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Ll’acquaiuolo

Ll’acquaiuolo

Si ringrazia Margherita Barbato, autrice del presente lavoro, per la gentilissima fattiva collaborazione

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Ll’acquaiuolo, Ciro Lo Schiavo e il suo fedele Barone

Mi chiamo Ciro Lo Schiavo e sono nato a Castellammare di Stabia il 21 Marzo del 1924. Per tutti però sono sempre stato “Giritiello ll’acquaiuolo”, soprannome che mi è stato attribuito in virtù del particolare mestiere di venditore ambulante di acque minerali da me svolto per circa 30 anni.
La vita all’epoca era molto difficile e il lavoro dipendente di carpentiere non mi consentiva di mantenere una famiglia molto numerosa, composta di 9 persone.
Da qui l’esigenza, verso la fine degli anni ’60 di inventarmi un lavoro indipendente effettuando un investimento minimo, che mi permettesse di far fronte alle esigenze della mia famiglia.
Per intraprendere questo lavoro, comprai un carretto a mano con delle damigiane da 20 litri .
Il lavoro iniziò a rendere da subito e ciò mi consentì di investire ulteriormente, facendomi costruire un carretto più grande, comprai un cavallo, degli attrezzi adeguati per la manutenzione del carretto e cosa più importante, acquistai damigiane di diversa capacità: da 35, da 10, da 5 litri oltre alle bottiglie di vetro.
La mia giornata di lavoro iniziava prestissimo, alle 4 del mattino; a quell’ora mi recavo nella stalla di Vico Cantore, un vicolo cieco di Via De Turris, dove avevo il cavallo, il carretto e le damigiane.

Le mie prime attenzioni erano rivolte al cavallo “Barone”, anche se nel corso degli anni si sono susseguiti diversi cavalli perché il lavoro era tale da richiedere forza ed energia.
Al mattino gli davo le cure di cui necessitava, per iniziare insieme con me una dura giornata di lavoro; gli davo da mangiare biada, fieno o paglia e strigliavo il pelo del suo mantello per renderlo lucido e liscio.
Una volta attaccato il cavallo al carretto e caricate le damigiane vuote, iniziava il mio giro. La prima tappa era alla fonte dell’acqua della madonna, dove riempivo le damigiane più grandi da 50 litri ; proseguivo fino al giardinetto, dove riempivo l’acqua acidula. Infine mi recavo alle terme, che all’epoca aprivano alle 6.00 del mattino, dove riempivo le damigiane da 35 litri .

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La stalla di Vico Cantore

Per questa operazione, mi avvalevo della collaborazione di mio figlio Franco, che sebbene fosse un ragazzo, aveva la responsabilità di alzarsi così presto al mattino e offrirmi il suo aiuto.

Le acque che offrivo ai miei clienti, per vari usi, ma in particolare per uso terapeutico e curativo, erano varie e per caratteristiche diverse:
Acqua Sulfurea Carbonica
Acqua Sulfurea
Acqua Magnesia
Acqua del Muraglione
Acqua Acidula
Acqua Media
Acqua S. Vincenzo
Acqua Ferrata
Acqua Stabia
Acqua Sulfurea Ferrata
L’acqua San Vincenzo, Media e della Madonna erano gradite per le loro proprietà dissetanti e rinfrescanti.
Le altre erano richieste dai miei clienti per prevenire e curare diverse malattie.
Mi contattavano persone provenienti da diverse località limitrofe, ma anche dal nord e turisti. In un certo senso facevo anche concorrenza alle stesse terme, per quelle persone che non potevano permettersi le cure termali. Quindi per tanti anni ho offerto un servizio pubblico molto importante. Poi dopo tanti anni, i clienti per me erano diventati tanti cari amici, di cui sentivo la responsabilità dell’acqua che offrivo loro per curarsi. Anche per questo motivo ero sempre a loro disposizione.
Complemento delle giare di vetro, che offrivo piene d’acqua fresca ai clienti, era rappresentato dai limoni, che utilizzavo come disinfettante.
Nel percorso giornaliero, attraversavo tutta la città dal centro storico al rione San Marco, dove facevo una sosta fissa davanti al cancello di Villa Gabola.
All’inizio della mia carriera una bottiglia d’acqua costava 20 lire, mentre un bicchiere 5 lire.
Negli anni ’80 il costo della bottiglia d’acqua era passato a 500 lire e quello del bicchiere a 200 lire. Questo fu anche il periodo in cui introdussi il monouso, per una questione di igiene. Fu una cosa che i miei clienti gradirono moltissimo, tanto che le mie vendite incrementarono ulteriormente.
Sicuramente il periodo di lavoro più redditizio era quello estivo.
Per garantire ai miei clienti che l’acqua fosse sempre fresca, compravo delle bacchette di ghiaccio, nell’antica ghiacciera di Via Denza, che tagliavo a pezzi, i quali venivano poi adagiati su dei sacchi di iuta, che a loro volta avvolgevano le damigiane.

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Giritiello ll’acquaiuolo e il suo caratteristico carretto dell’acqua

Durante l’estate, le persone si affollavano per bere le mie acque, tanto che c’erano giornate in cui non riuscivo a completare il giro, ma dovevo ritornare alle terme, all’orario di riapertura pomeridiana, per ricaricare le damigiane e ritornare così nel pomeriggio, nelle strade in cui mi ero assentato di mattino.
È stato sicuramente un lavoro molto faticoso, infatti generalmente la mia giornata lavorativa terminava alle 14:00 e solo nelle calde giornate d’estate, uscivo a vendere anche di pomeriggio.
Ma nel contempo mi ha riempito la vita di soddisfazioni fino alla decisione nel 1996, di porre fine alla mia carriera di acquaiuolo, alla veneranda età di 74 anni.

 

La Funivia

Faito

Faito

di Giuseppe Zingone

Notturno dal Faito (foto Maurizio Cuomo)

Notturno dal Faito (foto Maurizio Cuomo)

Passeggiando sul lungomare della Villa Comunale in direzione Hotel Miramare, non puoi evitare di notare che sullo sfondo di questo suggestivo panorama, oltre il mare si erge fiero il Vesuvio, questa montagna fumante, per usare un termine moderno oggi in “Stand by”, è per il cittadino stabiese (e dell’area vesuviana in genere) causa di turbamento e di continua preoccupazione, a motivo del suo passato funestato di vittime e degli interrogativi che suscita in tal senso il suo futuro e di conseguenza anche il nostro. L’eruzione del 79 d.C. raccontata da Plinio il Giovane è provvista di molte notizie riguardanti i moti viscerali della sua eruzione, gli scavi di Stabia sono invece i testimoni illustri e ancora viventi (anche se in cattivo stato e dimenticati) di tale avvenimento; secondo Giuseppe Marotta nel suo libro “L’oro di Napoli”, la morte rimane la più antica cittadina delle nostre terre e io aggiungo il “Vesuvio è stato spesso la sua falce”; penso che qualche anziano ricorderà sicuramente ancora la sua ultima passionale eruzione del 1944, la quale ci fa proferire senza ombra di dubbio che il Vesuvio è proprio napoletano… sa quando tacere e quando farsi ascoltare, il suo torpore non deve ingannare e ricorda proprio la gente di questa calda e burrascosa terra, che quando vuol farsi sentire ha bisogno di gridare la propria disperazione dal profondo dell’anima.

Allo stesso modo però, tornando indietro per quello stesso percorso iniziale, stavolta in direzione banchina ‘e Zì Catiello, non si può non guardare con ammirazione un altro fiero gigante; il Faito, il dirimpettaio naturale del Vesuvio. Il Faito suscita negli stabiesi sentimenti diametralmente opposti allo “Sterminator Vesevo” di leopardiana memoria: luogo ameno di passeggiate, delizia dello sguardo con la sua folta vegetazione che si inerpica sino alla cima, gioia dei fanciulli che ancor oggi con i genitori vi raccolgono le castagne nel periodo autunnale, suolo d’amore e di sfida per gli escursionisti. Anche il serafico Faito comunque ha vissuto le sue tragedie a volte naturali, ma spesso causate dall’incauta mano dell’uomo. Spesso Faito è stato anche lo spicchio di cielo dove i giovani hanno condiviso i loro primi amori, lo è stato per me e spero sia ancora così… Faito paradiso dell’ozio per chi vuol rigenerarsi o luogo di preghiera e di ascesi mistica come insegna la vita del nostro Santo patrono Catello e del suo fratello nella fede Sant’Antonino. Mi spingerei oltre dicendo che il Faito è un sacrario spirituale per l’animo umano, spesso sottovalutato, trascurato e ignorato dai suoi avventori ed amministratori. Aver cura di questa montagna dovrebbe essere un imperativo categorico per tutti, infinita risorsa naturale e perché no, economica di Castellammare di Stabia;

La situazione attuale:

Quisisana, il nostro accesso al Faito

Quisisana, il nostro accesso al Faito

Giungere in località Quisisana, cioè sui Boschi, è ancora agevole e da Castellammare ci si impiega un tempo assai breve sia con i mezzi che a piedi. Bisogna constatare però il cattivo stato in cui versa da anni la strada da Castellammare per il Faito, e quindi la sua non percorribilità con l’automobile, del resto ancora possibile a piedi per i più audaci. Ricordiamo la strada per Vico Equense in macchina o con l’autobus. Ma se davvero si vuole vivere un’emozione unica ed intensa non si può rinunciare alla funivia, solo otto minuti per percorrere un tragitto di quasi tremila metri e portarsi così a quota 1100 m sul livello del mare.

La storia: Sento l’acre odore del sudore mescolarsi a quello cristallino e dolce della montagna… D’estate spesso di Domenica frequentavamo il Faito, i miei genitori si adoperavano in cucina per preparare i cibi che poi infaticabili borsoni avrebbero trasbordato fino alla stazione della Circumvesuviana, a farci compagnia anche i mitici tavolini dal cui interno comparivano miracolosamente le sedie, sedie instabili come un edificio malfermo; avere un piatto (di carta) tra le mani, mangiare, e rimanere saldi su quelle sedute era come rimanere immobili durante un terremoto.

'A Panarella blu

‘A Panarella blu

Ah…. quando dico funivia intendo ‘a panarella blu, proprio quella che al superamento di ogni pilastro ti faceva planare il cuore nelle scarpe. Quella sulla quale mia zia Gina una volta fatta la prima esperienza, fermamente decise di non mettervi più piede, colpa di quei vuoti d’aria di cui ho appena accennato. Pensate che la nostra presenza sul Faito era talmente sistematica che ancora oggi rivedo con piacere una fotografia della Funivia che si trova nella pizzeria del caro amico Gaetano Cesarano e nella quale distintamente si vedono mio padre con mia sorella Annalisa in braccio e mia madre con me e mia sorella maggiore.

La Funivia

La Funvia della ex Pizzeria da Biagio

In genere ci si dava appuntamento alla stazione della Circumvesuviana ognuno col proprio fardello ed in più con la propria nidiata di cuccioli, naturalmente i tempi non coincidevano per tutti, ma avevamo un nostro punto di riferimento sul Faito. Il campo base andava raggiunto velocemente affinché nessuno occupasse il suolo che presumevamo aver ereditato per concessione divina ed al quale si accedeva da quella scala che ancor oggi fiancheggia la stazione a monte della funivia dove prendevamo posto ai piedi di alcuni pini che spesso ci hanno dato una mano a distendere un’amaca per la gioia dei più piccoli. I momenti di libertà che vedevano noi ragazzi gli attori principali della domenica al Faito, era lo spazio che intercorreva tra l’arrivo al punto d’incontro e l’ora sacra del pranzo; e allora via a corse, piccole escursioni, guerre di pigne, alla osservazione degli spazi circostanti, la raccolta di more, fragoline, lilium davidii. Del bar della Funivia ricordo il Juke Box ed alcune interminabili sue canzoni, le prime sperimentazioni dei suoni elettronici; Donatella Rettore di cui ricordo il ritornello Dammi una lametta che mi taglio le vene, Alberto Camerini con Rock’n’Roll Robot, Pupo e il suo Gelato al Cioccolato, le Cicale di Heather Parisi, che veniva eseguita anche da mia cugina Annabella, inoltre una novità che presto avrebbe ingarbugliato le nostre vite, il mondo del virtuale, i primi video games rudimentali, ma che già esercitavano il loro profondo fascino sugli uomini e che oggi silenziosamente ed in maniera impersonale invadono le nostre vite… ricordate il sottofondo di Space Invaders? I genitori hanno verso i propri figli (soprattutto se meridionali) una solerzia alimentare continua; “facimme magnà prime ‘e criature” oppure “n’atu poco a mammà” questa poi è fantastica “l’urdemo muorzo è d”o Rre” ancora oggi fatico a comprendere perché ‘o Rre volesse per forza questo ultimo boccone di qualsivoglia cibo; la famiglia napoletana poi, tende sempre ad ingozzarti come un maialino ripieno tutte le feste finiscono a tavola, sarà che i nostri genitori hanno vissuto momenti di certo meno lieti, ma in questo caso a Faito…non ve n’era bisogno “Sarrà l’aria…” la fame diveniva davvero incontenibile e noi sempre i primi ad apprestarci a divorare tutto e di più, del resto chi legge, anche se non stabiese, avrà capito di certo cosa si ammassava in quegli enormi borsoni. La domanda è puramente retorica… forse non è neanche una domanda… Mancava solamente tutto quello che il Buon Dio non aveva permesso di cucinare a mia madre e alle sue sorelle e cognate, si capisce per ragioni di tempo… dall’antipasto al dolce, passando dalla pizza di pasta con le sue sfumature e sperimentazioni familiari, alla pasta al forno ancora tiepida, alla carne da arrostire successivamente, ‘e pizzelle ‘e mulignane e via discorrendo, senza annoiarvi con ulteriori sapori che potrebbero indurre il lettore a pregustare i cibi suddetti e ad obbligare le proprie inconsapevoli mogli e madri ad adoperarsi per una gita fuori porta nella propria sala da pranzo.

Ho nostalgia di questi momenti di festa, la presenza degli amici dei miei cugini più grandi che rendevano ancor più allegra l’intera brigata, un po’ meno delle interminabili partite a Ramino, Scala 40, Stoppa, nelle quali tutti venivano coinvolti, ragion per cui a dieci anni ero già consapevole della noia mortale che mi avrebbero arrecato quei passatempi e decisi di accantonarli, [passatempi?] che per di più mi distoglievano dalle altre attività ludiche e ricreative proprie degli adolescenti… quanto amavo correre fino alle antenne, le corse poi innalzavano colonne di polvere pronte a coprire tutto come la cenere del Vesuvio, percorrere quegli spazi significava anche osservare da vicino le altre famiglie come noi accampate in anfratti seminascosti quasi a celare agli invadenti occhi degli adolescenti le proprie vettovaglie, l’osservazione in realtà aveva l’unico scopo di scovare una faccia amica e perché no, il volto di una coetanea carina.

Belvedere

Belvedere, cartolina Giuseppe Zingone

Dopo le Antenne ancora di corsa verso il Belvedere, senza pensare neppure per un istante di potersi rompere il collo… per quel sentiero che si trova tra la stazione e l’hotel Faito. Quando il sole ormai stanco anch’esso del nostro girovagare, iniziava a percorrere la strada del riposo e a donare alla natura dei colori più dolci come quel turchese intenso e qualche sfumatura d’arancio che ho impressi nella memoria, i grandi cominciavano a rassettare i contenitori a sistemare le buste da buttare via; si riponeva qualche plaid che inizialmente era servito a delimitare il sacro luogo sul quale avevamo bivaccato, si spegneva con attenzione la cenere di un fuoco che non molte ora prima ci aveva deliziato arrostendo la fumosa carne napoletana (chissà perché da noi, ogni cosa che va arrostita produce un fumo spropositato…!), si nascondevano i sassi per le successive braci; insomma tutto volgeva al termine, qualche richiamo per riportare i più giovani ad un improbabile ordine e di nuovo via di corsa a fare la fila per la discesa nella montagna russa su piano inclinato che appartiene solo agli stabiesi ‘a panarella blu. Oggi a ripensarci quelle giornate mi sembrano delle enormi maratone. Dopo aver salutato e congedato tutti, veloci fino a casa per essere ripuliti della polvere che aveva incrostato ogni centimetro della nostra pelle ancora umida di sudore, ricordo che dovevo sforzarmi continuamente di deglutire poiché il passaggio così veloce da un’altezza ad un’altra mi otturava le orecchie; poi a letto per il meritato riposo, domani è Lunedì si va al mare alla Calce e Cementi a Pozzano.

Caro Faito ci si vede Domenica prossima, e Tu, Gesù, me raccummanno nun fa chiovere…!

Morte di Plinio sulla spiaggia di Castellammare di Stabia, collezione Gaetano Fontana

Vita in mare

Vita in mare

di Silvestro Migliorini

Morte di Plinio sulla spiaggia di Castellammare di Stabia, collezione Gaetano Fontana

Morte di Plinio sulla spiaggia di Castellammare di Stabia, collezione Gaetano Fontana

Come non avrei potuto non amare il mare? Sono nato a Castellammare di Stabia, su quella stessa spiaggia dove morì Plinio il Vecchio!

I colori, l’odore dell’acqua salmastra, fanno parte di me. In verità, non sognavo di fare il navigante, sapevo fin d’allora che sulle galee ci mandavano i galeotti. Preso il diploma come aspirante alla direzione macchine marine, mio padre mi disse: “Sbrigati a trovarti un imbarco, devi aiutare la famiglia!” Si racconta di sogni, di luoghi esotici, di viaggi, di donne bellissime: fantasie popolari. “Un bel di vedremo, all’estremo confine del mare e, poi la nave appare…” Ma, com’è dura la realtà del lavoro in mare, in sala macchina di una petroliera! Affrontare la furia delle onde del mare in tempesta senza neanche vederle, costringe a confrontarsi con il rischio e la paura. Le onde, a volte piegavano la nave come un fuscello, sinistri scricchiolii facevano temere che andasse in pezzi da un momento all’altro. Dormire legato alla branda per non cadere, passare da un clima da piena estate a pieno inverno molte volte in un anno, non è un gioco. Anche la leggenda di donne bellissime che aspettano i marinai ad ogni porto è da sfatare. In realtà, quelle poche ore di libertà durante le operazioni di carico e scarico bastavano a malapena a soddisfare qualche fugace incontro con qualche prostituta, che poi, erano sempre le stesse. E’ passato il tempo, e con esso buona parte della mia vita, altre battaglie mi aspettano. Più volte, le circostanze mi hanno posto di fronte alla morte, ma il tempo ridisegna i confini delle cose rendendole più belle di quanto fossero in realtà. Io, si io confesso, che in qualche momento, sia pure con il cuore in gola, sento la nostalgia di respirare l’odore salmastro dell’oceano mescolato alla ruggine delle mie navi.

Pubblicato il 29 Ott, 2008

Testo narrato

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Anniversario ( lettera del 07/05/2008 ):

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Caro Maurizio, esattamente un anno fa conobbi il tuo Libero Ricercatore. Ti scrissi e tu pubblicasti la mia lettera il 7 maggio del 2007 (rif.: “Libro Visite – Archivio 2007”). Data la mia età mi appellasti come il “nonno multimediale”. E subito mi proponesti di ricordare come si viveva a Castellammare negli anni “ 30” del secolo scorso. Di descrivere luoghi, fatti, persone e cose di quegli anni. Ben volentieri raccolsi il tuo invito. Per due motivi:

1° Perché rinnovare il ricordo di quei tempi era ed è come rivedere un vecchio film. Quando anche le scene meno belle vengono rivalutate e viste con occhi diversi.
2° Perché alle persone anziane piace raccontare il passato; molti illudendosi che delle loro esperienze se ne possano giovare i giovani. Ma non è così: le esperienze sono l’accumulo di fatti, di cose, di luoghi e persone, vissuti e conosciuti direttamente, e restano per sempre un bagaglio personale, un suo capitale, che in nessun modo è trasmissibile.
Rivedendo il film della mia vita, il ricordo di una grave malattia che mi colpì nel 1934, e che stava per portarmi all’altro mondo, non è così angosciante come dovrebbe essere. Eppure quella malattia, il tifo, in quella occasione fece parecchie vittime fra i bambini più o meno della mia stessa età.
Oggi non tutti sanno che allora la sanità pubblica non esisteva. Chi aveva le possibilità economiche (ed erano in pochi) poteva curarsi, chi ne era privo poteva anche morire per mancanza di cure. A volte il vivere o morire dipendeva dal censo e dal destino. Io mi salvai perché cosi volle il distino, al quale diedero una mano gli enormi e dolorose sacrifici dei miei cari genitori. Loro,poveretti, appartenevano alla categoria dei abbienti, e per curarmi adeguatamente furono quindi costretti a vendere tutto quello che si poteva vendere (anche i regali di nozze ricevuti in occasione del loro matrimonio), e impegnare al Monte di Pietà tutto ciò che era impegnabile (non so se poi il tutto fu riscattato; ma non credo). Al destino ed ai sacrifici di cui sopra si unì la solidarietà e la comprensione dei bottegai del rione (Geretiello ‘o casaiuolo, ‘o chianchiere, Mannara, Acampora il panettiere, e altri). Del medico Imparato che mi curò quasi gratis.
Queste tutt’altro che floride condizioni economiche oggi vengono da me ricordate non con l’affanno con cui allora erano vissute.
Il rammarico non mi assale se penso che io le scuole elementari e medie le ho frequentate senza mai comprare un libro. La mia famiglia non poteva permetterselo. Le nozioni che dovevo apprendere le dovevo assimilare ascoltando attentamente quello che dicevano in classe i maestri e i professori. Questo “allenamento” mi ha abituato ad ascoltare sempre con molto rispetto e attenzione quello che mi dicono le persone con le quali interloquisco. E questo lo ritengo anche un segno di rispetto.
Rivedendo il film di cui sopra, il lavarone, (che periodicamente invadeva le strade della città, e specialmente a Santa Caterina, quando dalla montagna acqua e terra precipitavano dal Chignulo ostruendo le strade e impedendo di andare agevolmente da Piazza Orologio all’Acqua della Madonna), oggi lo valuto con più freddezza, diciamo quasi con simpatia: era una anomale variante alla consueta routine della vita giornaliera. Per noi bambini sguazzare a piedi nudi in quel fango era uno dei tanti poveri e ingenui divertimenti.
Per le persone anziane (oggi non esistono vecchi, ma soltanto anziani!) invece, raccontare il passato è anche rimpiangere la semplicità, la genuinità dei rapporti umani che c’era fra la gente. Con grande nostalgia ricordo la solidarietà che esisteva fra i vicini di casa, fra la gente della via, del rione.
Nostra vicina di casa, per molti anni, è stata la famiglia Mauriello. Ebbene durante la mia malattia di cui ho parlato poc’anzi, mia mamma molte volte non aveva il tempo per preparare da mangiare, ma una delle sorelle Mauriello, Filumena, che era zitella, (come venivano chiamate allora le donne che non si sposavano) mai ci ha fatto mancare un piatto di pasta e fagioli, una pastasciutta, un frutto. Nel fare il bucato si sostituiva a mia madre , stanca per aver accudito giorno e notte a questo figlio quasi moribondo. E allora non esistevano detersivi e lavabiancheria I panni si lavavano a mano, con la forza delle braccia, in un mastello di legno, usando della cenere e del sapone grossolano.
Ma la solidarietà ci veniva data anche da molti abitanti della via. Chi andava a prendere i pani di ghiaccio perché,data la febbre alta, dovevo fare i bagni nell’acqua fredda; chi si alternava al mio capezzale perché dovevo essere assistito giorno e notte; chi andava a comperare le medicine. Insomma, come ho detto, c’era la solidarietà e l’aiuto diretto dei vicini di casa e di molti abitanti della via.
Ecco caro Maurizio quello che mi sentivo di comunicare ai giovani amici lettori di questo sito, nel compleanno della nostra conoscenza.
Nel concludere questi ricordi sono doverosi i miei ringraziamenti a te e agli amici stabiesi che ho avuto la gioia e il piacere di conoscere personalmente durante la mia breve visita a Castellammare nel mese di marzo.
Nei vostri occhi, sui vostri volti ho rivisto quei nobili e bei sentimenti di cui mi sono nutrito durante la mia fanciullezza a contatto con la gente dell’Acqua da Madonna, da Caperrina, ‘e via Santa Caterina.

Grazie ancora. Gigi Nocera