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Ho visto solo metà partita

os’jé pazzi: “Ho visto solo metà partita”.
(in televisione)

Giovedì sera il Napoli ha giocato la sua partita di Europa League contro l’AIK Solna al Råsunda Fotbollstadion. E l’ha vinta: all’ultimo minuto: ultimo tiro: ultimo gol (per quello stadio). Meno male! … per noi. Purtroppo di quella partita …. ho potuto vedere solo la metà. Meglio andare allo stadio!
Quella di vedere solo metà partita è una vecchia abitudine di casa nostra: da quando c’era il bianco-e-nero.

Un giorno mio padre all’indomani di un’importante partita della Nazionale si sentì chiedere da un suo amico:
– Genna’ ajere t’he vista ‘a partita?
– Sì, Miche’. Ma n’aggia visto solo ‘na metà.
– E che t’he visto? …’O primmo o ‘o sicondo tiempo?
– Aggio visto sulo ‘a metà ‘e coppa, pecché ‘a metà ‘e sotto era tutta scura. Tengo ‘a televisione scassata!

E’ proprio quello che è successo a me giovedì sera. La metà di sotto dello schermo era coperta da una grossa iscrizione: “Siete sul canale provvisorio di ITALIA 1, che sarà in funzione fino al 27 novembre. Siete perciò pregati di risintonizzare i canali e cercare quello giusto. Se non riuscite da soli, potete interpellare un tecnico”.

provvisorio

provvisorio

Tutta la serata con questo “cataplasimo” davanti agli occhi! Immaginate voi? Né potevo sintonizzare l’apparecchio in quel momento. Avrei suscitato la reazione dei figli che con me volevano vedersi la partita in diretta. Così ne abbiamo visto solo metà. Cos’jé pazzi!Però fortunatamente, tutto è bene quel che finisce bene.

Luigi Casale

La dis…avventura di un malato vecchio

La dis…avventura
di un malato vecchio

gigi nocera

gigi nocera

Cari amici, qualche settimana fa stavo concludendo brillantemente il mio 88° round con la vita. Improvvisamente sono stato colpito da una sventola che mi ha mandato rovinosamente al tappeto (la stessa fine del nostro pugile Primo Carnera, una montagna di carne e muscoli alto più di due metri, che nei primi anni “30”si batté per il titolo mondiale dei pesi massimi contro il piccolo ebreo americano Max Baery. Naturalmente fu messo KO ai primi pugni. Cosa che riempì di ridicolo il regime fascista. Difatti Mussolini, prima dell’incontro fece pervenire al nostro pugile il seguente telegramma: “Vinci per noi! Per il fascismo!”).

Ma torniamo a me. Visto che la botta era stata durissima, dopo qualche giorno fui portato all’Ospedale, al reparto geriatrico, modernissimo ed efficiente. La descrizione del trasloco in camera dopo 5 ore dall’arrivo è allucinante. Sdraiato su una barella in un corridoio intasato dove ero spintonato da altre carrozzine, barelle e carrelli vari. Quanti eravamo? “’Na folla!” Tanti poveretti fiaccati dal dolore chiedevano il conforto di un infermiere, di un parente, di una voce amica. Mentre assistevo a queste sofferenze e udivo questi lamenti mi vennero in mente quei bei versi di Salvatore Di Giacomo in “Lassammo fà DIO”. Dove si narra che S. Pietro portò il Padreterno a visitare i più bei posti di Napoli: la Chiesa di San Michele, il Museo, il caffé di Diodato, ed altro ancora. A un bel punto Dio interpellò S. Pietro e gli chiese:

“Dunque dicevi?- E c’aggia dì?…Guardate!
Tenite mente attuorno…Che bedite? –
Dio guardaie spaventato. Mmiez”a strata,
stuorte, struppiate, cecate,
giuvene e bicchiarelle,
guagliune senza scarpe,
vicchiarelle appuiate a ‘e bastuncielle,
scartellate, malate
e cert’uocchie arrussute
chine lacrime-
e mane secche, aperte stennute…
-‘A carità!… -Sta voce
‘e voce a centenara
sentette, ‘a tutte parte,
disperate, strellà:
e quase lle parette
dint’a n’eco e a luntano,
sentì ‘o stesso lamiento:’A carità!…

Questo mi venne in mente mentre ero assediato da poveri vecchi che si dolevano sommessamente, chi piangeva dolorante e, momentaneamente, senza assistenza. Ecco, mi dissi, queste sono le sofferenze che fuori di qui non si immaginano neanche. “Guai ai vinti!”
Ma proseguiamo. Nel pomeriggio venni sistemato in una bella camera a un solo letto. Il letto!
Tecnologico che più di così non si può: azionato da decine di pulsanti assume innumerevoli posizioni, meno una: quella che vorresti tu per stare più comodo. Il bottone che ti rialza la schiena, ti alza anche le gambe e alla fine ti trovi piegato in due come la lettera V. Il pulsante che ti alza le gambe fino al ginocchio ti manda sotto il sedere e il tuo corpo assume la figura di una N. Notte d’inferno! E non solo per questo.
Nella stanza accanto alla mia venne occupata da una povera vecchia contadina. Dopo le venti, fatti uscire tutti i parenti questa povera donna incominciò ad invocare tutta la notte il suo “Beneitu! Beneitu!” ma quest’ultimo non poteva sentire: sono certo però che soffriva solitario
un altro tipo di dolore in una cascina della campagna piemontese, senza la sua vecchierella.
Al mattino successivo sfatto, assonnato, debole come una canna sbatacchiata dal vento, venni affidato alle cure di due assistenti che con acconci massaggi in tutto il corpo cercavano di mettermi in carreggiata. Fui maneggiato, palpeggiato in tutte le pose e in tutte le parti del corpo; e nel frattempo pensai “Peccato non essere vecchi a 50 anni!”
Adesso cari amici vi saluto; il seguito un altro giorno.

P.S.: Cari amici del Libero Ricercatore, grazie! Se ho potuto scrivere queste considerazioni lo devo anche al vostro affetto, al vostro conforto, alle vostre preghiere che mi hanno protetto in questo difficile momento della mia via. I contatti col caro Enzo Cesarano (piccolo di fisico, ma grande d’animo) erano quasi giornalieri e mi trasmettevano sempre la vostra solidarietà.

Grazie ancora cari amici!

Gigi Nocera

Zìo Catello scapolo impenitente?

Zìo Catello scapolo impenitente?

Zìo Catello scapolo

Zìo Catello scapolo

Zio Catello, era il maggiore dei fratelli di mia madre, scapolo; per questo mio nonno, durante il ventennio fascista, era costretto a particolari aggravi fiscali. Zi’ Vicenza, secondogenita, anch’ella a sua volta non aveva incontrato l’anima gemella. Zio Catello, però, aveva avuto un grande amore in gioventù, una ragazza bellissima, dai capelli rossi e dalle forme seppur acerbe già sinuose, i suoi occhi cerulei si infiammavano come il sole al tramonto nell’incrociare lo sguardo del giovane amante. I due si incontravano di nascosto presso il vico della Croce, mentre lo sguardo compiacente della Trecchesella, la fruttivendola ai piedi del vicolo, faceva da distratto testimone. La Guerra, la seconda, si frappose fra loro. Zio Catello rimasto prigioniero in Grecia per qualche tempo, mai avrebbe dimenticato l’ultimo giorno passato insieme a lei. Un vestitino leggero, fatto di fiori colorati le cingeva i fianchi, lasciando appena un po’ scoperto il petto, ad ogni sussulto, ad ogni brivido quei fiori sembravano prendere vita propria. “Catie’, ije t’aspetto” gli disse fra le lacrime; “Aspèttame e quanne torno ‘ce spusamme”; triste, le replicò lui. Le lacrime di lei, gli sarebbero sembrate poi, finanche più salate del mare cristallino di Cefalonia.
La giovane fidanzata, poco più di una ragazzina, cercò di tener fede alla promessa fatta fra le dolorose gocce della disperazione; tuttavia dovette darsi pace, del resto non aveva mai ricevuto uno scritto, una lettera, una foto da lui. Un giovane le stava dietro; e la famiglia le faceva intendere che forse sfamare una bocca in meno, avrebbe aiutato gli altri a sopravvivere (la rossa era la maggiore di cinque figli, tutti molto più piccoli di lei). Alla fine, temendo il peggio per zio Catello, paventando di rimanere sola per sempre, cedette. Iniziò a frequentare il giovane che aveva trovato lavoro ai Cantieri Navali, un reddito sicuro, era un’occasione da non perdere. Zi’ Vicenza, disturbata da questo, per riabilitare il fratello, un giorno decise di affrontare la rossa in maniera molto risoluta. Zia Vincenza, di statura minuta, aveva un disturbo congenito all’anca che la faceva claudicare vistosamente, purtroppo, l’equilibrio già precario nella deambulazione, non si conciliava affatto con un’attività fisica come quella del combattimento corpo a corpo. Come poteva prevedersi, nello scontro che nacque improvviso nel bel mezzo di Piazza Fontana Grande, la mia povera zia ebbe la peggio; la nonna dovette curarle almeno quattro ferite lacero contuse alla testa, forse: zoccolate; alcuni graffi, e dovette rammendarle il vestito buono che aveva messo appena due volte nella sua vita: in occasione della Prima Comunione della sorella minore (mia madre) e, quando era morto il loro nonno materno.
Zio Catello, tornò dalla prigionia due anni quasi dopo la fine della Guerra, un camionista dedito al mercato nero sulla Costiera Sorrentina, lo aveva lasciato nei pressi delle Terme Stabiane (oggi Piazza Amendola). La brezza estiva, leggera gli riportava l’odore del mare misto a quello delle acque termali, salutato che ebbe il contrabbandiere a larghi passi si diresse verso casa. La città ferita, nonostante i suoi guai sembrava sorridergli, mentre passava alle loro spalle, riconobbe uno ad uno, i fabbricati affacciati sulla marina. Da lontano scorse una sagoma familiare, ogni notte aveva sognato di lei, ogni giorno durante la dura prigionia aveva parlato di lei, finalmente poteva riabbracciarla. La rossa indossava il medesimo vestitino a fiori di qualche anno prima, scolorito, pesto, invecchiato, appena più stretto; aveva in braccio un bimbino dai capelli rossi, ed un altro anch’egli rosso di capelli, di circa due anni, le cingeva la coscia sinistra con le braccia protese, un filo di mocciolo faceva, ritmicamente, su e giù ogni qualvolta respirava. Zio Catello aveva compreso tutto! La fruttivendola che fino a pochi anni prima, complice, li aveva benedetti con il suo sguardo, abbassò gli occhi, la rossa ebbe giusto il fiato di momorare: “Catie’ tu ccà staje?!?”. Zio Catello, sordo, senza mostrare alcuna emozione, ignorandola continuò per la sua strada. In casa c’era sola, zì Vicenza, i nonni erano in giro, il resto dei fratelli tutti a lavoro. Appena zi’ Catiello entrò dalla porta, strascurando persino la sorella che non vedeva da almeno tre anni, si mise a rovistare in una vecchia cassapanca alla ricerca di qualcosa, smadonnando come suo solito contro il disordine imperante in quella casa, buttò all’aria tutti gli attrezzi del nonno, finalmente trovò quel che stava cercando, un vecchio rasoio a lama libera. Molto maldestramente tentò di aprirlo, la frenesia e l’ira di cui era vittima, glielo fecero sfuggire dalle mani tremanti, si tagliò un polpastrello. La testa bassa dalla sconfitta, svigorito, poggiò le mani sul davanzale della finestra, una goccia di sangue cadde su di esso, e poi una lacrima rincorrendola la ritinse di rosa, sbiadendola. Zì Vicenza disse: “Catie’ lassa sta’ c’aggio già pensato ije!”.

P.S.: Appena due anni dopo la rossa rimase vedova, zio Catello e lei, senza mai sposarsi, continuarono ad amarsi per tutta la vita.

Corrado di Martino

In ricordo dei miei cari

In ricordo dei miei cari

strada del gesu'

strada del gesu’

E’ il 1° novembre, festa di Ognissanti, segnata in rosso sul calendario, non si lavora. Per me non è mai festa il 1° novembre, anche se non vado in ufficio.
Come molte altre persone, il 1° novembre vado a trovare i miei morti, il pezzo della mia famiglia che non c’è più. Non mi piace farlo, cioè… voglio dire… non mi piace farlo quando lo fanno tutti. Non vado mai al cimitero, non ne ho bisogno, e non ne hanno bisogno neanche loro… mia madre, mio padre, mio fratello, i miei amici… loro sono sempre qui con me, nei miei pensieri, nel mio cuore; non c’è bisogno che io vada nel “luogo deputato” perché loro lo sappiano. Ma ogni 1° novembre ci vado comunque, sennò mi pare come fare Natale senza mettere il Bambinello nel presepe.
Stamattina sono andata. I miei non sono al cimitero, ma in un loculo, nella Chiesa del Purgatorio, a Via Gesù. Non c’è niente da fare, lo so, lo sapevo fin da quando mi sono svegliata; quando vado lì e vedo quel cubo di marmo con scritto “Ruocco” e le foto di mamma, di papà, di Ivo… io mi sento male. E le lacrime riprendono a scorrere, come se il lutto fosse recente e il dolore ancora vivo… e mi vergogno, il dolore è una cosa privata, non mi va di esibire le mie lacrime davanti a una marea di persone che stanno lì a far conversazione, che trascinano quell’enorme scala per raggiungere i loculi più in alto e sbaciucchiare le foto.
Sarò stata lì un quarto d’ora e son scappata via, mi son seduta alla “canesta” con i miei occhiali da sole a coprire gli occhi anche se era nuvolo, e guardavo il mare da lontano. Una giovane mamma seguiva il suo cucciolo che imparava ad andare in bici; un gruppetto di anziani leggeva giornali e commentava risultati di calcio; in villa comunale c’era un discreto passeggio… i miei occhi notavano tante cose ma il pensiero era altrove, era con mamma, con papà, con Ivo… Son stata più vicina a loro mentre ero alla “canesta” che non nella Chiesa del Purgatorio.
Poi ho ripreso il cammino verso casa. Via Mazzini, il palazzo sul Bar Spagnuolo (quello della radio, dove ho tanti ricordi) era “incartato” per manutenzione; l’arco di San Catello, la Piazza con il monumento ai caduti… ho evitato il lungomare e il Corso dove, probabilmente, avrei incontrato gente… preferivo restare sola con i miei pensieri. Santa Maria dell’Orto, il palazzo dove ho lavorato per tanti anni… Via Nocera… i negozi chiusi, meglio così. Un pezzo di Via Denza e poi Via Plinio il Vecchio. Finalmente a casa.

Castellammare di Stabia, lì 1 novembre 2011

Delfina Ruocco

Soprannomi stabiesi

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Mio zio Luigi Nocera, che faceva il calafato nel cantiere navale, lo chiamavano Luigi “ciente mosse” perché quando parlava le sua parole erano illustrate da una gestualità pittoresca e caratteristica. Che cessava soltanto alla fine del suo dire. Io ero un bambinetto di 10/12 anni e vi assicuro che vederlo era un vero spettacolo. Naturalmente sto parlando degli anni precedenti l’ultima guerra e cioè nel 1930/1935.

Gigi Nocera