a cura del prof. Luigi Casale
Parlando di “cafone” abbiamo cercato di riportare il vocabolo nell’area di significato suo proprio, ricollocando la parola nella sfera lessicale del tema: “comportamenti linguistici”.
“Cafone” (= chi parla male una lingua) rientra quindi nella famiglia di parole che hanno per radice il vocabolo greco “φωνή (phōnē)” (= voce).
La stessa cosa abbiamo fatto poi per “villano” (= colui che risiede in villa, cioè nella residenza di campagna, la fattoria). Contrapposto ad “urbano” (= che vive nell’urbe, vale a dire in città).
Per chi non ha dimestichezza con la nomenclatura delle discipline linguistiche cercheremo di spiegare che cosa si intende per denotazione e connotazione. Una delle finalità del nostro intrattenimento è anche questa, implicita nello scopo dichiarato di rendere la lingua più trasparente. Cioè quella di offrire una conoscenza più approfondita delle parole che usiamo. E “denotazione” e “connotazione” sono parole che usiamo, specialmente in questo tipo di discorsi.
Perciò, mentre ne spieghiamo il significato, mostriamo con esempi quali sono i fenomeni linguistici che esse indicano.
Denotazione e connotazione sono, dunque, due aspetti del significato di una parola. Due diverse possibilità di valutare il modo di significare che le parole esercitano. Il primo livello di significazione, la base del significato, è la denotazione, il secondo, diciamo l’altezza, è la connotazione. Il primo ci rimanda al referente e indica la cosa in sé; il secondo, invece, che cosa quell’oggetto rappresenta per noi. Cioè si aggiunge al significato denotativo il significato che si forma attraverso le emozioni, quando usiamo quella parola. Facciamo un esempio. Se si legge di guerra in un libro di storia, la parola “guerra” assume un certo significato; se però se ne parla in un romanzo, il significato è un po’ diverso. Così, se chi ne parla è uno che non ha mai fatta la guerra, la parola ha un significato; se invece a parlarne è una persona che ha fatto la guerra e che magari se ne sia congedato ferito e mutilato, allora quella parola, che sul piano denotativo è sempre la stessa cosa, si connota in maniera diversa, cioè significa qualche cosa di diverso per la prima o per la seconda persona.
Concludiamo allora che la denotazione della parola “guerra” è quella parte di significato comune a tutte le situazioni comunicative sopra descritte. Connotazione, invece, è quella parte di significato più soggettivo, dipendente dalla situazione circostanziata del singolo atto comunicativo in cui la parola compare, cioè tutto ciò che la parola suscita in ognuna delle persone indicate. In altre parole, come si dice in maniera più appropriata, “è un significato che dipende dall’uso”.
Perciò, la denotazione è il significato che si trova nel vocabolario.
La connotazione è il significato che una parola assume (aggiunto a quello denotativo) quando essa si trova o in una pagina di prosa o in una poesia. Ma anche quando la usa ognuno di noi, o come parlante o come ricevente, nella sua specifica e particolare situazione esistenziale. Facciamo un alto esempio. La parola “rigore” (severità), pur denotando la stessa cosa per tutti: cioè “un regime di rapporti particolarmente formalizzati e assolutamente inderogabili”, poi va a significare qualche cosa di più, e di diverso, a seconda che venga utilizzata da chi il rigore lo impone, o da chi più semplicemente lo pratica condividendolo, oppure da chi il rigore è costretto a subirlo senza condividerlo.
Attenzione! Questo comportamento dei parlanti, cioè la diversa percezione del significato delle parole per quanto riguarda la loro connotazione – nelle due funzioni: di emittenti o di riceventi – pur restando ferma la base denotativa, è uno dei motivi che, alla distanza ma progressivamente, determinano lo spostamento del significato (quello che altrove ho chiamato “scivolamento”).
Così cafone dal significato di “uno che parla male”, dopo un certo tempo è andato a significare “contadino”; e, poi “maleducato”. Rischiando di passare addirittura ad “incivile”.
Se cafone è anche – impropriamente – contadino, vediamo che cos’è “colono”.
Così finalmente potremo confrontare i tre vocaboli: cafone, villano, colono.
Colono è un sostantivo appartenente ad una famiglia di parole, che dal punto di vista strutturale e semantico, deriva dal verbo latino “colo”, che significa essenzialmente tre cose (tecnicamente si dice: ha tre accezioni); indica, infatti, tre attività umane, strettamente collegate tra loro, forse anche consequenziale l’una all’altra: 1) Insediarsi (fermarsi ad abitare); 2) Coltivare la terra; 3) Produrre (attraverso rapporti sociali e interazione col territorio) una serie di abitudini, fino a strutturarle come sistema di valori (le istituzioni) e di riti (la religione) da tramandare, esclusivo del gruppo sociale. Il culto e la cultura.
Il verbo colo, dal punto di vista morfologico, presenta questi tre temi: col-o (tema del presente); colu-i (tema del perfetto); cult-um (tema del supino).
Tra le parole latine che contengono la radice di colo troviamo: incola [it.: “inquilino”] (abitante), colonia (città fondata da una città-madre), colonus (abitante di una colonia), cultor (coltivatore), cultura (coltivazione), cultus [sost.] (coltivazione), cultus [agg.] (coltivato). Inoltre l’ètimo “cola” compare col significato di “abitante” anche come suffisso di parole composte, sia in latino che in italiano.
Tra le parole italiane segnaliamo: coltura e cultura, colto, culto, coltivato, agricoltura, oltre a colonia, colono, cultore, inquilino, già richiamate.
Il resto – per quanto riguarda la modificazione di significato – lo fa la metafora.