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Il “Giu’ Germania”

Il “Giu’ Germania”
di Frank Avallone

L’italo americano Frank Avallone, stabiese in Florida, racconta la storia della sua vita.

Nel dopoguerra, da ogni parte di Castellammare, guardando verso i cantieri navali, si vedeva una nave da guerra, ancora ormeggiata alla banchina della punta del molo, con la poppa sott’acqua, e la prua fiera e orgogliosa fuori dall’acqua; gli stabiesi chiamavano questa nave “ ‘O Giu’ Germania ”. La ragione di questo nome viene dal fatto che i tedeschi la minarono, per affondarla, ma non vi riuscirono completamente. La nave era ormeggiata con grosse catene di ferro al molo. Da questa storia vennero fuori diversi modi di dire, uno in particolare curioso e divertente era il seguente: quando, qualche donna stabiese preparava le braciole legandole con molto spago, il marito raccontava: “Muglierema ha fatto ‘e braciole attaccate che catene r’‘o Giu’ Germania”.
Nel ricordo di questo periodo, la curiosità mi ha spinto ad indagare, circa il vero nome di questa nave e la storia che c’era dietro. Così la settimana scorsa, incominciai a ricercare su internet, notizie su questa nave. Con sorpresa ho scoperto una storia bella e tragica, che voglio condividere con voi.

L'incrociatore Giulio Germanico (Il "Giu' Germania")

L’incrociatore Giulio Germanico (Il “Giu’ Germania”)

Il vero nome di questa nave era “GIULIO GERMANICO”, nome di un generale romano; un incrociatore leggero di 3743 tonnellate; fu impostata il 3 aprile 1939 per essere varata nel luglio 1941 e completata nel 1943. Capitano DOMENICO BAFFIGO, ne aveva avuto il comando. Il Giulio Germanico aveva un equipaggio di 418 marinai. La nave era pronta a prendere il mare; quando l’otto settembre, l’Italia capitolò per firmare una pace separata con gli alleati. Il comando tedesco, sapendo di questa nave pronta e di 8 corvette della classe “Gabbiano”, completate o quasi, diede ordine alle truppe tedesche di prenderne possesso. Capitano BAFFIGO, invece di partire col Giulio Germanico, decise di rimanere e di difendere il porto, i cantieri e tutte le navi in rada nelle acque di Castellammare di Stabia. Con i suoi 418 marinai e con l’aiuto dei carabinieri, accorsi per sostegno, organizzò le difese.
Dopo 3 giorni di furiosi combattimenti, i tedeschi, non riuscendo a sfondare le difese, sventolando bandiera bianca, invitarono il capitano DOMENICO BAFFIGO ad una trattativa; per cui sotto la protezione del colore della bandiera, simbolo di momentanea tregua, il capitano uscì per incontrare i tedeschi; ma venne preso con l’inganno, venne tradito dal vigliacco tranello e catturato per essere fucilato. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Così il cantiere e le navi finirono in mano ai tedeschi che per l’arrivo degli Alleati americani nella vicina Salerno, di lì a poco dovettero abbandonare Castellammare per ritirarsi al di là del fiume Garigliano. Prima di partire, affondarono le corvette e tentarono di affondare anche il Giulio Germanico; la nave però decise di non collaborare e rimase per metà a galla; per cui divenne “ ‘O Giu’ Germania ”; nome estremamente appropriato “Pecche’ ‘e tedesche nu’ furono capace r’affunnà“.
Nel 1950 la nave fu recuperata, ricostruita e ribattezzata col nome “SAN MARCO“, entrando in servizio nel 1956.
DOMENICO BAFFIGO fu insignito della Medaglia d’Oro al Valore e a futura memoria dell’accaduto oggi una lapide è affissa sul muro perimetrale dei cantieri navali. Per una strana coincidenza della vita ho poi visto che quasi contemporaneamente, in questi giorni, avete rimesso in pubblicazione su “Libero Ricercatore” lo scritto: “ La Resistenza nasce a Castellammare…” a cura del prof. Antonio Cimmino, che ringrazio e dal quale ho appreso ulteriori importanti informazioni.

Cocchino

Cocchino
di Frank Avallone

Conte Gioacchino, uno dei miei amici più cari; lo chiamavamo Cocchino (soprannome che ha ancora oggi) perché la madre, quando si affacciava al balcone lo chiamava in questo modo: “Cocco di mamma tua, vieni a mangia’!” Così gli rimase quel soprannome, che tantissimi stabiesi conoscono. So il suo vero nome, solo perché era mio compagno di classe, alle elementari. Cocchino era velocissimo, sempre in movimento e si arrampicava sui platani, proprio come una scimmia, al punto che qualcuno lo chiamava “BONGO”. L’altra cosa che gli piaceva fare era di tirare le pietre. Una domenica d’estate, verso le nove e mezza di sera, di ritorno dalla villa comunale, passammo per la “Banchina ‘e zi’ Catiello”, costeggiando il mare dietro al Circolo Nautico e proprio dove c’é ora il cinema Montil, alla fine del fabbricato, sul molo che si allunga per circa 250 metri a destra verso il mare, quello parallelo alla “Banchina ‘e zi’ Catiello”, per intenderci, notammo che in fondo al molo c’era ‘na cascia ‘e mare, tirata a secco per manutenzione. Incuriositi ci avviammo per vederla da vicino. Per chi non lo sapesse, ‘a cascia ‘e mare, è una particolare boa a cui si attraccano le navi per tenerle sotto controllo. La parte superiore ha un diametro di circa due metri, a questa è attaccato un tubo, dello stesso diametro, dentro questo tubo c’é un altro tubo di circa un metro e mezzo di diametro, anch’esso saldato alla parte superiore. La base fra i due tubi è chiusa ermeticamente da una banda d’acciaio. La parte interna del tubo più piccolo è vuota, per cui c’é uno spazio, aperto di circa un metro e mezzo per due metri. Viene ancorata al fondale con una grossa catena, agganciata alla parte interna del tubo più piccolo. Si regge a galla per la camera d’aria che c’è fra i due tubi (come una campana d’acciaio, con uno spazio intercapedinale). Ora basta con questa lunga spiegazione e torniamo alla nostra storia. Noi ci avvicinavamo tranquillamente, c’era un silenzio completo, ma a circa 15 metri dalla nostra meta, sentimmo un boato spaventoso: BOOMMMMM. A nostra insaputa, Cocchino per spaventarci aveva tirato una grossa pietra al soggetto della nostra attenzione, e ci riuscì pienamente: immaginatevi il rimbombo, per l’impatto della pietra, su questo metallo cavo. Il cuore mi salì in gola; ma questo fu solo il principio di uno spavento ancora più grande, perché dall’interno della cascia ‘e mare, uscì un giovane, inferocito, che cominciò a rincorrerci, e che nella fretta cadde, incespicando nei suoi pantaloni, che freneticamente, cercava d’infilarsi; cadde due volte, imprecando e dicendo cose che per buona educazione non posso ripetere. Naturalmente ce la squagliammo velocemente (altro che Livio Berruti). Per anni mi sono chiesto: “Che ci faceva lì dentro? Era solo? Era lì per un bisogno corporale? Se quest’ultimo era il motivo, molto probabilmente l’aiutammo enormemente. Se era in dolce compagnia, certamente la sua compagna pensò, che il rimbombo era un segno del giudizio divino e che certe cose non si fanno. Che ne è stato di lei, lo lasciò, lo sposò? Penso che qualsiasi decisione prese, una è certamente sicura: “Dint’‘a cascia ‘e mare nun ce metto cchiù pere”. Anche il povero giovane, se era andato per un semplice bisogno, in solitudine e pace, certamente, quella fu l’ultima volta che ha scelto un posto simile! Forse vi meraviglierete, che allora c’era gente, che usava le strade per fare i bisogni. Ricordatevi che moltissimi stabiesi, il gabinetto in casa non lo avevano; al massimo tenevano ‘nu zi Peppe.

'O zi Peppe

‘O zi Peppe

C’era un modo di dire in quel periodo, che così recitava: “Gli amici si riconoscono nei bisogni!” E questa era la mia Castellammare nel 1952.

Grandi eventi del 20° Secolo

Grandi eventi del 20° Secolo
di Frank Avallone

Alcuni giorni fa, il caro amico Umberto Cesino mi chiese la ragione, per cui la sua suocera, l’amico Gigi Nocera, ed io, nonostante l’età, ricordiamo la nostra fanciullezza con dovizia di particolari e con tante sfumature, a differenza delle nuove generazioni che risultano essere più superficiali e distratte. La domanda mi ha fatto pensare tanto… chi cerca trova… ed io sono arrivato ad una conclusione, che è nella logica dei fatti accaduti nel 20esimo Secolo: “Ad ogni azione c’è una reazione uguale e contraria!”, recita un famoso principio della fisica, ebbene, la causa del profondo cambiamento, che in particolare ha modificato il comportamento delle nuove generazioni, è da imputare sicuramente all’avvento della televisione.

Cartolina d'epoca (coll. Bonuccio Gatti)

Cartolina d’epoca (coll. Bonuccio Gatti)

.Fino al 1954, infatti, le notizie ci venivano fornite dai nostri genitori, dai nonni, gli zii, le zie, parenti e amici… specialmente durante i mesi invernali, quando, seduti intorno al braciere, piedi sullo scaldino, ascoltavamo i cosiddetti “CUNTI”, che i nostri famigliari ci raccontavano. Salva la veridicità del racconto, nel cosiddetto “cunto”, c’erano sempre delle aggiunte e le immancabili sfumature, di chi aveva vissuto e narrava la storia. A volte ci parlavano dei loro nonni o come si svolgeva la loro vita da bambini; storie anche di cronaca e commenti vari; storie, a volte fantasiose: “ ‘O MUNACIELLO… CAPPUCCETTO ROSSO… RAZZULLO E SARCHIAPONE, etc. ”. Storie di matrimoni, di morte, malattie, etc. Insomma, la cronaca del presente e del passato, vista attraverso gli occhi di chi raccontava. Questo era il nostro intrattenimento, sempre personalizzato e ripetuto, quasi all’infinito, per cui, a volte, ci veniva spontaneo di esclamare: “Ma questa storia non l’avevi raccontata già? Oppure, interrompevamo per ricordare che il fatto non era andato proprio così come ci veniva raccontato! Il “Cunto” ci rendeva quindi partecipi dell’evento per farci arrivare a conclusioni nostre personali, ma sempre basate sulla conoscenza che avevamo dei personaggi e delle circostanze. Naturalmente, prima dell’avvento della televisione e tralasciando la radio, lusso di pochi, l’altro modo per sapere e conoscere, era leggere un buon libro; ma anche questi, nel dopoguerra erano rari e costosi. Visto l’argomentare di questo scritto, trovo opportuno citare, uno dei miei cari amici d’infanzia, Vittorio Di Martino… “‘O poliziotto”, che mi somigliava, sia per personalità che nel carattere. Il suo soprannome derivava dal fatto, che era sempre attento a quello che succedeva intorno a lui: giudicava, catalogava, indagava… e vedeva le cose, con profondo senso di appartenenza e interesse. Maturo per i suoi anni, soprattutto perché quando aveva solo 12 anni d’età, aveva avuto il grandissimo dolore di perdere il suo PAPA’, Matteo, che era capitano della Paranza “Santa Barbara”, che ritornando a Porto Salvo, da un viaggio a Napoli, ebbe un infarto e morì, alla giovane età di 52 anni. Questo mi ricorda un po’ “La cavallina storna”. Tornava a casa, dopo aver guadagnato onestamente, il pane per la sua famiglia e un terribile evento lo aveva rubato all’amore dei suoi cari!! ~ Ricordo bene che in quegli anni, Vittorio mi ha raccontato, che la Santa Barbara non aveva motori, ma solo vele, per cui, quando non c’era vento, sei marinai scendevano in una scialuppa e remando, trainavano la paranza, fino al porto di destinazione. Nel 1948, Vittorio, ad appena 9 anni d’età, fu invitato dal padre a un viaggio a Capri. In tale occasione sulla paranza fu caricato: breccia, cemento e calce. Prima di partire, i marinai riempirono un barile d’acqua della Madonna. Arrivati a Capri, dovendo scaricare il pesante carico con particolari cesti chiamati “‘E CUOFANE”. Lavoro durissimo e vi lascio immaginare… sporchi, impolverati, sudati, bevvero quindi acqua in gran quantità, per cui quando arrivò il momento di cucinare la pasta e fagioli per rifocillarsi, dovettero arrangiarsi con l’acqua del mare e pochissima acqua dolce. Vittorio mi ha raccontato che la pasta e fagioli risultò squisita e che la ciurma mangiò con grande appetito. Così nel 1948 egli fu partecipe di un avvenimento, che oggi, dopo 62 anni mi ha raccontato con dovizia di particolari, a testimonianza che il ricordo del vissuto supera di gran lunga il sentito dire e non esiste telegiornale o trasmissione televisiva che possa reggere il confronto.

Grandi eventi del 20° Secolo ( parte seconda )

Alcuni giorni fa, a casa di mio figlio Joe (Pino), ho raccontato alle mie due nipotine e a mio nipote, rispettivamente di 9 – 7 e 5 anni d’età, quelli che erano i ricordi della mia prima infanzia. Quindi ho descritto la casa dei miei nonni materni, coi quali vivevo a Fondi (LT), la casa, costituita su tre livelli aveva al piano terra la stalla e la cantina, al primo piano, ben tre camere da letto e al secondo piano la cucina, il forno e la sala da pranzo. Quest’ultima stanza era arredata con il tavolo per i nostri pasti, un grosso tavolo usato per impastare la farina per la pasta e il pane, un ampio camino (in cui si cucinava usando il treppiedi o il paiolo), al cui lato vi era una credenza. La casa disponeva inoltre di uno stanzone dove venivano conservati: legumi, patate, grano, granturco (stipato a pannocchie e messo ad essiccare), ed altre prelibatezze della “terra”; poi sulle scansie erano sempre riposti dei grossi vasi di creta, in cui conservavamo noci, mandorle, melograni, uva passa (avvolta in foglie di fichi) mele, pomodori messi ad essiccare e le immancabili conserve di salsa. Al soffitto vi erano appesi salami, salsicce, prosciutti, lardo, alcune vesciche piene di sugna e tutto ciò che ricavavamo da uno o due maiali ammazzati nel mese di dicembre. Ricordo, come un sogno, il grande letto di ferro battuto, dei miei nonni e sotto di esso, a prescindere dal vaso da notte, una papera di legno, che sicuramente veniva usata nelle paludi pontine, come richiamo ai mallardi (germani reali) e alle anatre, durante il periodo della caccia. Ricordo anche un grosso gatto di nome “ ‘Ndurlitto ”, che nel dialetto locale significa (stupidino o fessacchiotto). Al piano terra, al lato sinistro dell’entrata c’era un buco rotondo, che fungeva da cesso e da pozzo nero. Nella stalla c’era il nostro cavallo di nome Gigetto e due mucche da latte. Ogni mattina e a sera, mia nonna le mungeva perché le vicine di casa venivano provviste di scodelle, a comprare il latte ancora caldo e coperto di schiuma. Io sono cresciuto con questo latte, che bevevo ed in cui non raramente bagnavo il nostro pane fatto in casa; che odore e che sapore (altro che latte scremato, pastorizzato, martorizzato ed immolato sull’altare della scienza!)
I nipotini ascoltavano in silenzio, attenti a capire quello che per loro ora risulta essere un’esperienza del tutto estranea al vivere quotidiano qui in America. Alla fine ho raccontato ai miei nipoti, il punto forte della storia (un episodio che ho appreso da mia nonna non appena sono diventato un po’ più grandicello): avevo circa 4 anni d’età, quando al principio del 1943, scomparvi alla vista dei miei cari, che allarmati, mi cercarono dappertutto e solo alla fine di lunghe e preoccupate ricerche, mi trovarono nella stalla, sotto ad una delle mucche intento a mungerla per bere direttamente dalle sue mammelle; al breve racconto ho poi aggiunto il commento che ho sentito, tante volte da mia nonna, ovvero che sono stato fortunato, nello scegliere la mucca più calma perché con l’altra avrei potuto correre il rischio di buscarmi una pedata in testa. Avreste dovuto vedere gli occhi dei miei nipotini; uno spettacolo che non dimenticherò mai e che mi fa porre questa domanda: “Il mondo, ha guadagnato o ha perso, nel 1954???” Mentre mi riempivano di domande è arrivato mio figlio Joe; alla sua vista Ashleigh (la mia nipotina maggiore), eccitatissima, gli ha raccontato la mia avventura con la mucca, che nella stalla ne avevamo due, del cavallo… il tutto raccontato in meno di due minuti e con estremo entusiasmo!!!
Tanto che mio figlio ha esclamato: “Papà, ma che gli racconti? Nel paese… a pianterreno… le mucche… il cavallo…!!! Ma dai… non è possibile!!!” Allora ho dovuto spiegare anche a lui, che gli abitanti di Fondi pur vivendo in paese, avevano appezzamenti di terreno sparsi un po’ dappertutto, anche a 3 – 4 – 5 km di distanza e che nel 1943, oltre a cavalli, asini, muli e carretti, non avevano altri mezzi di trasporto. Dunque, dove si poteva tenere il cavallo durante la notte? Certamente è molto difficile per i nostri figli e per i nipoti capire come si viveva 60 – 70 anni fa!!!
Una sera del 1970, eravamo a cena con amici (nello stato del Connecticut), quando Guido Cardinale, un mio carissimo amico, ci disse che aveva raccontato ai suoi due figli del sacrificio e della sua vita di apprendista meccanico (i suoi figli oggi lavoravano con lui in una grande officina meccanica di famiglia) di quando alla loro età (anni in cui Guido viveva ancora in Italia alla periferia di Roma), lavorando in un’officina distante da casa circa 9 km, per trovarsi (puntuale alle 7.30) al suo posto di lavoro, tutte le mattine, prima dell’alzarsi del sole, era obbligato a percorrere a piedi i 9 km, un percorso che sistematicamente era tenuto a ripercorrere a ritroso la sera, quando all’imbrunire doveva riguadagnare le “comodità” del focolare di casa!! Nell’apprendere la storia, sapete cosa gli hanno detto i suoi figli?! “Papà, ma perché non ti sei comprato un’automobile???”
Cose da non credere, Guido Cardinale, non poteva comprarsi neanche una bicicletta e questi gli volevano far comprare addirittura un’automobile!!!

Questa esperienza mi fa capire l’importanza del nostro passato e all’involontaria difficoltà di comprensione che hanno i nostri figli/nipoti ad apprendere, a capire e a metabolizzare i nostri racconti ad appena due generazioni di distanza, bisogna quindi persistere far capire, quale è stata la nostra vita e quali sacrifici comportava il sopravvivere quotidiano di quegli anni, per non dimenticare… Perciò, non ci fermiamo e continuiamo a ricordare e a raccontare…!

Grandi eventi del 20° Secolo ( parte terza )

Oggi, i genitori, parcheggiano i figli davanti al televisore, per tenerli occupati. Gli eroi. per i bimbi di questa generazione, sono personaggi di fantasia mentre i nostri erano reali; i genitori, i nonni, zii e zie; quando ci raccontavano un avvenimento erano coinvolti emozionalmente e noi lo capivamo dalla loro voce o espressione facciale, e ciò coinvolgeva anche noi emozionalmente. Per esempio, leggendo il racconto del carissimo Gigi Nocera “ ‘O LUNNERI’ ‘E PUZZANO ”, si sentono concretamente i sentimenti di apprensione dei genitori e l’amore espresso, anche quando dicono: “Puozze jetta’ ‘o sanghe!!!”; “Te scomm’e sanghe”; “Giggì, miettete ‘a sciarpe c’a fa friddo!”; Il papà che decisamente dice “Mo’ nce fermamme ‘cca’!!”, queste sono espressioni che possiamo capire e condividere a livello emozionale. Sono espressioni comuni alla nostra esperienza di vita.
La mia nonna materna, Attilia Zannella, mi raccontò la storia di suo fratello Luigi Zannella di Fondi, Latina. Era partito alla giovane età di 17 anni, per combattere nella prima Guerra Mondiale; era un giovane aitante di circa un metro e ottantacinque dal peso di ottanta chili. Circa due anni dopo, fu comunicato alla famiglia, che era stato ferito e che si trovava nell’ospedale militare di Roma. La madre era già morta, per cui si recarono a Roma, il fratello Vincenzo e la moglie Assunta. In una delle sale dell’ospedale, passando fra file di letti; zia Assunta sentì una voce esclamare: “Sorella mia!” lei si voltò, vide un giovane di non più di quaranta chili, che le faceva segno di avvicinarsi; lei si rivolse al marito e disse “Povero ragazzo! E’ fuori di senno, mi ha scambiato per qualcuno della sua famiglia!” Dovette, però, ricredersi poiché si trattava veramente di zio Luigino; irriconoscibile, quasi un cadavere. Quando mia nonna raccontava questo episodio; la sua voce si incrinava, lacrime apparivano nei suoi occhi ed io ero trasportato da una “marea” di sentimenti. Come si può avere la stessa reazione emotiva, guardando la TV?? Le storie che i nostri genitori e parenti ci raccontavano, sono impresse nella nostra mente indelebilmente… perché facenti parte di realtà vissute e personali.
Quanto detto ci dà lo spunto per riflettere: se paragoniamo una storia d’amore vista al cinema o in TV, con la storia del vostro amore, l’incontro con l’anima gemella, notiamo che la storia vista in TV, la ricordiamo per un po’ di tempo per poi dimenticarne i particolari; la prima volta che vi siete innamorati, invece? Ricordate le prime parole scambiate col vostro grande amore? Come e dove vi siete conosciuti? Come si è sviluppata la vostra storia d’amore? A che velocità batteva il vostro cuore? La gioia di quando vi ha detto si ti voglio bene? Quando tremanti vi siete baciati la prima volta? Questa è la differenza del raccontare il mondo reale ed il mondo della TV!!
Certamente, avrete raccontato questa storia d’amore mille volte, ma state ben certi che i vostri figli non si stancheranno mai di ascoltarla!!

Brigantino Valoroso (anno 1837)

 ( a cura di Antonio Cimmino )

Il brigantino Valoroso (dipinto d'epoca)

Il brigantino Valoroso (dipinto d’epoca)

Varato a Castellammare di Stabia il 28 settembre 1837, era costituito da uno scafo in legno lungo metri 44,18 e largo 10,12 e con pescaggio di metri 4,6. Il brigantino possedeva possedeva un ponte a batteria scoperta, tre alberi: trinchetto e maestra a vela quadre, mezzana con randa (vela trapezoidale chiamata aurica) e bompresso a prora. L’armamento in origine era composto da: 18 carronate da 32 libbre in ferro con anima liscia, 2 obici Paixhans da 30 libbre in ferro con anima liscia e un equipaggio di 172 uomini.
Nel mese di dicembre del 1857 venne disarmato a tirato a secco sullo scalo di alaggio del cantiere di Castellammare di Stabia per essere sottoposto a lavori di accomodo essendo trascorsi 20 anni dalla sua entrata in servizio. Furono sostituiti diversi corsi di fasciame dell’opera viva (la parte di scafo immersa) ed effettuato il calafataggio ai comenti (i bordi delle tavole di fasciame). Dopo tali lavori che si protrassero fino al 15 febbraio dell’anno successivo, fu di nuovo varato. Disarmato a Napoli il 25 settembre 1868 e radiato dai quadri del naviglio militare del Regno d’Italia, con regio decreto 9 maggio 1869, n. 5067.

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Vascello Capri (anno 1810)

 ( a cura di Antonio Cimmino )

Varo del vascello Capri (autore ignoto).

Varo del vascello Capri (autore ignoto).

Il vascello CAPRI, fu varato nel Regio Cantiere navale di Castellammare, il 21 agosto 1810.
Costituito da uno scafo in legno con carena foderata in rame (per la protezione dall’acqua marina e dai parassiti), la nave aveva tre ponti. I 74 cannoni ad avancarica ed a canna liscia, erano sistemati in batteria: una scoperta sul ponte e due coperte. Possedeva tre alberi a vele quadre (trinchetto, maestro, mezzana) e il bompresso a prua (albero sporgente ed inclinato di circa 30° rispetto alla superficie del mare). Andò in disarmo il 1847 e poco dopo fu venduto a Napoli per essere demolito.
L’immagine a corredo (rappresentante l’operazione di alaggio) dipinta da ignoto nel 1843, è un acquerello che si trova a Napoli nell’ex Comando in Capo del Dipartimento Militare del Basso Tirreno di Via Cesario Console (Comando soppresso con D.L. g.vo 464/1997).
Si nota il nuovo scalo di alaggio e, in secondo piano, i capannoni per l’alloggio delle lance cannoniere (lancioni) inseriti tra due edifici adibiti a magazzino.

La curiosità: l’unità fu costruita sotto il regime di Gioacchino Murat (decennio francese 1806-1816), il 10 maggio 1843, fu tirato a secco nello scalo di alaggio del cantiere di Castellammare utilizzando ben 2.400 uomini. I 1450 operai del cantiere furono aiutati in tale operazione da 320 uomini dell’equipaggio del “Vesuvio”, 242 della fregata “Regina”, 242 del “Partenope” e 146 della “Isabella”. Furono usati 8 argani cosiddetti a “Barbotin” cioè con tamburo ad impronta, costruiti dalla Ditta Lorenzo Zino & Henry di Napoli.

Cenni di architettura navale:
Il vascello da 74 cannoni comparve sullo scenario marittimo verso la fine del ‘700 e rappresentò un compromesso tra la potenza delle artiglierie e la manovrabilità rispetto alle precedenti unità armate con 100 cannoni ma meno evolutivi. Generalmente i cannoni più pesanti (fino a 4 tonnellate) erano sistemati sul ponte principale, sul ponte inferiore in batteria coperta, dai quali sparavano palle da 32 libbre, mentre i più leggeri, in batteria scoperta sul ponte di coperta, sparavano palle da 18 libbre. Il rinculo era assorbito dal movimento delle ruote dell’affusto. Alcuni vascelli, inoltre, avevano due cannoni da 12 libbre sul castello di prora (cannoni detti “in caccia” per colpire le navi in fuga) e 4 da 32 libbre sul cassero a poppa, detti “in ritirata” per bloccare la nave inseguitrice. Questi cannoni erano più lunghi ed avevano una migliore precisione. Le carronate erano cannoni con canna più corta, meno pesante e servita da meno uomini: in battaglia era più facile da caricare (a mitraglia) e da puntare; servivano per l’arrembaggio.
Un’altra caratteristica delle unità in legno era rappresentata dalla carena ramata, altra innovazioni inventata in Gran Bretagna. Precedentemente la protezione contro la corrosione era ottenuta dipingendo, in più mano, la carena con una miscela di zolfo, sego, minio, olio di pesce e catrame e, alla fine, una passata di catrame minerale. Questo conferiva ai velieri il caratteristico colore nero con una fascia bianca o gialla in corrispondenza dei portelloni di murata dei cannoni.

Note:
Le informazioni contenute nella presente scheda sono tratte da: Radogna L., op.cit.; Formicola A. – Romani C., L’industria navale di Ferdinando II di Borbone, Casa Editr. Fausto Fiorentino, Salerno, s.d., pag. 52; Cosentino A., Vascello da 74 cannoni, in Sullacrestadellonda.it. 


Per approfondimenti scrivere a: cimanto57@libero.it