Archivi tag: Gigi Nocera

Tragicommedia in un atto con balletto finale

Tragicommedia in un atto con balletto finale

gigi nocera

gigi nocera

Protagonisti:
Una madre di 78 anni (mia nonna);
Quattro figli maschi;
Tre figlie femmine;
Un messaggero spettatore: io.

La madre si chiamava Genoveffa ed era molto religiosa; la prima messa della Chiesa della Pace era la sua. Donna tosta e di carattere.
I figli, per ordine d’età: Salvatore (Tore tempesta); Luigi (Ciente mosse); Francesco (‘o Ferroviere); Espedito (‘o Signurino).
Costoro, nei giorni di festa, si ritrovavano puntualmente in Villa (‘o viale e miezo), spettegolando e sfruculianno il prossimo. Questo breve ritratto fa capire che razza di buontemponi erano, pur essendo ognuno carico di figli e con problemi economici tutt’altro che lievi. Difatti uno era ferroviere due erano operai del Cantiere, l’altro impiegato alla Corderia.
La madre di costoro rimase vedova di un brav’uomo, operaio anch’egli del Cantiere, nel 1923.
Rimasta sola fu gioco forza accasarsi a turno presso le tre figlie (Catella, Teresina e ‘Gnesina).
Sobillata dalle stesse però pretese dai figli maschi un aiuto economico. Dato che anche a loro mancavano sempre 19 soldi per fare una lira, e considerando anche il fatto che lei godeva di una pensione propria, naturalmente loro rifiutarono. Ma non ci fu ragione sufficiente per portarla a miti consigli. Quindi si rivolse alla magistratura la quale dette torto ai figli imponendo ad ognuno di essi di versare alla madre, tutti i mesi, una sovvenzione di 10 lire. La sentenza fu chiaramente accolta con grande giubilo dalle tre figlie! E grande preoccupazione per i 4 maschi. Che masticarono amaro sia perchè l’esborso (tutti i mesi) di quella cifra li metteva ancora più in difficoltà sul piano economico, sia perchè erano consapevoli che in realtà la vittoria non era della loro madre, ma delle sorelle (perché alla fine erano loro che beneficiavano di quel sacrificio).
Questa mia nonna ogni tanto si recava a Napoli e soggiornava per qualche settimana presso una cugina.
Una bella (!) domenica del mese di giugno del 1933 una delle figlie fu informata che la madre era morta a Napoli. Zia Teresina lo disse a mia madre che mi spedì di corsa in Villa ad informare mio padre del luttuoso evento. Rintracciato lui ed i fratelli fra la folla che si accalcava, tutto d’un fiato riferii la notizia. A questo punto accadde una cosa che sorprese tutti i presenti. Difatti, come dei burattini ai quali avevano tagliati i fili, inscenarono un saltellante balletto, facendo schioccare le dita cantando “’e tarallalì e tarallallà e tarallalì e tallarallà”, saltando alternativamente prima sull’una e poi sull’altra gamba.
Lo stupore indagatore dei presenti rimase senza risposta, perchè sempre ridendo e scherzando i quattro fratelli rientrarono alle loro abitazioni che si trovavano nella zona di S. Caterina.

Gigi Nocera

Banca della Memoria stabiese

Corrado di Martino, Enzo Cesarano e Maurizio Cuomo di liberoricercatore.it
in collaborazione con l’Altra Rete Project
raccolgono testimonianze dirette di una Castellammare che più non è.

Archivio interviste:

Assunta Carrese

Assunta Carrese

Maggio 2014, la signora Assunta Carrese racconta aneddoti della sua vita: la pasticceria di famiglia, il mitico biscotto di Castellammare, la II guerra mondiale e le relative ristrettezze economiche.

Intervista: Corrado di Martino
Riprese video: Cesarano – Cuomo
Consulenza tecnica: Pio Negri
Montaggio: Cordim
Musica: Autori vari 
Regia: Cordim

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Educazione… stradale

Educazione… stradale

Educazione stradale

Educazione stradale

Dietro questo titolo amaramente scherzoso si nasconde una realtà ben conosciuta da quei bambini appartenenti a famiglie di ceto medio-basso, vissuti come me negli anni del 1930.

Allora ogni famiglia era gravata da una “chiorma” di figli, almeno 3 o 4. Inoltre si viveva in alloggi abbastanza piccoli, ed i ragazzi, dall’età di 7/8 anni, venivano spinti a giocare per le strade del rione: per me Via S. Caterina – Piazza dell’Orologio – ‘a banchina ‘e zì Catiello.
Il pericolo di essere arrotato da una automobile non esisteva; al massimo potevi cadere dal predellino dei vagoni ferroviari che “assaltavi” per farti portare all’Acqua della Madonna; oppure cadere dal traino sul quale abusivamente balzavi affrontando l’ira del cocchiere che cercava di allontanarti brandendo una schioccante frusta.
Quindi più che la scuola, l’educazione e l’esperienza ce le davano la strada, il contatto con la sua cruda realtà, con le sue cose belle e brutte. Ascoltando furtivamente, con finta noncuranza, i discorsi dei grandi.
Se eri sveglio, furbo e intelligente diventavi quello che si chiama figli ‘e ‘ntrocchia. Cioè riuscivi a sfuggire, e a risolvere, certe situazioni pericolose in cui potevi incappare. Una di queste situazione mi vide protagonista e dalla quale ne uscii con prontezza e senza danni proprio grazie a quelle esperienze. Ecco i fatti:
Mio nonno era un grande importatore di carrube (‘e sciuscelle). Quando i velieri provenienti dalla Sicilia arrivavano con il carico, i sacchi pieni di questa leguminosa venivano depositati in un magazzino che si trovava in Piazza Orologio. Incaricato proprio da mio nonno, il custode e il factotum di questo locale era un omino di piccola statura, untuoso, viscido, cioè una figura poco gradevole. In quel locale io ci giocavo salendo e scendendo da quel cumulo di sacchi, dai quali ogni tanto estraevo un frutto dolce e saporoso e lo mangiavo. Ma a lui dava fastidio questo mio divertimento e con modi sgarbati cercava di impedirmelo. Allora avrò avuto 11/12 anni e portavo naturalmente i pantaloncini corti. Un giorno con un inganno mi attirò a se e lestamente infilò una mano nei calzoncini cercando di toccarmi “là” davanti. Io, sgusciandogli come una vipera, arretrai di un passo e con destrezza e violenza gli sferrai un calcio nel basso ventre, proprio “là”. E mai indirizzo fu più preciso. Scappando fuori dal locale mi voltai per vedere se mi inseguiva, ma lui era piegato in due e con le mani a cucchiaio cercava di trovare sollievo dal dolore che certamente gli aveva procurato quella mia improvvisa e inaspettata reazione.
Questo episodio che ho raccontato ha una morale? Non lo so.
Certo è che oggi è un bene che ai giovani, in grado di capire certi concetti, si parli apertamente di tutto, anche di argomenti scabrosi, trattati però con delicatezza e parole acconce. Oggi i mezzi di comunicazione ci portano a conoscenza di numerosi fatti analoghi che avvengono in tutti il mondo e quindi anche i bambini sanno di cose sgradevoli delle quali possono essere vittime. Ma noi, bimbi di allora, ignari di queste brutture, ai quali certi argomenti erano proibiti, come potevamo difenderci? Io, come avrei potuto fronteggiare una così scabrosa situazione se l’acume, l’intelligenza, la malizia e la prontezza di spirito affinati nel frequentare la “strada” non mi avessero soccorso? Se non ci fosse stata “l’educazione… stradale”?

Gigi Nocera.

Ricordo del dott. Imparato

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Dott. Imparato Salvatore

Dott. Imparato Salvatore

Caro Maurizio, nei giorni scorsi sul “Libero Ricercatore” hai pubblicato un bel ricordo del dottor Imparato. L’ho letto con grande emozione perchè molti anni fa fui da lui curato e salvato. Ecco i fatti:

Nel 1934 avevo 11 anni. Nell’estate di quell’anno a Castellammare molti bambini si ammalarono di tifo, ed io fra loro. Qualcuno morì, qualcun’altro si salvò. Io mi salvai grazie alla valentia professionale del dottor Imparato, per l’immenso amore e sacrificio dei miei genitori ed alla buona sorte o per meglio dire al volere di Dio. Il dottor Imparato, fin dalla prima diagnosi, e per tutto il tempo della mia malattia, veniva a volte anche due volte al giorno a visitarmi e controllare come andavano le cose. All’inizio avevo la febbre a 39/40 gradi e quindi la cura fu subito radicale: per far scendere la febbre dovevo fare due volte al giorno un bagno nell’acqua fredda. Naturalmente della vasca da bagno a casa mia si sapeva a malapena che esisteva, ma quanto a possederla poi….! E quindi fu giocoforza sostituirla con una tinozza di zinco abbastanza capiente. Poiché neanche il frigorifero faceva parte dei confort della mia abitazione di Via Santa Caterina, mio fratello (e a volte i vicini di casa) si recava a comprare presso la fabbrica del ghiaccio (che penso si trovasse dalla parte della Caperrina) un mezzo panetto di ghiaccio lungo 50/60 cm. che si caricava in spalla avvolto in un sacco di juta. Tanto per completare la descrizione delle condizioni igieniche in cui si trovavano quasi tutte le abitazioni del centro storico, per noi il gabinetto era costituito da un “cantero” posto in uno sgabuzzino angusto, scuro e senza prese d’aria con l’esterno.

Più sopra ho attribuito la mia guarigione anche ai sacrifici dei miei genitori, ed ecco il perché. Allora non esisteva in Servizio Sanitario Nazionale, la cosiddetta “Mutua” e per un ammalato grave a volte il vivere o morire dipendeva dal censo (chi aveva il denaro per curarsi adeguatamente) e dalla buona sorte (o volere di Dio). Per affrontare le spese per le mie cure i miei genitori portarono tutti i doni di nozze che ancora possedevano al Monte di Pietà (doni che naturalmente non furono mai riscattati…). Mio padre, dipendente delle “Ferrovie dello Stato”, ottenne dall’Amministrazione un prestito che poi restituì con una trattenuta sugli stipendi successivi. In verità non so se il dottor Imparato fu pagato; in caso affermativo non so dire quando e quanto gli fu dato. Era nota però la sua discrezione nel chiedere (ed a volte anche a rinunciare) un modesto compenso a quelle famiglie in precarie condizioni economiche. Dopo 8/10 giorni di un trattamento così drastico, naturalmente affiancato da appropriate cure mediche, il mio stato di salute incominciava a migliorare. Ricordo ancora bene le prescrizioni consigliate ai miei genitori per quanto riguardava il vitto. Mangiare minestrine in brodo e legumi accuratamente sbucciati, carne di cavallo tritata e anche gli acini d’uva dovevano essere accuratamente sbucciati. Inoltre, per rimettermi in forze, dovevo fare delle punture endovenose; e lui tutti i giorni veniva a farmele a casa mia. Per un bambino di 10/11 anni vedersi infilare un ago nelle vene non era piacevole: Ma lui con incoraggiamenti scherzosi e garbati riusciva a tranquillizzarmi dicendomi che avevo le vene che sembravano la “condotta dell’Acqua della Madonna”, tanto erano grosse ed evidenti.
Questo è il ricordo di un malato che 75 anni fa, fu curato e salvato da quel valente medico galantuomo che era il Dottor Imparato. Nel raccontare questo triste momento della mia vita, credo di aver offerto un piccolo spaccato della vita e delle condizioni in cui si viveva allora a Castellammare.

Gigi Nocera

Stabiese sempre

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Spagnuolo

Spagnuolo

Una botta di nostalgia più acuta di sempre mi è venuta leggendo la lettera di Canzanella che vi scrive da Genova. In quella ricca cartoleria (che vendeva anche giornali e giornaletti) ci comperavo i quaderni che mi servivano quando frequentavo la scuola che allora si trovava nel palazzo di fronte (per essere più preciso, dove c’era l’osservatorio meteorologico). Pur essendo a Torino dal 1938, al seguito di mio padre, funzionario delle FF.SS., non ho mai dimenticato quel tempo, anche se breve della mia vita. Quando “filavo” la scuola per andare a buttarmi a mare dalla vicina banchina ‘e “zi Catiello” o quando giocavo a fare a pietrate sulla spiaggia di fronte alla sede dello “Stabia”; oppure quando i miei genitori, a passeggio nella villa, mi comperavano il gelato da Spagnuolo. Quanti ricordi belli ! Forse perchè un incosciente ragazzino. Per ora saluto tutti i frequentatori di questo sito. Presto mi rifarò vivo.