagnetto, poggiai il mento sul bordo e con le mani agitavo l’acqua che diveniva sempre più giallina, poi chiudendo gli occhi sospirai; avrei voluto rimanere così per sempre.
Era nato mio fratello da pochi giorni, ma solo oggi mi avevano permesso di tornare a casa per vederlo. La settimana prima fui spedita a casa della giovane zia Gina ancora senza figli.
Non mi ero annoiata, tutt’altro, ma avrei preferito rimanere a casa con mia madre, assistere all’arrivo del fratello ed essere io a cantargli la prima ninna nanna. Vedendolo adesso, adagiato come un principe in mezzo al grande letto dei miei genitori, mi lasciava smarrita. Mi sentivo un’estranea in quella stanza che fino a qualche giorno prima era stato il mio regno saltando e facendo capriole su quel letto che adesso era vestito a festa come una chiesa prima di una cerimonia. Mi invase un senso di tristezza.
Timida mi avvicinai e con delicatezza accarezzai il ricamo del lenzuolo nuovo, intravedevo il suo colore azzurrino dai trafori della coperta di filo bianco.
Era bello. Affondai il faccino nel profumo di bucato fresco del cuscino. La stanza aveva anche un nuovo odore: sapeva un po’di caglio e un po’ di canfora.
Poggiai le mani sul comodino e spingendosi sulle punte dei piedi guardai i tanti oggetti nuovi: il biberon, le forbicine, il contagocce, varie bottigliette contenenti liquidi colorati e pastigliette. Le fascette di garza e di stoffa erano di un bianco immacolato, però, mancavano le caramelle all’anice che la mamma da un po’ di tempo scioglieva in bocca prima di dormire.
La mamma era pallida e parlava piano, non aveva più il pancione caldo e rotondo accanto al quale la sera mi addormentavo stringendo a lato la mano di mio padre: “Per non lasciarlo solo” mi sussurrava mamma, come un segreto, in un orecchio.
Mentre osservavo indisturbata, varcò la soglia della porta una donna dall’aspetto giunonico, ma fine. Portava un cappello azzurro dalla falda larga decorata con grossi fiori primaverili di organza e seta. Era la levatrice Anna Consalvo, per tutti “comare Consalvo”, era lei che dava inizio al rito del primo bagno di Faustino; così i miei genitori avevano deciso di chiamare mio fratello: Fausto, come il giorno in cui era nato.
Nei giorni che seguirono ritornò spesso la comare Consalvo: nessuno la chiamava Anna forse per il rispetto e per l’autorità che l’investiva. Il suono del suo nome mi rievocava immagini di atti gloriosi che avesse compiuto: le “guerre” vinte col diavolo che tentava di rubarle ogni volta i suoi bambini.

Madonna di Portosalvo a Castellammare di Stabia

Madonna di Portosalvo a Castellammare di Stabia

Pensavo ad una Madonna, quella di Porto Salvo e nella mia fantasia come le Madonne la colmavo d’immortalità. Dilungavo la sua vita nel tempo, mamma di tutte le mamme, aveva fatto nascere tanti bambini, un fiume di bambini, mio fratello, me, prima ancora le mie cugine grandi, e sicuramente aveva fatto nascere pure mia mamma, mia nonna, la madre di mia nonna e così di seguito, pensavo alla familiarità che avesse col Padre Eterno per quanto riguardava il mistero della creazione dei bambini.
Quando la sentivo arrivare le correvo incontro, le prendevo la mano guidandola fino alla poltrona e poi le sedevo in grembo. La comare Consalvo, aveva sempre storie da raccontare, storie di battaglie o di guerre, di donne “COMBATTENTI” che avevano partorito e bambini venuti alla luce per opera santa, o ancora le difficoltà di chi ancora naufrago in acque verdi e cordoni stretti al collo, stavano incontrando.
Nel raccontare, ella mi sistemava i capelli riccioluti dietro le orecchie, insistendo anche con quelli ribelli che azzeccati alla pelle dal sudore, proprio non ne volevano sapere di rientrare nelle file. Poi mi baciava la tempia calda e mi accarezzava: “La mia stellina”, mi diceva: ”La mia numero uno”.
Ed io privilegiata dalla posizione non volevo perdere neanche una parola delle storie che raccontava, anche se non sempre le capivo, infatti, spesso chiedevo: “E perché?…E perché?…”. Nessuna risposta mi veniva data e per me queste grandi avventure tra la vita e la morte diventavano ancora più misteriose e affascinanti, specialmente quando qualche lacrima rigava la sua guancia.
Fattami più grande, varie volte mi è capitato di correre a casa sua, distanziava solo alcuni portoni dalla mia. La chiamavo ansimante dal fondo del cortile: “Comare Consalvo; comare Consalvo! Mia madre dice che dovete venire subito!”, e lei: “Chi sei? A chi sei figlia?” Rispondendo dalla sua loggetta piena di piante, “Sono Angelina la figlia di Maria”, “Va bene, arrivo subito, ma fai preparare dei fiaschi di acqua calda!”
Io correvo e riferivo, ma la comare era già dietro di me con la sua grande borsa scura da dottore piena di aggeggi strani. In queste circostanze mi facevo prendere dall’eccitazione e insieme a i miei cugini, cominciavo a fasciare con le pezze da cucina qualsiasi oggetto somigliante vagamente ad un bambino, poi, con una vecchia borsa di cuoio imitavo la giunonica comare Consalvo. Gli altri cugini strillavano in coro cercando di imitare il nascituro che in altre occasioni avevano sentito piangere, facevamo insieme un casino tale che qualcuno buscava pure. Purtroppo sul più bello, quando le donne adulte di casa che aiutavano la comare, sudate e stravolte, uscivano e poi rientravano veloci nella stanza della partoriente, portando i primi fiaschi di acqua calda e gli svariati asciugamani riscaldati sopra lo scaldino del braciere, a noi bambini ci mettevano alla porta senza sentir ragione. La nostra nuova postazione diventava il grande terrazzo dall’asfalto nero.
La comare Consalvo occupata vicino alla partoriente per il tempo necessario, a volte anche lungo, riappariva solo a nascituro lavato, fasciato e addormentato in mezzo al grande letto, il suo aspetto non era più lo stesso di quando era arrivata, sul suo viso si leggevano i segni della dura battaglia.
Veloci come grilli io e i miei cugini saltavamo sul letto per far la conoscenza e dar il benvenuto al nuovo membro della banda; le donne accorrevano proteggendo il neonato dall’invasione un po’ barbarica: “Fate attenzione è delicato, guardatelo senza toccare, guardate quanto è bello!”
Ma a me non sembrava poi così bello e vedendo le dolci attenzioni rivolte al piccolino, mi prendeva un po’ la gelosia e per dispetto attaccavo coi perché dei miei dubbi: “Per dove era passata la cicogna visto che dal terrazzo avevo setacciato ogni centimetro di cielo?” e poi ribadivo che di nascosto, all’arrivo della comare Consalvo, le avevo controllato i tasconi della borsa, ma li avevo trovati pieni di tutt’altre cose.
La volta che successe di partorire alla zia Gina, ero diventata così curiosa che mi nascosi sotto il suo letto e dallo specchio dell’armadio che si trovava proprio di fronte al letto vidi tutto lo spettacolo.
Quando le donne se ne accorsero e mi tirarono fuori con la forza, ero svenuta dalla paura; loro mi fecero prima annusare l’aceto di vino, poi quando mi ero rinvenuta rossa dalla vergogna, mi fecero bere un bicchierone d’acqua zuccherata.
Non ho mai fatto parola con nessuno di questo mio segreto, ai cugini e ai fratellini ho sempre raccontato che nel frattempo che aspettavo mi ero addormentata e mi ero persa l’occasione di scoprire la magia con la quale la comare aveva tirato fuori il bambino dalla borsa di cuoio.
Infine la comare concludeva le sue visite il giorno prima del battesimo e se il nascituro era femmina le effettuava la foratura dei lobi delle orecchie usando un piccolo ago e un po’ di cotone bianco.
Quando sentii piangere l’ultima delle mie sorelle per il dolore, mi sentii male, ma oggi sono contenta di avere la possibilità di indossare le belle toppe d’oro che la nonna mi ha lasciato.

Ricordi impolverati, liquoei anni '40 e '50. Immagine tratta dal web

Sessantadue anni di Festival di Sanremo

Sessantadue anni di Festival di Sanremo

di Catello Nastro

A fine gennaio del 1951 abitavo ancora a Castellammare di Stabia, mio paese natìo, in provincia di Napoli, in vicolo Mantiello, una strada popolare ma graziosa che confluiva “ammiezz‘o Llargo ‘e Fusco”, una piazza bellissima perché a quel tempo piena di fervore di attività artigianali, commerciali, tra cui molti ambulanti, ma innanzitutto piena di vita e di contatti umani. La televisione, naturalmente non esisteva ancora, ed il “Festival della Canzone Italiana” o “Festival di Sanremo”, si poteva ascoltare solo per radio. Una nostra vicina di casa, ricordo, aveva una grandissima radio provvista anche di grammofono nella parte superiore e mobile bar, costellato di specchietti, nella parte centrale. Dentro al mobile si trovavano una dozzina di bottiglie di liquore, senza liquore ma riempite di acqua colorata secondo il colore del liquore che avrebbe dovuto contenere. Solo per far vedere, insomma!!!

Ricordi impolverati, liquoei anni '40 e '50. Immagine tratta dal web

Ricordi impolverati, liquori anni ’40 e ’50. Immagine tratta dal web

La serata di primavera era piacevole e la buona donna per permettere anche agli altri abitanti della via di ascoltare il primo festival della canzone italiana di Sanremo, abitando al piano terra, in un basso, in napoletano “’O vascio”, come la famosa canzone lanciata dal compianto Mario Merola, faceva spostare la radio sul marciapiedi, un filo di antenna che andava fino al balcone del primo piano dove era attaccato alla ringhiera per una migliore ricezione e “scannetielli”, panche e “siggiulelle” per permettere agli amici in parte, invitati, proprio per l’evento radiofonico che, come si dice oggi, aveva una notevole “audience”. C’era chi divorava lo sfilatino con la frittata o i pomodori, chi stuzzicava lo stomaco con noci, nocelle, arachidi, chi un mezzo piatto di pasta e fagioli rimasto dal pranzo. Dovete sapere, a proposito, che quando le massaie cucinavano a pranzo la pasta e fagioli, abbondavano per proporla come menù unico anche per la sera o magari il giorno dopo. “’A pasta scarfata” non era altro che il bis del primo piatto riscaldato, avanzato dal giorno prima. Altro che partita di calcio… I commenti non finivano mai. Il tifo per questo o quel cantante, sia maschio che femmina, non terminava nemmeno a tarda sera e si protraeva anche per alcuni giorni. La prima edizione del Festival di Sanremo la vinse Nilla Pizzi, con la famosa canzone “Grazie dei fiori”. Il giorno dopo per tutta la giornata, dai bassi, dai balconi e dalle finestre al primo piano ed oltre, si sentiva la canzone che, anche in seguito ebbe enorme successo. Non è che si sentiva perché era stata registrata. A quei tempi un registratore a bobina costava quasi quanto un’auto. E la radio non si trovava in tutte le case. Il 21 ottobre di quello stesso anno mi trasferivo con la famiglia ad Agropoli. Ricordo che Nilla Pizzi vinse anche la seconda edizione, quella del 1952, con la canzone “Vola colomba”. Di questo evento non ricordo nulla. Sono passati sessanta anni: sia al Festival di Sanremo che per Catello Nastro. Nel 1968 mi trasferisco a Torino e nel 1973 vengo chiamato nella Giurìa di “Stampa Sera” nel salone del famoso quotidiano Piemontese. Questa volta seduto comodamente in poltroncina con piano scrittoio per gli appunti, cena, visita dello stabilimento e la prima copia de “La Stampa” appena sfornata dalle gigantesche rotative. Era già passata l’una di notte. L’articolo sulla “Stampa” appena edita recitava:” La giuria di “Stampa sera” ha votato Milva, la “pantera” di Goro cantante e diva cresciuta a Torino, al secondo posto Peppino di Capri ed al terzo Umberto Balsamo. La giuria Torinese era composta da venti persone (cinque impiegate, quattro impiegati, tre casalinghe, due studentesse, un agente di commercio, un operaio, un autista, un geometra, un ragioniere, un critico d’arte, cioè il sottoscritto). Erano appena cinque anni che stavo ad insegnare in Piemonte e la mia passione per l’arte mi occupava tutto il tempo libero. Avevo già pubblicato alcuni libri d’arte e sull’elenco telefonico risultava anche questa qualifica, peraltro da me richiesta. Milva, che ammiravo moltissimo, della quale avevo molti dischi, abitava allora a Leinì, confinante con San Francesco al Campo, proprio sotto la pista di decollo dell’aeroporto di Caselle dove ho sempre insegnato nei tre lustri di permanenza a Torino. Da allora, cioè dalla prima edizione del 1951, sono trascorsi più di sessanta anni. Dall’edizione del marzo 1973 circa quaranta anni. L’edizione del 2012, penso, la vedrò con un altro spirito. Le polemiche già iniziate, il gossip e la pomposità eccessiva, non la tollero volentieri. I testi e la musica delle canzoni passano in secondo piano. Sul palco le luci, le riprese, i colpi di scena, donne scollacciate, battute piccanti se non addirittura volgari, scenografie dinamiche e colpi di scena, fanno passare in secondo piano le canzoni. Ma una notizie lieta, che mi terrà inchiodato davanti alla TV, è il nobile gesto di Adriano Celentano, grande artista, che ha deciso di devolvere in beneficenza tutto il suo compenso. Bravo Adriano, dal centro storico di Agropoli, nel Cilento, in provincia di Salerno, ti arriverà un lungo applauso per il tuo gesto, nobile, bellissimo, degno della massima ammirazione, che lascia ancora sperare per il futuro.
Catello Nastro