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A proposito di pastore e pecore

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

In questi giorni si è parlato tanto di Mirafiori, ed io proprio nella condizione di dipendente della Fiat ebbi la ventura di assistere alla inaugurazione di questo grande stabilimento. L’evento ebbe luogo il 15 maggio del 1939. Tutti i dipendenti degli altri stabilimenti Fiat dislocati in città furono intruppati per assistere alla cerimonia. La fabbrica dove ero stato assunto distava circa 3 km da Mirafiori e quindi a piedi, inquadrati come soldatini, operai e impiegati ci recammo sul posto dell’evento. La mia eccitazione era al massimo: avrei visto per la prima volta e da vicino il Duce (figuriamoci!).
Giunti sul posto prima degli altri io mi sistemai ad una trentina di metri dal palco delle autorità. Sullo stesso troneggiava una enorme incudine, proprio di una dimensione smisurata.
Pensai subito che fosse di legno verniciata nero. E da qui cominciò la mia dissacrazione dell’evento e dei suoi protagonisti. Che fu poi confermato dal seguito cui assistetti.
Dopo parecchio ritardo giunse Mussolini con il codazzo dei gerarchi fascisti e delle autorità cittadine. Fra le quali naturalmente il vecchio senatore Agnelli, il capo della dinastia, e tutti i più alti dirigenti.
E qui, sempre per comprendere meglio il seguito devo fare una precisazione. Eccola: durante i suoi discorsi Mussolini inseriva sempre una domanda retorica. Ne cito soltanto una. Quando l’Italia invase l’Etiopia nel discorso che annunciava la guerra, chiese: “Camerati, volete voi burro o cannoni?”. La claque ben istruita cosa poteva rispondere? Naturalmente “Cannoni!”
Dunque anche durante la cerimonia di cui parlavo, a un certo punto sparò (facendo fetecchia!) la famosa domanda retorica: “Operai! Conoscete il mio discorso di Milano?”(1)
Domanda accolta da un silenzio totale; neanche una voce si sentì gridare SI! Un silenzio agghiacciante. A questo punto, per qualche secondo che sembrarono minuti, impettito e l’aria truce, dando un vigoroso pugno sulla famosa incudine, riprese con voce stentorea e concluse “Se non lo ricordate rileggetelo!”. Alzò i tacchi e con passo deciso scese dal palco con aria corrucciata seguito affannosamente dalle esterrefatte autorità (ecco perché il titolo del pezzo dell’amico Plaitano …IL PASTORE E LE PECORE, ha risvegliato questo ricordo).
Dell’avvenimento descritto credo di essere uno, se non l’unico, testimone vivente. Di simili ne avrei tanti altri da ricordare, ma… ho tempo; e mi riservo, se graditi dagli amici del Libero Ricercatore, di raccontarli… negli anni a venire.

Gigi Nocera

 
Note:
(1) Il discorso cui si riferiva lo pronunciò a Milano qualche anno prima in occasione di un convegno dei sindacati fascisti. Nello stesso preannunciava delle provvidenze per i lavoratori. (Proprio come ora: nulla cambia sotto il sole).

Anagrafe stabiese

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Caro Maurizio, mi rifaccio all’episodio narrato dal Signor Alessandro per esporre anch’io un fatto che capitò a mio padre quando si sposò nel lontano 1920.
Bisogna premettere che una volta per accontentare i nonni, paterni e materni, alla nascita ogni bambino si vedeva appioppare due o tre nomi, oltre a quello, diciamo, principale. Cosa che puntualmente capitò anche a mio padre, inconscio pargoletto che ignorava quanto avevano fatto i suoi genitori.
Mio padre si doveva sposare e si recò in Comune per espletare le relative pratiche. Nell’anticamera dell’ufficio preposto, assieme ad altre coppie aspettava che lo chiamassero per completare l’iter. Dopo aver atteso parecchio tempo e dopo che tutti gli altri… aspiranti sposi avevano esaurite le incombenze, mio padre si rivolse all’incaricato chiedendo il perché solo lui mancava all’appello. Ed ecco il colloquio, riferitomi diverse volte da mio padre, che si svolse tra lui e il commesso:
Mio padre: “Scusate, pecché a me nun m’avito chiammato?”
Commesso: “Scusate, ma vuie comme vi chiammate?”
Mio padre: “Nocera Francesco”
Commesso: “…Ma io v’aggio chiammato tanti vote!”
Mio padre, convinto: “No, guardate, vuie nun m’avite mai chiammato!”
Commesso: “Vostro padre comme si chiamma?”
Mio padre: “Nocera Andrea”
Commesso: “Allora, vuie site Nocera Francesco Paolo Mario Taddeo!”
Mio padre: “No, guardate, io songo sulo Francesco Nocera”
Commesso: “Diciteme almeno comme se chiamma vostra madre”
Mio padre: “Genoveffa Salerno”
Commesso: “Allora vuie site Francesco Paolo Mario Taddeo!”
Mio padre, rassegnato e non convinto: “E si ‘o dicite vuie…..!”
E fu così che Francesco Paolo Mario Taddeo sposò Gemma Suarato, i quali poi generarono questo bel tipo.

Gigi Nocera

Anniversario ( lettera del 07/05/2008 ):

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Caro Maurizio, esattamente un anno fa conobbi il tuo Libero Ricercatore. Ti scrissi e tu pubblicasti la mia lettera il 7 maggio del 2007 (rif.: “Libro Visite – Archivio 2007”). Data la mia età mi appellasti come il “nonno multimediale”. E subito mi proponesti di ricordare come si viveva a Castellammare negli anni “ 30” del secolo scorso. Di descrivere luoghi, fatti, persone e cose di quegli anni. Ben volentieri raccolsi il tuo invito. Per due motivi:

1° Perché rinnovare il ricordo di quei tempi era ed è come rivedere un vecchio film. Quando anche le scene meno belle vengono rivalutate e viste con occhi diversi.
2° Perché alle persone anziane piace raccontare il passato; molti illudendosi che delle loro esperienze se ne possano giovare i giovani. Ma non è così: le esperienze sono l’accumulo di fatti, di cose, di luoghi e persone, vissuti e conosciuti direttamente, e restano per sempre un bagaglio personale, un suo capitale, che in nessun modo è trasmissibile.
Rivedendo il film della mia vita, il ricordo di una grave malattia che mi colpì nel 1934, e che stava per portarmi all’altro mondo, non è così angosciante come dovrebbe essere. Eppure quella malattia, il tifo, in quella occasione fece parecchie vittime fra i bambini più o meno della mia stessa età.
Oggi non tutti sanno che allora la sanità pubblica non esisteva. Chi aveva le possibilità economiche (ed erano in pochi) poteva curarsi, chi ne era privo poteva anche morire per mancanza di cure. A volte il vivere o morire dipendeva dal censo e dal destino. Io mi salvai perché cosi volle il distino, al quale diedero una mano gli enormi e dolorose sacrifici dei miei cari genitori. Loro,poveretti, appartenevano alla categoria dei abbienti, e per curarmi adeguatamente furono quindi costretti a vendere tutto quello che si poteva vendere (anche i regali di nozze ricevuti in occasione del loro matrimonio), e impegnare al Monte di Pietà tutto ciò che era impegnabile (non so se poi il tutto fu riscattato; ma non credo). Al destino ed ai sacrifici di cui sopra si unì la solidarietà e la comprensione dei bottegai del rione (Geretiello ‘o casaiuolo, ‘o chianchiere, Mannara, Acampora il panettiere, e altri). Del medico Imparato che mi curò quasi gratis.
Queste tutt’altro che floride condizioni economiche oggi vengono da me ricordate non con l’affanno con cui allora erano vissute.
Il rammarico non mi assale se penso che io le scuole elementari e medie le ho frequentate senza mai comprare un libro. La mia famiglia non poteva permetterselo. Le nozioni che dovevo apprendere le dovevo assimilare ascoltando attentamente quello che dicevano in classe i maestri e i professori. Questo “allenamento” mi ha abituato ad ascoltare sempre con molto rispetto e attenzione quello che mi dicono le persone con le quali interloquisco. E questo lo ritengo anche un segno di rispetto.
Rivedendo il film di cui sopra, il lavarone, (che periodicamente invadeva le strade della città, e specialmente a Santa Caterina, quando dalla montagna acqua e terra precipitavano dal Chignulo ostruendo le strade e impedendo di andare agevolmente da Piazza Orologio all’Acqua della Madonna), oggi lo valuto con più freddezza, diciamo quasi con simpatia: era una anomale variante alla consueta routine della vita giornaliera. Per noi bambini sguazzare a piedi nudi in quel fango era uno dei tanti poveri e ingenui divertimenti.
Per le persone anziane (oggi non esistono vecchi, ma soltanto anziani!) invece, raccontare il passato è anche rimpiangere la semplicità, la genuinità dei rapporti umani che c’era fra la gente. Con grande nostalgia ricordo la solidarietà che esisteva fra i vicini di casa, fra la gente della via, del rione.
Nostra vicina di casa, per molti anni, è stata la famiglia Mauriello. Ebbene durante la mia malattia di cui ho parlato poc’anzi, mia mamma molte volte non aveva il tempo per preparare da mangiare, ma una delle sorelle Mauriello, Filumena, che era zitella, (come venivano chiamate allora le donne che non si sposavano) mai ci ha fatto mancare un piatto di pasta e fagioli, una pastasciutta, un frutto. Nel fare il bucato si sostituiva a mia madre , stanca per aver accudito giorno e notte a questo figlio quasi moribondo. E allora non esistevano detersivi e lavabiancheria I panni si lavavano a mano, con la forza delle braccia, in un mastello di legno, usando della cenere e del sapone grossolano.
Ma la solidarietà ci veniva data anche da molti abitanti della via. Chi andava a prendere i pani di ghiaccio perché,data la febbre alta, dovevo fare i bagni nell’acqua fredda; chi si alternava al mio capezzale perché dovevo essere assistito giorno e notte; chi andava a comperare le medicine. Insomma, come ho detto, c’era la solidarietà e l’aiuto diretto dei vicini di casa e di molti abitanti della via.
Ecco caro Maurizio quello che mi sentivo di comunicare ai giovani amici lettori di questo sito, nel compleanno della nostra conoscenza.
Nel concludere questi ricordi sono doverosi i miei ringraziamenti a te e agli amici stabiesi che ho avuto la gioia e il piacere di conoscere personalmente durante la mia breve visita a Castellammare nel mese di marzo.
Nei vostri occhi, sui vostri volti ho rivisto quei nobili e bei sentimenti di cui mi sono nutrito durante la mia fanciullezza a contatto con la gente dell’Acqua da Madonna, da Caperrina, ‘e via Santa Caterina.

Grazie ancora. Gigi Nocera