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Stabiesi: gioiosi e irriverenti

Stabiesi: gioiosi e irriverenti

 Castellammare  linea tranviaria

Castellammare linea tranviaria

Per questa sfiziosa rubrica voglio raccontare una volgaruccia e popolaresca scenetta, cui assistetti quando avevo 12/13 anni, cioè nel 1935/36. Per valorizzarla e far risaltare il carattere gioioso, irriverente e caustico del nostro popolino occorrerebbe la penna del grande Peppino Marotta. Ma accontentatevi della mia scarsa abilità affabulatoria.
In quegli anni a Castellammare esisteva una linea tranviaria che attraversava tutta la città facendo capolinea da una parte all’entrata delle vecchie Terme e dall’altra al piazzale della Ferrovia dello Stato.
Nei mesi della bella stagione in Villa, per godersi un po’ di frescura, e sentire le bande musicali che si esibivano sulla splendida nostra Cassa Armonica, si incontravano gli amici e i parenti. In stragrande maggioranza erano maschi; le donne non avevano tempo per bighellonare: a casa dovevano preparare il pranzo e accudire la numerosa figliolanza.
Oltre ad ascoltare la musica in compagnia, questi incontri servivano anche a scambiarsi pareri, a commentare i fatti del rione, a “murmuriare” e pettegolare sulle avventure galanti dell’uno o dell’altra. Quante di quelle boccaccesche vicende sono venuto a conoscere mentre facevo finta di distrarmi con i giochi, ma attentissimo ad ascoltare quei pettegolezzi!
Di domenica questi incontri avvenivano verso mezzogiorno e mio padre, che aveva altri tre fratelli, con essi si incontrava in quel ameno luogo.
Mio zio Luigi, che era il più vecchio e il meno istruito, faceva il calafato al Cantiere, e quindi fatto di “grana grossa”. Come quasi tutti gli stabiesi anche lui aveva un soprannome: cientemosse, che gli derivava dal fatto che non stava mai fermo. Quando parlava si agitava come una marionetta disarticolata: si sbracciava, saltellava, si piegava sul busto, roteava le gambe in tutte le direzioni e accompagnava il suo dire con delle esilaranti espressioni facciali degne del miglior mimo in circolazione. Insomma, un vero spettacolo. Inoltre era scuro e secco come un’aringa affumicata.
Abitava dalle parti della “Funtana ranna” e per giungere in Villa si serviva del tram di cui ho detto. Una domenica, verso mezzogiorno, gli altri fratelli, ed io con loro, lo aspettavano alla fermata posta all’altezza della “Banchina ‘e zì Catiello”. Il veicolo era zeppo di passeggeri, molti accalcati verso la discesa. Aggrappato ad un maniglione vi era un compunto sacerdote, forse venuto per la cura delle acque dall’entroterra campano. Accanto a lui mio zio che poco prima di balzare a terra emise un volgare e formidabile rumore corporale. Poi rivolto al religioso gli disse: “Zì prevete! Ma nun ve pigliate scuorno a ffà certi ccose!?”. Il buonuomo, sorpreso, esterrefatto e imbarazzato, non ebbe la prontezza di spirito di ribattere alcunché. Questa assurda situazione, pur se alquanto volgare, suscitò nei presenti una risata generale. Nel frattempo il tram riprese la sua corsa portando lontano i pensieri amari di un povero prete di campagna.

Gigi Nocera

Il fedele… infedele

Il fedele… infedele

Il fedele infedele

Il fedele infedele

Questo fatterello che sto per narrare, per l’epoca in cui si svolse e per le persone coinvolte, credo abbia una valenza abbastanza delicata. Farò quindi in modo che difficilmente si possano individuare i luoghi e le persone interessate. Ai tempi della mia fanciullezza le famiglia cambiavano casa con una frequenza stupefacente. Basta dire che nei primi 15 anni della mia vita ho abitato in sei appartenenti diversi e in diverse zone della città. Ciò vuol dire che circa ogni due anni io cambiavo casa, rione …e Parrocchia. Poiché ero uno che si faceva voler bene, ubbidiente, simpatico e che ispiravo una certa fiducia, i parroci con i quali venivo in contatto, incauti!, si fidavano di me. In una di queste Parrocchie tutti gli anni si festeggiava un Santo (di cui non ricordo il nome) e per tradizione, in quei giorni, il parroco faceva fare dei piccoli panini che poi distribuiva ai più assidui frequentatori delle funzioni religiose. Fra questi frequentatori c’era una giovane e bella signora che abitava poco distante, il cui marito era un sergente della Regia Marina imbarcato su una nave da guerra. In quel periodo era in corso una vertenza politica-militare fra la Cina e il Giappone e le potenze occidentali (Francia, Inghilterra, Italia, ecc.) per evitare che l’incendio si espandesse nei Paesi vicini e per fare da pacieri, mandarono colà una flotta di guerra. Guarda caso, su un nostro incrociatore inviato laggiù era imbarcato il marito della signora di cui sopra. Nel giorno della festa di cui ho detto, il parroco mi affidò un pacchetto con un numero consistente di quei panini che, proprio perché piccoli, erano attaccati l’uno agli altri in file parallele. E mi ordinò: “Portali alla signora!” A questo punto l’istinto fellonesco che, poco o tanto, alberga nell’animo di ognuno di noi, in un lampo si fece spazio nella mia testolina e… nel mio stomaco, sempre mezzo vuoto e mai mezzo pieno. Il breve “pari e sparo” che fecero fu il seguente:… “se ne sottraggo una fila chi vuoi che se accorga!?”. Il gesto furtivo fu più rapido del pensiero, ma mi accorsi che l’operazione incontrava qualche difficoltà. Aprii completamente il pacchetto per vedere quale era l’ostacolo, e mi trovai fra le mani un foglio di quaderno, che era, come una fetta di salame, sistemato fra i panini stessi. In esso il parroco fissava l’ora di un appuntamento, che suppongo fosse per una intima confessione! Lestamente e furtivamente così come l’avevo svolto, riavvolsi il pacchetto e con una faccia da ingenuo impunito lo portai alla signora. Cosa avrà letto costei nei miei occhi smaliziati ed ingenui allo stesso tempo? Mah!… …Intanto il marito, in mari lontani, compiva la sua missione di guerra! Forse anche in lei, in quei momenti, si combattevano due sentimenti: il desiderio e la fedeltà. Chi vinse? Io credo di saperlo, ma non ve lo dico!

Gigi Nocera

La dis…avventura di un malato vecchio

La dis…avventura
di un malato vecchio

gigi nocera

gigi nocera

Cari amici, qualche settimana fa stavo concludendo brillantemente il mio 88° round con la vita. Improvvisamente sono stato colpito da una sventola che mi ha mandato rovinosamente al tappeto (la stessa fine del nostro pugile Primo Carnera, una montagna di carne e muscoli alto più di due metri, che nei primi anni “30”si batté per il titolo mondiale dei pesi massimi contro il piccolo ebreo americano Max Baery. Naturalmente fu messo KO ai primi pugni. Cosa che riempì di ridicolo il regime fascista. Difatti Mussolini, prima dell’incontro fece pervenire al nostro pugile il seguente telegramma: “Vinci per noi! Per il fascismo!”).

Ma torniamo a me. Visto che la botta era stata durissima, dopo qualche giorno fui portato all’Ospedale, al reparto geriatrico, modernissimo ed efficiente. La descrizione del trasloco in camera dopo 5 ore dall’arrivo è allucinante. Sdraiato su una barella in un corridoio intasato dove ero spintonato da altre carrozzine, barelle e carrelli vari. Quanti eravamo? “’Na folla!” Tanti poveretti fiaccati dal dolore chiedevano il conforto di un infermiere, di un parente, di una voce amica. Mentre assistevo a queste sofferenze e udivo questi lamenti mi vennero in mente quei bei versi di Salvatore Di Giacomo in “Lassammo fà DIO”. Dove si narra che S. Pietro portò il Padreterno a visitare i più bei posti di Napoli: la Chiesa di San Michele, il Museo, il caffé di Diodato, ed altro ancora. A un bel punto Dio interpellò S. Pietro e gli chiese:

“Dunque dicevi?- E c’aggia dì?…Guardate!
Tenite mente attuorno…Che bedite? –
Dio guardaie spaventato. Mmiez”a strata,
stuorte, struppiate, cecate,
giuvene e bicchiarelle,
guagliune senza scarpe,
vicchiarelle appuiate a ‘e bastuncielle,
scartellate, malate
e cert’uocchie arrussute
chine lacrime-
e mane secche, aperte stennute…
-‘A carità!… -Sta voce
‘e voce a centenara
sentette, ‘a tutte parte,
disperate, strellà:
e quase lle parette
dint’a n’eco e a luntano,
sentì ‘o stesso lamiento:’A carità!…

Questo mi venne in mente mentre ero assediato da poveri vecchi che si dolevano sommessamente, chi piangeva dolorante e, momentaneamente, senza assistenza. Ecco, mi dissi, queste sono le sofferenze che fuori di qui non si immaginano neanche. “Guai ai vinti!”
Ma proseguiamo. Nel pomeriggio venni sistemato in una bella camera a un solo letto. Il letto!
Tecnologico che più di così non si può: azionato da decine di pulsanti assume innumerevoli posizioni, meno una: quella che vorresti tu per stare più comodo. Il bottone che ti rialza la schiena, ti alza anche le gambe e alla fine ti trovi piegato in due come la lettera V. Il pulsante che ti alza le gambe fino al ginocchio ti manda sotto il sedere e il tuo corpo assume la figura di una N. Notte d’inferno! E non solo per questo.
Nella stanza accanto alla mia venne occupata da una povera vecchia contadina. Dopo le venti, fatti uscire tutti i parenti questa povera donna incominciò ad invocare tutta la notte il suo “Beneitu! Beneitu!” ma quest’ultimo non poteva sentire: sono certo però che soffriva solitario
un altro tipo di dolore in una cascina della campagna piemontese, senza la sua vecchierella.
Al mattino successivo sfatto, assonnato, debole come una canna sbatacchiata dal vento, venni affidato alle cure di due assistenti che con acconci massaggi in tutto il corpo cercavano di mettermi in carreggiata. Fui maneggiato, palpeggiato in tutte le pose e in tutte le parti del corpo; e nel frattempo pensai “Peccato non essere vecchi a 50 anni!”
Adesso cari amici vi saluto; il seguito un altro giorno.

P.S.: Cari amici del Libero Ricercatore, grazie! Se ho potuto scrivere queste considerazioni lo devo anche al vostro affetto, al vostro conforto, alle vostre preghiere che mi hanno protetto in questo difficile momento della mia via. I contatti col caro Enzo Cesarano (piccolo di fisico, ma grande d’animo) erano quasi giornalieri e mi trasmettevano sempre la vostra solidarietà.

Grazie ancora cari amici!

Gigi Nocera

La radio… ed altro

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Quanto sto per dire ai giovani amici potrà sembrare incredibile, eppure è la pura verità. Le trasmissioni radio, in tutto il mondo, ebbero inizio all’incirca dopo il 1920 in modo molto precario. Dopo qualche anno in Italia chi ne intuì l’enorme importanza propagandistica fu il regime fascista. Infatti stava preparando le sue prime manifestazioni di facciata (vedi le prime trasvolate atlantiche nelle due Americhe dell’aviazione italiana) e le più concrete imprese belliche in Africa Orientale.

La radio

La radio

Comparvero i primi apparecchi radio il cui costo non era alla portata di tutte le famiglie. Se lo potevano permettere soltanto quelle che disponevano di discrete risorse economiche, quindi non gli operai del Cantiere ne gli artigiani. Mio nonno che non apparteneva a queste categorie ne comprò uno.
In quel periodo la mia famiglia abitava in via S. Caterina nello stesso stabile del nonno, ed io, sempre curioso, appena potevo mi recavo da lui “a sentire la radio”. La stessa era sempre accesa, da mattina a sera, ma nessuno l’ascoltava perché trasmetteva soltanto musica da camera e in quella famiglia non c’erano orecchie educate a sentire tale tipo di “melodie”. In sostanza questa musica era il sottofondo musicale dei lavori domestici svolto da mia nonna Catella. L’unico che vi prestava una qualche attenzione ero io. I notiziari veri e propri ebbero inizio con le prime avvisaglie relative alla guerra in Africa che si stava preparando.
Poiché i giornali li leggevano in pochi e, come detto, i possessori degli apparecchi radio non erano tanti, per far conoscere alla gran massa dei cittadini l’andamento delle imprese africane fu ideato un mezzo ingegnoso ed efficace. Ecco di cosa si trattava.
Nella nostra bella Villa comunale, all’altezza della banchina ‘e zì Catiello, fu installato in alto, fra le fronde degli alberi, un enorme pannello di legno proprio nel viale di mezzo (‘o viale ‘e miezo). Su questo cartellone era riprodotta in grande scala una carta geografica dell’Africa Orientale (Eritrea, Somalia e Abissinia) dove tutti i giorni venivano indicate con bandierine tricolori le località conquistate dai nostri soldati. E man mano che queste bandierine avanzavano in territorio nemico, l’entusiasmo della gente era quasi da paragonare al tifo che si fa adesso per le squadre di calcio. Essendo in primavera poi erano tanti i cittadini che recatisi in villa per un po’ di fresco si accalcavano sotto questo tabellone.
Per quanto riguarda le altre notizie di carattere generale che riguardavano i cittadini e la vita della città esse venivano portate a conoscenza della popolazione attraverso i manifesti affissi sui muri della città. Normalmente però la gente era interessata maggiormente ai fatti che avvenivano nella via dove abitava, nel rione. Dei vicini di casa, di ciò che avveniva nel rione tutti sapevano tutto.
Le famiglie si confidavano le pene e le gioie. Si pettegolava anche, si facevano delle maldicenze, ma, viva Dio! Quando c’era da darsi una mano questa non mancava mai. A tale proposito voglio raccontare un fatto cui inizialmente fui un testimone diretto.
All’età di 11 anni, nel 1934, mi ammalai gravemente di tifo. Avevo la febbre altissima, a volte deliravo. Le vicine di casa e del rione erano sempre a casa mia a confortare mia madre per portare sollievo alla sua angoscia. Alcune preparavano a volte anche un piatto di spaghetti, di pasta e fagioli, sempre per “dare una mano”. Mentre mi vegliavano queste donne naturalmente parlavano del più e del meno e un giorno, pensando che io stessi dormendo, si confidarono che una certa signora abitante in un vicino palazzo aveva l’amante. Non volendo quindi appresi una notizia abbastanza delicata. Ebbene a questa signora fedifraga non mancò il conforto la solidarietà e l’aiuto delle stesse “commarelle”, quando qualche tempo dopo il marito morì a causa di un terribile incidente sul lavoro lasciandola sola e con 4/5 figli da mantenere. La solidarietà tra poveri non era soltanto un modo di dire.
Oggi con radio, televisioni, internet e tante altre fonti di informazioni siamo sommersi da notizie di tutti i generi. Crediamo di sapere molte cose del mondo, ma non sappiamo come sta di salute il nostro vicino. Sul pianerottolo di casa ci sentiamo già in territorio nemico. E’ vero, cerchiamo di lavarci la coscienza con l’adozione di un bambino a distanza. Ma forse lo facciamo proprio perché è distante. Non ci accorgiamo invece (anzi qualche volta ci infastidisce) di quell’altro bimbo che per la strada ci tende la mano per una monetina.
Della notizie che i suddetti mezzi ci portano in casa da tutto il mondo poche ne restano nel nostro cuore e nella nostra mente: dobbiamo fare spazio alle altre che ci risommergeranno domani. Crediamo di sapere tutto, ma non sappiamo nulla perché niente tratteniamo.
Secondo me le nozioni che ci restano dentro e ci fanno crescere moralmente ed intellettualmente sono quelle che apprendiamo leggendo un bel libro. Ecco perché esorto i miei cari e giovani amici a leggere, a non stancarsi mai di leggere dei buoni libri: il loro contenuto è il nutrimento dell’animo.
Ora però mi accorgo che da un ricordo dei tempi lontani sono scivolato in considerazioni sociologiche d’accatto. Ai lettori di questo bel sito chiedo di scusarmi se ci riescono. Grazie.

Gigi Nocera

Gigi Nocera

10 marzo 2010: “Caro Maurizio, questi versi (naturalmente non degni di dirsi poesia) mi sono venuti di getto nei giorni scorsi ripensando che sono quasi due anni che ci siamo visti. Pubblicali se li ritieni degni. Un abbraccio, Gigi Nocera”.

Lettera d’ammore alla mia Castellammare

T’aggio ‘ncuntrata doppo tantu tiempo!
Quant’anni so’ passate, a quanno te lassaie?
‘Na vita! ‘N’esistenza!

Si’ bella comm’allora; sempe c’‘o pizzo ‘a riso
‘o tiempo nun te tocca, te lascia sempe ‘a stessa:
pecché tiene pacienza!

Pe’ tutto chistu tiempo, chilli ca t’hanno avuto
hanno penzato a lloro, senza curarse ‘e te,
t’hanno sulo tenuto.

T’hanno spurcato ‘o nomme e chesta bella faccia,
facennule accussì, senza ‘nu pentimento,
e po’, se ne so’ ghiute.

Chi pe’ necessità, chi p’‘o destino suoio.
S’è alluntanato a te, senza putè turnà,
pe’ sempe te vo’ bene.

Te tene int’‘e penziere e sempe dinto core.
Te canta in versi, musica e canzone
e patenne se ne more.

*  *  *

“Caro Maurizio, pochi minuti fa ti ho inviato alcuni miei pensieri in versi, ti prego di accompagnarli con queste brevi note. Ciò allo scopo di spiegare il perché di questo enorme, sviscerato amore per una persona, per un luogo. Appena adolescente (15 anni!), per gli imponderabili casi della vita, le mie radici stabiesi furono sradicate: fui costretto a trasferirmi, con la mia famiglia, in una città del nord, lontana, fredda climaticamente, estranea (ma non ostile però). Nel pieno della mia maturazione fisica e psicologica dovetti lasciare i parenti, gli amici di strada, i luoghi dei miei giochi, il mare delle mie nuotate, le abitudini di vita. Costretto quindi a vivere fra volti ignoti, e alle prese con un parlare che alle mie orecchie suonava “strevezo”, incomprensibile. Si aggiunga ancora che, dopo appena un anno, i disagi, anche economici, della mia famiglia aumentarono a causa della guerra che nel frattempo era scoppiata. E si sa che la guerra isola la gente, la fa diventare sempre più egoista, che lotta sperando di sopravvivere agli altri. Queste difficoltà fecero della mia famiglia una vera “tribù”, chiusa, uno per tutti e tutti per uno. In tali condizioni i contatti col mondo esterno erano prevalentemente limitati a quelli dell’ambiente di lavoro e con i bottegai del borgo. I compaesani presenti a Torino in quel periodo si potevano contare sulle dita di una mano. E quei pochissimi appartenevano ad una classe sociale superiore alla nostra. E quindi…
La famiglia oltre ad essere strettamente unita dai vincoli di sangue, divenne monolitica anche a causa delle suddette condizioni. Ai nostri genitori ci legava un immenso, sviscerato amore. Benché giovanissimi, noi figli (io e due sorelle più piccole) comprendevano benissimo quanti sacrifici, quante rinunce, quanta fatica facessero i nostri genitori per far fronte alle difficoltà descritte e far in modo che non pesassero su di noi più del necessario.
Il loro amore, le loro premure, le loro tenerezze non sono mai venute meno. Ecco perché gli siamo sempre grati e li ricordiamo sempre, anche se sono passati moltissimi anni dalla loro scomparsa.
Dopo queste precisazioni penso si comprenderanno meglio i sentimenti che hanno generato questi semplici versi.
Grazie Maurizio, ti abbraccio e insieme a te abbraccio tutti gli stabiesi. Gigi”.

MEMORIE

Quanti ‘ccose hanno visto st’uocchi miei!

‘A primma cosa è stato nu sorriso,
Comme ‘e chillo da Vergine Maria
Quanno dint’a na grotta nascette o bammeniello.

Appriesso, doppo poco, è stato nu rilorgio,
‘ncopp’a na torre ‘nfaccia a casa mia,
mmiez’a ‘na piazza detta “do mercato”.

Nu poco cchiù luntano , ‘o mare nuosto,
‘o cielo azzurro e ‘na muntagna nera
cu nu pennacchio ‘e fummo ‘ncoppa’a capa

Quanti cose hanno ‘ntiso questi recchie!

‘A primma cosa ‘a voce ‘e mamma mia
Ca doce doce cantava ‘a ninna nanna.
Po’ ‘a voce allera da gente e stu paese.

E ‘ncoppa a Caperrina e do Chignulo;
e Santa Caterina e do Quartuccio;
e mmiezo a Pace e da funtana ranna.

E sento ancora ‘a voce e mamma mia:
“nun correre Giggi ca può sciulià;
c ‘arteteca ca tiene te fai male!”

Quanti parole ha ditto chesta vocca!

“Mammà!” è stata a primma, certamente.
L’urdema vota , doppo tantu tiempo,
cu e lacrim’inta l’uocchie,
è stata sempe a stessa “Mammà??!!”

*  *  *

“Caro Maurizio, quando un uomo giunge ad una certa età (diciamo più vicino ai 90 che ai 30!) ed ha vissuto una vita serena, onesta e laboriosa, pur fra travagli, dolori e disillusioni; e fatto un impietoso e inflessibile esame di coscienza, non lo spaventa l’incognita del futuro, ma lo strugge la nostalgia del passato, anche se molto lontano nel tempo. Ognuno di noi affonda le proprie radici nella terra dove è nato, ed io a questa terra sono legato, anche se da moltissimi anni ci vivo lontano. E forse proprio per questo Castellammare è cara al mio cuore. Gigi”.

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A banchina ‘e zì Catiello

Quann’ero piccerillo, guagliunciello
jevo ‘ncopp”a banchina ‘e zì Catiello,
saglievo ‘e scuoglie e me menavo ‘a mmare.

E pe’ fa chesto ‘a scola nun ce jevo,
facevo ‘a fuiarella, e già sapevo
ca ‘a casa m’aspettavano mazzate.

Mammema m’alliccava ‘o vracciulillo
e si sapeva ‘e sale era ‘nu strillo:
“Si stato ‘a mmare e ‘a scola nun è juto!”

Ma ‘e strille nun putevano fa niente:
‘o mare me chiammava, preputente;
‘e ‘ncopp”e scuoglie jevo ‘o jurno appriesso.

‘E vota me menavo tutt’annuro,
piccerillo cumm’ero, casto e puro
nun me mettevo certamente scuorno.

Ma certi vvota invece me menavo
vestuto ‘e bbuono, proprio comme stevo:
cu ‘na maglietta ‘ncuollo e ‘o cazunciello curto.

Chella banchina ha visto tanti ccose:
spasere, piscature e rezze ‘nfose,
‘e ‘o cunnulià d”e barche ca stanno ‘a repusà.

E addò sta cchiù mò chella scugliera?!
Mò c’e’ crisciuta ll’evera, tant’evera!
Ca nun ce azzecca niente cu stu mare.

Sparite songo tutt”e varchetelle,
‘e rezze… sò sparite pure chelle,
‘e piscature non ce stanno cchiù.

Mò nun ce vanno cchiù ‘e nnammurate
stritti, abbracciati cu ll’uocchie ‘a zannariello
llà, ‘ncopp”a banchina ‘e zì Catiello

* * *

“Caro Maurizio, queste sono alcune mie rimembranze in versi (non le chiamo poesia perchè non è proprio il caso). Sono considerazioni di una persona anziana che fra poche settimane festeggia (!?) i suoi 85 anni e vede avvicinarsi (anche con serenità e senza nessuna ambascia) quel traguardo che tutti gli esseri viventi prima o poi dovranno tagliare. Ho voluto ricordare anche se sommariamente i miei cari genitori e il mio passato con loro; specialmente quando eravamo ancora cittadini stabiesi. Ti sarei grato se potessi inserirla nel sito quando tu lo ritieni opportuno… Ti ringrazio. Gigi”.

‘Nu suonno

Me sbatte forte ‘o core stammatina!
Pecchè me so’ sunnato a mamma mia
ca me purtava a scola tenennemo ‘a manella?

O pecchè patemo, pur’isso, m’è venuto a truvà’
mentr’ero ‘nzuonno, forse pe mme parlà’,
o pe vedè’ si stevo sempe buono?

Io nun ‘o saccio chesto che vò dì’;
ca sta venenno ‘o juorno ca songh’io
ca vaco ‘a truvà’ lloro ca stanno ‘mparaviso?

Quanno sarrà ‘o mumento, tutt’e tre,
cu ‘e lacreme int’a ll’uocchie ce abbracciammo
e ricurdammo ‘e fatte ‘e tantu tiempo fa.

Quanno piccereniello tenevo ‘a freva ‘ncuollo
e vuje cu ll’uocchie triste penzaveve ‘o cche ffà’:
qual era ‘a mmerecina pe me putè’ sanà’.

O quanno, giuvinotto, avevo fà’ ‘o surdato
mentre ce steva ‘a guerra, che sciorta m’aspettava?
Sarria turnato a casa a sta sempe cu vuje?

Ce ricurdammo pure d’‘e sore meje, ‘e fratemo;
‘e quanno stevemo ‘e casa all’acqua d’‘a Maronna:
‘na casa chiena ’e sole e cu tant’alleria.

Stiettemo pure ‘e casa ‘ncopp’‘a Caperrina:
tre cammarelle strette sempe cu poco sole,
ma ‘o sole dint’‘o core steva sempe cu nuje!

Cumm’era bella ‘a sera quanno turnave a casa,
papà te n’arricuorde che festa attuorno a te?
Strignennete ‘e denocchie vulevemo pazzià’.

Pure a Santa Caterina stiettemo ‘e casa,
assaje luntano po’ ‘a vita ‘nce purtaje,
senza ‘nu poco ‘e mare e tantu friddo attuorno.

Ma ‘nce scarfava ‘o bbene ca steva dint’‘o core;
e si ‘o destino po’ luntano ce teneva,
sempe vicino stevemo, cu ‘o core e c’‘o penziero.

Po’, comm’è scritto ‘ncielo, vuje ve ne partiste,
ma ‘nce truvammo ancora, so’ sicuro,
e stammo sempe ‘nzieme, tutta ll’eternità!