L’antenato di Piero Girace
di Giuseppe Zingone
Piero Girace a Capri negli anni ’50.
Il recupero di questo articolo di giornale, da La Stampa, a firma di Piero Girace è per il giornalista stabiese, quasi un pretesto per parlare della propria famiglia. Di origini nobili, il padre, barone Francesco Girace fu più volte sindaco di Gragnano, questi di idee liberali, non poco dovette combattere con il figlio che ben presto aderì alla nascente ideologia del fascismo.
Quasi nulla poterono, il padre e la madre come Piero stesso racconta nel suo “Diario di uno squadrista“, ma ridurre il Girace, semplicemente ad un fascista della prima ora, senza tener conto che fu uno dei migliori giornalisti del dopoguerra, è un’operazione minimalista; fu scrittore, poeta, critico d’arte, musicologo, amico di Giorgio De Chirico che proprio sul quotidiano La Stampa, affidò il suo messaggio di cordoglio, per la perdita del “carissimo Amico“.
Giorgio De Chirico e Romano Gazzera a Piero Girace
L’opera che più d’ogni altra, parla di Castellammare oltre a quella sopra citata è “Le Acque e il maestrale“pubblicata nel lontano 1937. Attualmente la sto leggendo, un po’ per volta, un piccolo volumetto che va centellinato, così come si bevevano le acque delle nostre Terme. Se non si ama Castellammare, come lui, l’ha amata, questo suo libro, sarà per voi null’altro che inchiostro su carta e noia. Io invece quando lo assaporo, riconosco in esso: le luci, i colori, la gente, gli odori e i sapori di quando anche io mi sono innamorato della mia terra.
Ho trovato questo articoletto, ed ho espresso tra me, la volontà di recuperarlo per riproporlo al pubblico di Liberoricercatore.
L’Antenato
Mi guardava fisso dalla parete, chiuso in una grande cornice dorata, e l’abito che indossava, settecentesco, ricco; una gran giacca azzurra, lunga come un pastrano da cui usciva un panciotto rosso, anch’esso lungo con un bordo ricamato in oro, gli conferiva un tono di fasto e di austerità.
Mio padre si profuse in un lungo racconto, durante il quale molte cose conobbi e molti luoghi vivi in una luce di morta stagione. L’antenato amava la notte, e perciò rincasava sempre tardi, quando tutti i familiari dormivano; Si attardava ancora a leggere i libri del Cartesio e di Condillac, dei quali in quei tempi si parlava tanto nei salotti; la statua di Condillac il <cogito ergo sum> di Cartesio erano gli argomenti del giorno.
Chissà quante volte l’antenato aveva ripetuto con un senso di compiacimento il famoso <penso, dunque sono> dichiarandosi, al cospetto delle signore e degli amici, un convinto rivoluzionario della cultura.
Mentre mio padre parlava, io lo vedevo entrare in casa, cauto, nel cuore della notte. Deponeva senza far rumore Il bastone nella stanza di entrata, stava un po sospeso ad origliare nel silenzio,
e si avviava verso la camera in punta di piedi. Temeva ogni volta di risvegliare sua madre.
Anch’io avevo la stessa abitudine: giravo nella toppa la chiave con cautela, e camminavo per le stanze come un ladro, per non farmi sentire dalla mamma che aveva il sonno leggero. Ma ecco che passando accanto alla sua porta una voce mi faceva sussultare:- Così tardi rincasi?
– Sono appena le undici – rispondevo.
– Credevo fosse più tardi. Io mentivo.
– Buonanotte mamma!
E mi avviavo nella mia stanza. Un libro mi attendeva sul comodino: <Il mondo come volontà e rappresentazione>.
– Dunque babbo, anch’egli amava la filosofia?
– Così dicevano in famiglia, e dicevano pure ch’egli per effetto di quelle letture diventava ogni giorno più strano, fino al punto di impensierire i familiari.
L’antenato mi apparve astratto enigmatico: la piega che scendeva dall’angolo sinistro fino della bocca fino al mento, divenne il segno di un’ironia contenuta. Nei suoi occhi brillava una malizia volteriana.
La sala era in ombra. Dietro i vetri del balcone squillavano gl’intonaci rosa e rossi dei palazzi sotto un cielo tersissimo. Mio padre era diventato un’ombra; le sue parole cadevano lente nel silenzio ed avevano una potenza evocativa insolita. Mi avventuravo nella morta stagione, commosso, ansioso.
– Di carattere com’era?
Mio padre che sedeva in fondo alla sala sotto un profondo cortinaggio, si confondeva con i mobili e i quadri. Non c’era di vivo che la sua testa. Tutto il resto del suo corpo era stato cancellato dall’ombra. Udivo soltanto la sua voce.
L’antenato era gioviale. Qualche volta malinconico. D’estate sostava a lungo sulla terrazza e guardava le stelle. Mio padre sorrise.
– Spesso faceva anche dei lunghi soliloqui.
– Ah! Così faceva? Strano!
Rispondevo astratto; e vedevo una terrazza nera, solitaria, protesa sui campi sotto una gran cupola stellata. Forse cantavano i grilli e la campagna odorava di fieno. Ne sapevo qualche cosa.
– Strano davvero! – ripetevo meccanicamente mentre mio padre continuava a raccontare.
– E di che mese è nato? -chiesi bruscamente.
– In settembre.
– Anche lui in settembre?
La coincidenza mi parve un segno rivelatore; e rimasi per un po soprapensiero.
Mi dicevo con una certa inquietudine: Lo stesso nome, lo stesso carattere, le stesse tendenze, la stessa stagione.
L’antenato dalla vecchia cornice dorata, ascoltava le mie domande insistenti, e quasi si meravigliava che ci fosse nella famiglia uno che prendesse tanto interesse ai casi suoi.
Provava piacere a star lì, sulla parete, a sentir parlare di sé; e forse volgeva nella mente grati pensieri verso il pittore che gli aveva fatto quel bel ritratto decorativo, in grazia del quale egli faceva sentire la sua presenza sui discendenti. Gli brillava sul petto la stella di cavaliere di Malta.
– Doveva essere un poco vanitoso – dissi.
– E’ probabile – rispose mio padre.
Pensai ai miei ritratti distribuiti qua e là per le stanze della casa.
Li vidi distanti nel tempo a decorare le pareti delle case dei discendenti i quali dovranno dire di me che ero vanitosissimo, e tormentato dalla più insana delle malattie.
Si udivano i passi dei familiari in faccenda nelle altre stanze, lontani, staccati dalla vita che vivevo. Mio padre si era mezzo addormentato, ed io udivo il suo respiro, forte, affannoso.
Abramo si prosternava davanti agli Angeli e Rebecca, robusta, con certi polpacci gladiatori attingeva acqua al pozzo sotto una palma gigantesca.
– E, a che età è morto?
Mio padre si risvegliò, e mi rispose infastidito: – Quante cose vuoi sapere! Morì, dicono giovane, non aveva ancora toccato la quarantina. Il volto mi si oscurò. Fissai l’antenato, e mi parve di notare nel suo viso un’ombra di malinconia.
Lo fissai a lungo, e vidi nel suo il mio stesso viso quando si annuvola al passaggio dei tristi pensieri. Io leggevo Cartesio e Condillac in quella vecchia casa di campagna, e lui leggeva a tarda ora l’opera magna del filosofo pessimista.
Ci siamo scambiate le parti, ma in fondo siamo la stessa persona. Mio padre si accorse del mio turbamento.
– Che hai? Mi sembri un incantato.
– Nulla. Guardavo il ritratto dell’antenato.
È l’antenato in quello stesso momento mutava espressione. Sorrise: -Non aver paura. A me solo toccò in sorte di morire giovane.
E mi fissava ora con tristezza.
Piero Girace
Pero Girace, L’Antenato, su: La Stampa
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Articolo terminato il 14 Novembre 2022