Alle origini del movimento operaio di Castellammare di Stabia
di Raffaele Scala
CAPITOLO QUARTO
LA CAMERA DEL LAVORO
1. Catello Langella, Segretario Generale della Camera del Lavoro 1907 – 1908
Qualunque fosse lo stato d’animo e i rapporti tra i diversi dirigenti e militanti socialisti, la sezione del PSI, quest’araba fenice sempre pronta a risorgere dalle proprie ceneri pur dovendo combattere contro le emigrazioni, le incomprensioni, le rivalità, e le diverse strategie politiche, che a volte contrapponevano i diversi leaders, obbligatoriamente si ritrovò ad essere partecipe e protagonista della nascita della Camera del Lavoro avviatosi a prendere forma e sostanza in quei primi giorni d’autunno del 1907. Partito ed operai si lasciarono contagiare da un nuovo irrefrenabile entusiasmo e nel giro di poche settimane si andarono formando nuove leghe, tra cui quelle dei gasisti, dei metallurgici, dei pittori, degli insegnanti e degli impiegati, raggiungendo ben presto la considerevole cifra di 500 iscritti. Erano già esistenti quelle degli arsenalotti con oltre 200 iscritti, dei vetturini da nolo costituita nel maggio 1906, dei gallettai risalente ad alcuni anni addietro, probabilmente fondata nel 1904 e quella dei muratori e affini, una Unione di miglioramento sorta sul finire dell’estate, tutte guidate da socialisti tranne quella dei vetturini il cui capo lega era il repubblicano Vincenzo Donnarumma e la lega dazieri con 90 iscritti. Si avviarono, subito dopo, frenetiche riunioni fra i delegati delle diverse leghe per nominare la Commissione Esecutiva del Consiglio Generale ed eleggere lo stesso Segretario Generale della Camera del Lavoro. Approvato lo Statuto teso a regolare l’organizzazione camerale, fu anche deliberato di iniziare un corso serale per i lavoratori e una serie di conferenze storiche e di educazione sociale.
Mentre l’entusiasmo contagiava gli operai facendo ingrossare le fila delle diverse leghe e nuove altre se ne andavano formando, la domenica del 13, nella sede dov’erano i locali dei Partiti Popolari, la Camera del Lavoro nominò la Commissione Esecutiva composta da C. Battaglia e R. De Rosa per la Lega pittori, A. Olivieri per la lega metallurgica, Vito Lucatuorto per la lega impiegati e insegnanti, R. Scarico per la lega gassisti e F. Mazzoni per quella dei falegnami. Subito dopo ci fu l’elezione di Catello Langella a Segretario Generale, concretizzando così un antico sogno perseguito con tenacia e un duro quotidiano lavoro di proselitismo tra gli operai. E il giorno dopo, i più attivi militanti, insieme al loro segretario, già si diedero da fare avviando un giro di propaganda nei comuni limitrofi, cominciando da Gragnano dove s’incontrarono con rappresentanze di mugnai e pastai per concordare con loro la nascita di leghe di mestiere aderenti alla nuova struttura camerale. La domenica successiva, il 17, Catello Langella se ne andò con alcuni carpentieri della lega a Torre del Greco per tentare di costituire con gli edili di quella città una Federazione di mestiere.
Ancora non aveva fatta sentire la sua forza, vera o presunta, ma già grande era la paura serpeggiante tra le forze reazionarie. Una preoccupazione che andava crescendo di giorno in giorno con l’approssimarsi delle elezioni amministrative considerando la nascente Camera del Lavoro un formidabile serbatoio di voti per gli odiati socialisti, alcuni dei quali avevano già dimostrato tutta la loro pericolosità nella breve amministrazione lasciatosi alle spalle, nonostante l’ingabbiatura in una coalizione moderata. Più di tutti si spaventò l’inossidabile Alfonso Fusco dandosi subito da fare e inventandosi di sana pianta un nuovo comitato arsenalotti fatto “di veri monarchici”, fra gli operai del Regio Cantiere con lo scopo, annunciò, di promuovere il benessere morale e materiale della classe operaia. E la stessa domenica, 13 ottobre, in cui si andava formando il gruppo dirigente sindacale, Alfonso Fusco teneva nella sua associazione elettorale un comizio per dichiarare costituito il comitato arsenalotti. Si presentarono poco più di trenta persone, ma non ebbe dubbi nel far telegrafare ad un giornale di Napoli e far scrivere che si era tenuto un comizio imponente. Non rimaneva fermo, però, il vero Comitato arsenalotti stabiesi, quello aderente alla federazione Italiana dei lavoratori dello Stato, diffidando gli organizzati a stare attenti dalle imitazioni e il 19 di quello stesso mese fece affiggere un manifesto in cui smascherava le vere intenzioni, puramente elettorali, di Alfonso Fusco.
Intanto il neo Comitato Monarchico non perse tempo dandosi immediatamente da fare, approfittando del malumore serpeggiante tra gli arsenalotti e già concretizzatosi in alcune agitazioni operaie contro il rincaro dei viveri e delle pigioni, promovendo il 27 ottobre un imponente comizio nell’ampia sala del Teatro Vecchio alla salita Quisisana. Furono invitati vari deputati e consiglieri provinciali, parlarono il vice presidente del comitato, Francesco Mottola, lo stesso Alfonso Fusco, attaccando naturalmente “..I mestatori della pubblica coscienza..” , suo fratello Ludovico, deputato di Popoli e alcuni operai tra cui Catello Acanfora e Domenico Santoro, presentando alla fine un ordine del giorno in cui si chiedeva alle diverse autorità di dare soluzione al problema. Dal Comitato nacque inoltre la proposta di nominare una speciale Commissione per “…lo studio del grave problema sia nei riguardi del prezzo dei viveri, sia nei riguardi delle pigioni delle case d’abitazioni…”, di cui dovevano fare parte il neo Segretario Generale della Camera del Lavoro, Catello Langella, il capo carpentiere nel Regio Cantiere, Catello Aprea, il Vice Presidente della Federazione impiegati del Regio Cantiere, Raffaele Morgoglione, il Presidente della Società Operaia Previdenza, Vincenzo Di Lorenzo, ed altri ancora per complessive 22 persone. Era il 2 novembre quando s’incontrarono nella casa comunale presieduta dal Regio Commissario, Vittorio Colli. Quest’ultimo era stato nominato Commissario appena due mesi prima, in settembre, e da subito si rivelò amministratore energico e capace. E’ sua, infatti, la delibera per il progetto di costruzione del secondo piano della Casa comunale, fu lui ad iniziare le trattative con la Società Napoletana per sostituire l’illuminazione a gas con quella elettrica e a promuovere la costruzione di nuove case per gli operai. Non a caso gli fu conferita la cittadinanza onoraria nel 1908, dal consiglio comunale eletto nelle elezioni amministrative che si erano tenute il 1° marzo di quell’anno.
2. Primi scioperi
Quale sviluppo prese questa estemporanea commissione, lo sappiamo dalla relazione finale lasciataci dal Commissario per l’amministrazione straordinaria del comune, Vittorio Colli e letta al rinnovato consiglio comunale l’11 marzo 1908:
Mi trovavo fra voi da qualche tempo”, scrisse il commissario “quando persone autorevoli da un lato e l’eco di un pubblico comizio tenuto per scopo diverso dall’altro, richiamarono la mia attenzione sulla questione – molto dibattuta ormai generalmente – del rincaro dei viveri…nominata una commissione ai lavori della quale sovrintendeva l’egregio Commendatore Jammi, Presidente del Comizio agrario, che doveva studiare il problema sotto i diversi aspetti indicatile e fare le eventuali opportune proposte per riparare agli inconvenienti, se ne avessimo rilevati. Essa doveva ancora occuparsi della costruzione di case ad uso degli operai. Questa commissione composta di più di 20 membri fra le varie classi sociali e competenti rispettivamente nei vari rami di commercio, industrie e professioni non è stata – devo dichiararlo ad onore del vero e con gratitudine – una delle tante che si dicono nominate per far dimenticare gli affari dei quali dovrebbero occuparsi, ma si è posta invece all’opera immediatamente corrispondendo alla mia aspettativa ed esaurendo il compito affidatole con diligenza e con sollecitudine superiore ad ogni elogio.
Le conclusioni alle quali essa è giunta si possono così riassumere in poche parole: il rincaro dei viveri a Castellammare – se pure esiste – non è da attribuirsi a cause locali non esistendo qui il così detto bagarinaggio e cioè l’incetta delle mercanzie per cederle a più caro prezzo ai rivenditori, ma piuttosto alle cause generali che producono il maggior costo della vita in genere. Essa escludeva di conseguenza la necessità e la convenienza di adottare provvedimenti che avrebbero piuttosto nociuto che giovato allo scopo e raccomandava invece la costruzione di un pubblico mercato e maggiore efficace controllo sulla qualità e sul peso delle derrate in genere. Suggeriva ancora di costituire una commissione permanente di persone abili ed intelligenti le quali si occupino di tutto il problema dell’incremento della villeggiatura che è sempre una delle precipue risorse del vostro paese. Per quanto riguarda le case operaie la commissione predetta promosse serie attendibilissime considerazioni (…)
Tra una riunione e l’altra di questa commissione, Catello Langella fu subito preso anche da altre impellenti questioni, legate al primo sciopero, ad opera di 40 operai organizzati nella Società dei carrozzieri sui 53 occupati nei quattro stabilimenti per la produzione delle carrozze di Catello ed Ignazio Scala, Giovanni Coppola, Giuseppe Ricciardi e Vincenzo Caropreso. I 40 lavoratori percepivano un salario di 2.50 lire il giorno, mentre gli altri 13, tutti ragazzi, avevano una paga di 80 centesimi. Lo sciopero fu attuato il 4 novembre, dopo aver inutilmente presentato alla controparte un memoriale in cui si chiedeva un aumento di salario e la riduzione dell’orario di lavoro da 11 a 10 ore giornaliere. Per la composizione dello sciopero tentarono la mediazione il consigliere provinciale del mandamento, Antonio Vanacore e la stessa autorità locale di pubblica sicurezza. Gli imprenditori erano disponibili a concedere l’aumento ma non a trattare sulla riduzione dell’orario di lavoro. Lo sciopero continuò così ad oltranza senza mai interrompere la trattativa fino a quando la Lega riuscì a strappare anche una riduzione d’orario di mezz’ora. A queste condizioni gli operai decisero di riprendere il lavoro l’8 novembre.
Neanche il tempo di riprendere il fiato: da un lato i gasisti annunciavano fin dal 10 novembre l’inizio delle ostilità contro la disparità di trattamento rispetto ai compagni di Napoli, mentre il 25 di quel caldo novembre sindacale, i falegnami della ditta American Cav and Fondry Company, specializzata nel montaggio di carri ferroviari provenienti dalla fabbrica di Manchester per conto delle Ferrovie dello Stato, proclamarono lo sciopero e sospesero il lavoro dal giorno 26, rifiutando una tariffa di cottimo proposta dalla direzione aziendale e da essi ritenuta inaccettabile perché avrebbero guadagnato molto di meno del sistema ad ore fino a quel momento usato. Abbandonato lo stabilimento, gli operai si recarono in massa alla Camera del Lavoro, incontrandosi con Catello Langella e chiedere lumi sul modo di condurre quella improvvisa vertenza. Secondo una ricostruzione del commissariato di pubblica sicurezza, riportato dal Bollettino del Ministero del lavoro, il sindacalista aveva sconsigliato di aprire questa vertenza, ritenendo non ci fossero le condizioni per vincere, mentre la lega dei falegnami aveva un’opinione diversa e volle comunque affrontare lo scontro che si preannunciava durissimo. Di certo Langella raccomandò di mantenere la calma, di muoversi nel rispetto delle leggi e da subito propose la nomina di una commissione operaia che si recasse dal sottoprefetto Peri per comunicargli quanto stava accedendo e chiedere una sua mediazione “per un pronto componimento della vertenza.”. La sera stessa l’azienda fece sapere, attraverso alcuni capisquadra recatosi alla Camera del Lavoro, di essere disponibile a ritoccare le tariffe di cottimo. Intanto le altre leghe presenti all’interno dello stabilimento americano comunicarono al direttore della società di non fare uso dei crumiri altrimenti sarebbero scesi in lotta anche loro. Il 30 novembre una commissione delle diverse categorie operaie composta da fabbri, pittori e congegnatori si recò in direzione per avere chiarimenti sulle intenzioni aziendali ma il direttore generale, pur nella massima cordialità e cortesia, fu inflessibile: “Non vogliamo trattare con l’organizzazione, né con il Sottoprefetto. Ogni operaio si presenti alla porta dello stabilimento e noi decideremo chi deve entrare e chi no.”. La risposta sembrava fatta apposta per esasperare gli animi dei lavoratori, provocando in questo modo la naturale reazione di tutti gli operai, anche di quelli che ancora non avevano aderito alla lotta, e fu sciopero generale. Usciti tutti insieme dallo stabilimento gli operai improvvisarono una dimostrazione e in corteo, cantando l’inno dei lavoratori, percorsero la strada, l’attuale Via De Gasperi, fino alla sede della Camera del Lavoro. All’altezza della Ferrovia dello Stato trovarono ad attenderli pattuglie di carabinieri con l’ordine di sciogliere quel corteo non autorizzato. Il corteo sbandò, ma raggiunse ugualmente la sede camerale dove ad attenderlo trovò gli altri compagni falegnami ormai in sciopero da tre giorni e Catello Langella. Ancora una volta il Segretario invitò tutti a mantenere i nervi saldi, ad usare sempre e comunque soltanto mezzi legali per vincere la loro battaglia e diede appuntamento a tutti per quella stessa sera per partecipare al comizio con Rodolfo Rispoli. Nel frattempo le adiacenze della Camera del Lavoro si popolarono non soltanto di scioperanti ma anche di carabinieri e agenti di pubblica sicurezza giunti a rinforzare le forze dell’ordine locali, mentre il direttore generale dell’American Car And Fondry Company, mister Confield, accompagnato dal suo vice, partiva alla volta di Vienna decidendo di chiudere le officine fino a nuovo ordine.
S’infittirono le riunioni alla Camera del Lavoro, con Catello Langella mai stanco di esortare gli scioperanti a mantenere la calma e a non raccogliere l’ultima provocazione fatta circolare dall’azienda secondo la quale “.i padroni sono ricchi di parecchi milioni e non avrebbero curato di sciuparne due o tre per questa agitazione..”. A creare ulteriore nervosismo ci pensarono anche i sempre più numerosi poliziotti e carabinieri “vestiti da gente per bene”, i quali sorvegliavano intorno allo stabilimento ormai vuoto e quando alcuni di questi si fecero riconoscere proibendo agli operai di portare con se qualunque tipo di bastone, uno scioperante, Luigi Paolino, addetto ad una squadra di vigilanza, reagì facendosi arrestare. Dieci operai subito approfittarono dello sbandamento causato dall’arresto del loro compagno per riprendere servizio, provocando così il primo tradimento. Catello Langella si reco innanzi tutto in commissariato richiedendo la liberazione dell’operaio incarcerato, cosa che avvenne non senza fargli prima passare una notte in cella e poi per evitare ulteriori incidenti, quella stessa sera del 2 dicembre convocò un’assemblea degli scioperanti in Camera del Lavoro, facendo approvare alla fine un ordine del giorno “.. col quale si dava ampia facoltà di presentarsi allo stabilimento a coloro che intendevano riprendere il lavoro, declinando nel contempo ogni responsabilità per quelli che sarebbero stati fatti segno a rappresaglia da parte della società.”
Con l’approvazione di questo ordine del giorno, azienda e autorità pensarono immediatamente di essere alla vigilia della fine di quello sciopero, in realtà soltanto 20 sui 360 dipendenti, si presentarono ai cancelli, tutti manovali. Pensando di essere comunque ormai prossimi alla vittoria, la direzione aziendale decise allora di inasprire la vertenza licenziando venti operai per ritorsione e tentando, con questa mossa, di dividere ulteriormente il fronte di lotta. L’ennesima assemblea in Camera del Lavoro, la sera del quattro dicembre, provocò invece un più forte ricompattamento e “.. dopo una discussione abbastanza lunga e vivace si è deliberato di resistere ad oltranza fino a quando non sarà deciso dal direttore, mister Confield, di mantenere in vigore la tariffa ad ora.”
Erano ormai sette giorni da quando avevano incrociato le braccia, una lotta che sembrava farsi ogni giorno più dura, da qui la necessità di sostenerla economicamente. Da un fondo appositamente creato attraverso un autofinanziamento arrivarono ad utilizzare fino a 200 lire, quando la direzione dell’officina American Cav si dichiarò improvvisamente disponibile a modificare le tariffe di cottimo proposte all’inizio e causa di quella prima settimana di sciopero. Vediamo quanto era pagato prima il cottimo per completare la cassa del carro e la percentuale d’aumento strappato dai lavoratori:
Tariffe
Non soltanto, quindi, gli operai ottennero tutto quanto avevano richiesto nel memoriale da loro presentato e cessando a queste condizioni lo sciopero quello stesso 4 dicembre, ma ottennero anche di far rientrare i compagni, ingiustamente licenziati per rappresaglia durante la vertenza. La Camera del Lavoro poteva ora vantarsi della sua prima vittoria nonostante non avesse creduto inizialmente di sostenere le contro richieste avanzate dai lavoratori, dimostrando di non credere nella bontà della vertenza, nella forza degli operai e della Lega che li guidava, o, più semplicemente, non capì. Già questo doveva rappresentare un primo campanello d’allarme per quanti avevano a cuore il futuro della Camera del lavoro. Con la sua sottovalutazione, il neo Segretario Generale dimostrò – come più e meglio vedremo anche nelle due vertenze dei gasisti – se non la sua incapacità, il pressappochismo con il quale si era messo alla testa di un’organizzazione che andava ben altrimenti diretta e per la quale era necessaria un’esperienza già maturata nella direzione delle lotte operaie. Una inesperienza che probabilmente fu una delle concause principali della fine ingloriosa di questa prima Camera del Lavoro stabiese e dell’emigrazione per l’Australia di Catello Langella. Alcuni mesi dopo la fine della vertenza, nella primavera del 1908, per cause a noi sconosciute, gli americani abbandonarono improvvisamente lo stabilimento e due anni dopo, la vasta proprietà già occupata dall’American Car Fondry & C., fu rilevata da Catello Coppola facendovi costruire dei capannoni, impiantandovi nuove officine e ingrandendo in questo modo i suoi impianti industriali.
Quanto miope fosse la nascente Camera del Lavoro, e destinata per questo a durare poco, non era, però, probabilmente, ancora chiaro a nessuno dei protagonisti di queste vicende, né tanto meno ai benpensanti locali. Da un lato i socialisti cantavano vittoria e attaccavano il commissario di pubblica sicurezza, Tranfo, per i suoi continui arbitrii durante gli scioperi, tesi a provocare inevitabili reazioni per giustificare i successivi eventuali arresti e polemizzavano con lo stesso Sottoprefetto Peri accusandolo di ripetere ossessivamente, a quanti glielo chiedevano, la sua ferrea volontà di far scomparire ad ogni costo quella Camera del Lavoro. Dall’altra parte, i benpensanti vedevano una forte sezione socialista e una nascente organizzazione economica, causa prima di quell’improvvisa conflittualità che agitava la classe lavoratrice in quell’autunno caldo ante litteram. Una spirale rivendicativa che andava allargandosi sempre di più con tutte le conseguenze sul piano sociale ed economico, sufficienti ad agitare le notti insonni della borghesia stabiese.
Campione della borghesia moderata e del pensiero reazionario era in quegli anni, l’editore e giornalista Edoardo Scarfoglio (1860 – 1917), fondatore, proprietario e direttore de Il Mattino dal 1892. Attraverso lo pseudonimo di Tartarin, il giornalista d’origine abruzzese, da anni attaccava il socialismo e le sue organizzazioni, sfoderando tutto il suo odio contro il movimento operaio con articoli dal sapore razzistico come quello pubblicato, per esempio, il 27 gennaio 1904: “… Sicché mentre nel Nord l’agitazione per l’aumento dei salari ha sempre un carattere d’equità perché è stato reclamato come legittimo compenso ad un maggiore e migliore prodotto, da noi non è se non una manifestazione puramente camorristica. I nostri operai pretendono di essere meglio pagati, non perché producono di più, ma perché organizzandosi e associandosi si sentono più forti…”. Con questi maestri potevano non rimanere turbati quanti, borghesi ed ecclesiastici, rappresentanti di così larga parte della società stabiese, nella quiete provincia erano disturbati, ormai da troppe settimane, da scioperi e conflitti e con la pretesa di rivendicare, secondo loro, diritti inesistenti? Non bastava forse la piena occupazione ?! Da mesi le statistiche raccontavano di come a Castellammare di Stabia la disoccupazione fosse inesistente al punto da denunciare addirittura una scarsità di manodopera, di come il forte sviluppo industriale sottraesse preziose braccia all’agricoltura. Da un lato l’emigrazione, in particolare da Lettere e Gragnano e dall’altra officine, stabilimenti e industrie stavano spopolando le pur ricche e fertili terre di quell’area.
Così contro le orde barbariche, non ancora bolsceviche, si scagliò un nuovo giornale locale, il quindicinale clericale, L’Aurora, giornale politico amministrativo del circondario di Castellammare uscito con una certa discontinuità almeno fino al 1911, sempre diretto da Antonio Carnevale, affiancandosi egregiamente all’organo ufficiale del partito di Alfonso Fusco, La Verità, nella sua continua campagna contro il pericolo rosso rappresentato dai sovversivi socialisti. Il nuovo periodico cattolico, nel suo numero straordinario del 1° dicembre 1907, pubblicato in occasione della traslazione delle ossa, dal cimitero nella cattedrale Stabiana, di Monsignor Francesco Saverio Petagna (1812 – 1878), già Vescovo della diocesi di Castellammare, affermava perentorio: “… Non sono ancora trascorsi molti giorni dacché si è aperta la Camera del Lavoro e già si è verificato lo sciopero degli operai carrozzieri, degli operai dell’officina americana e tra pochi minuti scoppierà lo sciopero dei gasisti. Per ora non vogliamo entrare nel merito, ma abbiamo voluto fare un po’ di statistica…” Naturalmente i responsabili di questo sfascio sociale, del disordine pubblico imperante, di questa smania di pretendere diritti, erano i socialisti, i quali volevano colpire al cuore la nazione, gettando il seme della violenza, di cui gli scioperi erano un frutto perverso, rei di provocare gravi dissesti finanziari nelle casse dello stato e, cosa ancora più grave, nelle tasche dei borghesi.
Mentre la lotta di classe assumeva per qualcuno il volto dell’apocalisse, facendo preannunciare chissà quali cataclismi sociali se non si poneva un freno immediato alle eccessive pretese operaie, questi ultimi, probabilmente, neanche sapevano d’essere responsabili di tali catastrofi, e continuavano, quindi, non a fantasticare chi sa quale stato sociale, ma più semplicemente a difendersi da uno sfruttamento che li obbligava a lavorare per 12/14 ore il giorno, per pochi centesimi, appena sufficienti a garantire solo una mera sopravvivenza e a soddisfare esclusivamente, a malapena, i bisogni primari. Intanto, come aveva già preannunciato l’articolista de l’Aurora, in seguito ad una serie di miglioramenti salariali e a migliori condizioni di lavoro strappati dai lavoratori di Napoli della Compagnia napoletana per l’illuminazione e il riscaldamento a gas, anche i gasisti e gli accenditori di Castellammare di Stabia e di Gragnano, dipendenti della stessa Compagnia, si apprestavano ad entrare in agitazione per ottenere gli stessi trattamenti riconosciuti ai loro colleghi napoletani.
3. Lo sciopero dei gasisti
La Compagnia Napoletana d’illuminazione e scaldamento col gas aveva inaugurato la sua gestione a Castellammare il 2 aprile del 1866, festeggiando l’evento con una grandiosa festa di ballo che attirò una folla straordinaria dall’intero circondario, anche se questo era ad invito e con un pranzo cui furono invitati tutte le autorità locali. Il contratto era stato sottoscritto il 12 luglio 1865 con una durata di 60 anni, successivamente regolarmente rinnovato. Gli operai per 40 anni non avevano mai creato problemi, né avrebbero potuto, ma a tutto c’è una fine come un inizio. La fine della pace sociale, l’inizio di un risveglio di classe in quell’anno 1907.
I gasisti stabiesi, costituiti in Lega di miglioramento e organizzati nella Camera del Lavoro, avevano chiesto allo stesso Catello Langella di preparare il memoriale in cui si rivendicavano gli identici miglioramenti concessi ai gasisti di Napoli. Il Consiglio d’Amministrazione della Compagnia, una volta ricevute le richieste, si disse disponibile a concedere, seppure parzialmente, gli aumenti già concordati nel capoluogo campano. Questo provocò, però, la reazione negativa di una parte degli operai non disponibili a sentire parlare di accordi a metà, pronti ad entrare in sciopero e a resistere fino a quando non avessero ottenuto tutto quanto avevano richiesto, mentre la maggioranza dei 37 dipendenti si dichiarò, invece disponibile ad accettare da subito quanto era loro offerto. Alla fine, dopo una tumultuosa assemblea, tutti convennero per lo sciopero ma – stando ad una prima versione dei fatti così come raccontati dalla stampa moderata e dal commissariato di polizia – l’immediato intervento delle autorità di pubblica sicurezza, pronta a sostituire gli scioperanti con fuochisti e macchinisti del dipartimento marittimo, fece sì che la sera del 30 novembre, giorno per il quale era stato proclamata l’astensione dal lavoro, a Castellammare e a Gragnano, le strade s’illuminassero ugualmente e la distribuzione del gas ai privati fosse fatta senza grossi inconvenienti per gli utenti. Per cui, per le limitate dimensioni del servizio e per la stessa scarsa capacità di resistenza degli operai, non compatti tra loro, agli scioperanti non restò altro che affidarsi alla mediazione del Sottoprefetto. La sera stessa di quel 30 novembre, visti i provvedimenti adottati per assicurare la continuità del servizio pubblico, una Commissione di operai, già decisa a desistere da ogni ulteriore proposito di resistenza, si era rivolta a Vittorio Peri chiedendone l’autorevole e risolutore intervento.
Vittorio Peri, abilissimo funzionario, aveva già dimostrato in altre spinose vertenze la sua grande capacità di mediazione. Volendo, avrebbe potuto dare una risposta agli scioperanti quella sera stessa, ma preferì lasciarli nell’incertezza ancora per qualche giorno, per fare meglio risaltare la sconfitta di una Camera del Lavoro che aveva reso incandescente, pur senza grandi meriti personali del suo massimo dirigente, quel novembre 1907. Era quindi opportuno ridimensionarla, per evitare la crescita di un prestigio molto pericoloso per l’ordine pubblico ed evitando in questo modo ben altri potenziali successivi guai. Cosicché una vertenza iniziata con grandi entusiasmi e con tanta fiducia, per rivendicare la pari dignità con i compagni napoletani, si risolse infine con l’accettazione della proposta aziendale, leggermente migliorata dall’intervento del funzionario governativo, in modo tale da essere questo il nuovo regolamento accettato dalle parti:
– L’orario di lavoro, sia invernale sia estivo, restò fissato dalle 7 alle 17, compresa la mezz’ ora di colazione.
– In caso di malattia l’operaio avrebbe perduto solo il quinto della paga giornaliera.
– Al personale fu concessa una franchigia di sei giorni l’anno.
Agli accenditori di Gragnano furono estesi gli stessi benefici dati a quelli di Castellammare. Tutto ciò oltre ad un aumento di salario che, dopo lo sciopero, differì di pochi centesimi da quello del personale dislocato a Napoli. Contro questa versione dei fatti, così come l’abbiamo raccontata e in parte ripresa dal Mattino, si levò la protesta della sezione socialista nella sua corrispondenza al quotidiano nazionale dei socialisti del 4 dicembre: “..Non possiamo chiudere la presente senza protestare contro il locale corrispondente del giornale di Vico Rotto, il quale nelle sue telefonate, ha creduto di far trasparire che la vittoria dei gassisti era dovuta alla remissività di costoro verso le locali autorità. Sappia il suddetto signore che i gassisti non si recarono a supplicare nessuna autorità. Invitati accettarono la coadiuvazione del Sotto Prefetto Peri per il componimento della vertenza; poiché reputarono essere scortesia rifiutare l’intervento di chi gentilmente offriva la sua opera. E’ inutile: quale giornale, tale corrispondente!”
I gasisti di Castellammare di Stabia e di Gragnano avevano da poco ottenuto gli aumenti salariali e gli altri miglioramenti quando a Napoli, nei primi giorni del gennaio 1908, i 300 operai della Compagnia iscritti alla Camera del Lavoro, su 490 dipendenti, si riunirono presso i locali della Borsa, sotto la direzione del Segretario Eugenio Guarino (1875 – 1938), per preparare un memoriale rivendicante nuovi miglioramenti economici. Alla risposta negativa dell’azienda, il 18 gennaio gli operai risposero incrociando le braccia. Stavolta il tentativo della prefettura di ripetere l’operazione, brillantemente riuscita a Castellammare, di sostituire gli scioperanti con i militari del dipartimento marittimo, s’infranse contro l’ondata di scioperi di solidarietà delle altre categorie. Così il 30 gennaio la Compagnia Napoletana del Gas si vide costretta a piegarsi alle richieste dei suoi dipendenti, che ripresero in tal modo immediatamente servizio il 31 di quello stesso mese.
Intanto appena proclamato lo sciopero a Napoli, l’arguto Sottoprefetto di Castellammare, si era premunito immediatamente di scrivere al Regio Commissario Straordinario, Vittorio Colli: “Informiamo V.S. che probabilmente i gasisti di questa città, per solidarietà con quelli di Napoli, proclameranno lo sciopero che potrebbe effettuarsi anche da questa sera. Riservandomi ulteriori notizie, La prego intanto di voler disporre perché, ove effettivamente si verifichi lo sciopero, possano i fontanieri municipali sostituire gli accenditori.” Quattro giorni dopo la proclamazione dello sciopero, da parte dei gasisti napoletani, così come previsto dall’astuto funzionario prefettizio, anche i 37 operai di Castellammare e di Gragnano entrarono in agitazione reclamando gli stessi miglioramenti chiesti dai loro compagni della lega napoletana. Memori della bruciante sconfitta – secondo la versione fornita nel rapporto del delegato alla pubblica sicurezza – subita due mesi prima e consapevoli che ben altra forza e storia possedeva l’organizzazione sindacale del capoluogo campano, vollero non da meno far sentire la loro presenza, decidendo di portare la loro solidarietà ai compagni in lotta. Proclamato lo sciopero, la mattina del 22 si riunirono nella Camera del lavoro e dopo una breve assemblea con Catello langella in 35 presero il treno delle 11,15 per recarsi nella città partenopea. Attesi, furono accolti fra l’entusiasmo e i vivissimi applausi degli scioperanti, fraternizzando e scambiandosi le reciproche esperienze. Vi tornarono anche il giorno dopo, sostituiti nel loro lavoro dai pompieri del regio cantiere. Ripetendo un copione già visto, ancora una volta la Compagnia Napoletana del Gas usò nei confronti della debole lega di Castellammare e Gragnano, l’arma del licenziamento se non avessero ripreso immediatamente servizio. In assemblea decisero di non cedere e di continuare nello sciopero ma nel frattempo l’azienda non rimaneva con le mani in mano e cominciò ad arruolare operai avventizi. Il fatto preoccupò non poco gli accenditori al punto da decidere di rientrare in servizio la sera del 27, seguiti dai fuochisti il giorno dopo. La resa senza condizioni non fu però indolore perché furono riammessi soltanto come nuovi assunti. “..Così lo sciopero è finito e devesi al Sottoprefetto Peri e al gerente di questo gassometro, cav. Coppola di Canzano, se nonostante lo sciopero, l’illuminazione della città non è per un solo momento venuto a mancare”, scriveva Il Mattino nella sua cronaca del 28 gennaio.
Il Sottoprefetto, ancora una volta, non aveva esitato a far sostituire gli scioperanti con 8 fuochisti della Regia Marina, oltre agli operai messi a disposizione dal Regio Commissario, vanificando così la lotta. E né a Castellammare, né a Gragnano c’era la forza, o l’autorevolezza necessaria da parte della Camera del Lavoro, di proclamare un qualsiasi sciopero di solidarietà da parte delle altre categorie. Così come nulla era accaduto quando tutti gli operai si ritrovarono la lettera di licenziamento per rappresaglia al loro eccesso di protagonismo di quegli ultimi giorni. In realtà il licenziamento voleva essere soltanto un monito a rientrare nelle righe, a togliersi ogni ulteriore grillo dalla testa, a non inseguire le follie di un socialista come Catello Langella, ritenuto estremamente pericoloso per l’ordine pubblico. E quando la vittoria si trasformò in aperta umiliazione degli sconfitti, il gerente dell’officina della Compagnia del gas poteva tranquillamente scrivere, il 28 gennaio, a Vittorio Colli:
Ci onoriamo informare la S.V. che tutti gli operai di questa officina del gas, già licenziati, sono stati assunti oggi in servizio quale nuovo personale, dopo aver firmato singolarmente dei fogli di arruolamento, di cui rimettiamo copia. Non pertanto – durando tuttavia il movimento del personale di Napoli – abbiamo creduto di tenere a nostra disposizione parte del personale avventizio, preghiamo V.S. Ill.ma voler disporre che per qualche giorno ancora i fontanieri municipali si rechino al Municipio all’ora consueta, ove il nostro Ispettore li porrà in libertà appena avvenuta al Porto centrale regolarmente la presentazione degli accenditori.
Non sappiamo se fu in particolare questa sconfitta a fare da detonatore all’implosione dell’organizzazione economica, ma di certo fu determinante nell’aprire una crisi il cui sbocco inevitabile fu il crollo improvviso e senza appello di una Camere del Lavoro nata tra mille speranze di riscossa della classe operaia finalmente organizzatosi e morta invece senza gloria alcuna, dopo appena pochi segni di vita.
4. Le elezioni amministrative del 1° marzo 1908, La fine della Camera del Lavoro e la partenza per l’Australia di Catello Langella
Ancora uno sciopero senza storia da parte di un gruppo di mugnai del molino a cilindro e pastificio di Francesco Paolo Ruocco nel freddo febbraio di quell’umiliante 1908. Un opificio unico nel suo genere per la modernizzazione degli impianti. A Castellammare era stato il padre di Francesco Paolo, Raffaele il primo a costruire un molino, “uomo di singolare attività e di iniziative geniali”. Alla morte del genitore, il figlio trasformò il vecchio stabilimento in un molino a cilindro con pastificio e molitura di zolfo con tutti gli ordigni ed i sistemi suggeriti dall’industria moderna. Realizzato in uno stabilimento di tre piani e occupando un’area di 2500 mq, il pastificio lavorava a ciclo continuo, giorno e notte producendo oltre cento quintali di pasta il giorno e non aveva nulla da invidiare alle più rinomate industrie di Torre Annunziata e Gragnano. Il molino non era da meno con i suoi quindici cilindri in continua attività e in grado di produrre 500 quintali di farina il giorno. Il che – scriveva Il Mattino il 18 settembre 1913 – fa dello stabilimento Rocco uno dei più produttivi che il nostro Mezzogiorno possa vantare. Tutto questo non aveva però impedito agli operai di chiedere un aumento di salario. Il proprietario non li ritenne degni di una risposta e aveva ragione, visto come gli stessi promotori, dopo qualche giorno abbandonarono il pastificio occupandosi altrove, ma aggravando con ciò la crisi senza ritorno della Camera del Lavoro e del suo Segretario Generale. Furono probabilmente le amarezze dettate dalle negative conclusioni delle diverse vertenze a determinare la crisi senza ritorno della Camera del Lavoro e dello stesso Catello Langella ma sicuramente non è neanche da considerare secondaria la pesante sconfitta subita dai socialisti e dal Comitato dei partiti popolari nelle elezioni amministrative del 1° marzo 1908 a far precipitare una crisi già latente nell’aria. Il 13 gennaio nulla ancora lasciava presagire quanto stava per accadere, mentre i partiti popolari convocavano un’adunanza delle loro forze per stabilire la linea di condotta da tenere nelle ormai prossime elezioni. “La decisione – scriveva il Roma del 17 gennaio – è stata semplicemente eroica: ossia non far lega con nessuno; indire un programma e prospettarlo agli uomini di buona volontà.” Ma dovevano essere ben pochi gli uomini di buona volontà a Castellammare e molti tra questi forse dovettero credere alle motivazioni del Ministero dell’Interno pubblicate nel decreto di scioglimento del governo locale e secondo le quali la cattiva amministrazione dimostrata e l’essere la maggioranza e l’opposizione quasi in numero eguale dovevano considerarsi motivi sufficienti per mandare a casa sindaco e consiglieri comunali. Il ricorso presentato da Antonino Del Gaudio alla IV Sezione del Consiglio di Stato sostenendo che “solo per tassative violazioni di obblighi imposti dalla legge può sciogliersi un Consiglio comunale e non per cattiva amministrazione come sostenuto dal governo” fu rigettato dal ministero ritenendo “insindacabili la valutazione dei fatti addebitati e che nella sussistenza di questi fatti è legittimo lo scioglimento.”
Il Regio commissario aveva già fatto affiggere i manifesti di convocazione dei comizi per il 23 febbraio quando il vescovo, vero regista di queste elezioni, chiese e ottenne dal Sottoprefetto di rinviare le elezioni al 1° marzo. Era ancora vivo il ricordo della recente amministrazione di Centro sinistra con la sua politica eccessivamente laica per i gusti della chiesa e troppo grande era la paura per quella Camera del Lavoro guidata dai socialisti, con tutti quegli scioperi che alimentavano lo spirito di protesta della classe operaia e l’allontanavano dagli insegnamenti di sottomissione e di cristiana rassegnazione, tanto cari alla religione cattolica e così utili alla borghesia imprenditrice. Il vescovo Michele De Jorio (1845-1922), reggente della chiesa stabiese dal 1898, aveva bisogno di più tempo per organizzarsi la sua personale campagna elettorale. Ma il momento ormai era prossimo e così furono utilizzati tutti i seminaristi disponibili, trasformati in tanti galoppini elettorali mentre i preti furono inviati nelle frazioni elettorali a presiedere i seggi. Per evitare inutili perdite di tempo furono anche sospese le messe dalle 8 alle 10 e si videro perfino dei preti nella formazione dei seggi provvisori. Il giorno delle votazioni i preti fisicamente impossibilitati furono condotti a braccia, altri che non uscivano di casa da anni furono adagiati in carrozzella e portati a votare. Ciononostante la speranza della vittoria fino all’ultimo non abbandonò i socialisti e i loro abituali alleati democratici e più di uno si lasciò andare a facili entusiastici pronostici, ma quando si cominciarono a scrutinare le schede ci si rese quasi immediatamente conto di come la realtà fosse profondamente diversa da quella preventivata: la lista democratica cominciava ad imbarcare acqua da tutte le parti e presto fu il naufragio più completo. Tra le vittime più illustri della catastrofica sconfitta ci fu Antonio Vanacore rimasto fuori dal consiglio comunale, nonostante le sue 772 preferenze, dopo quasi venti anni di ininterrotta presenza nel consiglio comunale dove aveva rivestito numerose volte anche la carica di assessore.
La sera del 10 marzo, alla vigilia della convocazione del rinnovato consiglio comunale, il vescovo, quasi a voler certificare l’origine e la causa della vittoria dei clerico moderati, convocò a casa sua i 32 consiglieri della maggioranza neo eletti per designare nel giovane Ernesto Fusco il nuovo sindaco. La sera dopo ad aprire il novello consiglio comunale, alla presenza di un gremito pubblico venuto a riempire le tribune per applaudire ognuno i suoi beniamini, fu il consigliere anziano, l’avvocato Giuseppe Starace dall’alto dei suoi 1087 voti di preferenza. Il tempo dell’appello nominale e poi la parola passò al Regio Commissario. Vittorio Colli lesse la sua lunga relazione di 49 pagine facendo il punto sui suoi sei mesi d’amministrazione straordinaria, dando conto del programma svolto e delle cose ancora da fare e infine, in nome di sua maestà il re, proclamò ricostituito il nuovo consiglio comunale. Assente in segno di protesta gli otto dell’opposizione.
Ad uscire particolarmente sconfitti da questa tornata elettorale furono i socialisti, la cui rappresentanza fu ridotta alla sola presenza di Alfonso De Martino, regredendo al 1903, dopo i fasti della passata consiliatura, quando erano ben cinque i consiglieri comunali eletti. Nella sezione socialista la resa dei conti fu inevitabile, ma questo non comportò vincitori perché l’unico risultato che ne scaturì fu l’ennesima chiusura della sede e la stessa Camera del Lavoro ne rimase travolta. In breve tempo, così come fulmineamente era nata, l’organizzazione sindacale si dissolse nel giro di qualche settimana e lo stesso Catello Langella, forse finalmente consapevole dei suoi limiti, umiliato da quello che doveva considerare una sua sconfitta personale o forse imprecando il destino avverso, meno di un mese dopo, il 30 marzo, ottenuto il passaporto dalla Sottoprefettura, preferì imbarcarsi su di una nave diretta a Melbourne, in Australia, dove viveva una delle sue sorelle. In questo continente vi rimarrà alcuni anni, non sappiamo quanti, ma da una nota della Sottoprefettura, in data undici gennaio 1911, risulta trovarsi, in quell’anno, ancora nel paese dei canguri.
Cosa fece in Australia non è dato sapere, ma ancora una volta, in mancanza di maggiori e più dettagliate informazioni, ci viene in soccorso Raffaele Cirelli con un divertente aneddoto:
Del suo esilio in Australia il Maestro mi raccontava un episodio che per poco non gli costava l’arresto e l’estradizione. Una sera, mentre assiste ad una proiezione cinematografica, appaiono sullo schermo gli esterni del film girato nel golfo di Napoli, con Capri, Ischia, Sorrento, il Vesuvio, Ravello, Postano, Amalfi e, infine, Castellammare di Stabia col suo mare, le sue colline e i suoi monti. Tutto preso da sano entusiasmo nei ricordi della sua adolescenza e giovinezza, spontaneo gli esce il grido: Viva l’Italia! Viva Castellammare! Gli spettatori credono di essere in presenza di un esaltato e la polizia lo obbliga ad andare fuori della sala. La sera successiva egli vi torna per riammirare la sua terra, giurando a se stesso di non lasciarsi vincere dall’emozione; ma ugualmente non riesce a contenersi ed è nuovamente espulso.”
Due ulteriori notizie sull’ex sindacalista c’è la offrono, la prima, il quindicinale cattolico L’Aurora, quando nel suo numero 12 del 25 settembre 1910, in una breve nota informava di aver ricevuto una lettera dal professore emigrato a Melbourne da dove teneva a far sapere ai suoi lontani concittadini di un certo marchese Le Bonanate, il quale, “giovane di grande ardimento, ha intrapreso per sport il giro del mondo senza il becco di un quattrino e che nei suoi viaggi visiterà anche la nostra città di Castellammare”; la seconda un anonimo ottuagenario sul Risveglio del 31 maggio 1947, all’indomani della sua morte, quando ripercorrendo brevemente alcune caratteristiche dell’amico scomparso ricorderà un episodio del periodo australiano
Ritornò a Castellammare dopo una parentesi di soggiorno in Australia dove superfluo dirlo, apprese perfettamente la lingua inglese mediante la quale nel recente periodo degli alleati, rese infiniti servizi alla cittadinanza. Era andato a trovare dei parenti emigrati e raccontava con grande soddisfazione come avendo la famosa attrice teatrale lirica, la Melba , manifestata la nostalgia di un piatto di maccheroni napoletani, lo preparasse egli stesso con infinito compiacimento della cantante..
5. l’anticlericale Achille Gaeta
Mentre il mancato sindacalista scappava oltre oceano, in cerca di una migliore e più facile fortuna, rimaneva a Castellammare, a tenere alta la bandiera del movimento operaio, un altro socialista, Raffaele Gaeta, come abbiamo già avuto modo di vedere, uno dei primi socialisti stabiesi, tra i promotori della costituzione della prima sezione socialista nell’estate del 1900, dopo lo sbandamento seguito alle repressioni del maggio 1898, con la chiusura di tutti i circoli sovversivi, o in ogni modo considerati tali. Questo avvocato, nato a Castellammare di Stabia il 29 aprile 1861, si era avvicinato al socialismo relativamente tardi: giovane firmatario nel Comitato a favore di una lapide per commemorare Giuseppe Garibaldi all’indomani stesso della sua scomparsa nel giugno 1882, lo troviamo in seguito candidato nelle elezioni amministrative del 31 luglio 1892, nella Lista Unitaria Liberale, il cui capo riconosciuto era Catello Fusco – ma già erano emersi i suoi eredi, i terribili quattro nipoti, figli di suo fratello Casimiro: Ludovico, Alfonso, Nicola ed Ernesto – e dove fu eletto con 431 voti. Non vi rimase a lungo: il 23 novembre 1893 lasciò la carica pubblica per partecipare alla nomina municipale di due avvocati aggiunti nell’ufficio contenziosi, carica questa incompatibile con l’altra di consigliere comunale. Con lui si dimise anche un altro consigliere, l’avvocato Vincenzo Donnarumma. Il terzo partecipante era l’avvocato Raffaele Palladino. Lo scrutinio tra i consiglieri comunali elettori non fu però favorevole a Gaeta ottenendo soltanto 12 voti contro i 15 di Donnarumma e i 23 di Palladino. E i posti vacanti erano soltanto due.
Ritornerà consigliere comunale nel 1906, pur tra le incomprensioni e le critiche di una parte dei compagni non più disponibili a correre in una competizione elettorale sotto una bandiera che non fosse espressamente quella del socialismo. Assessore nella Giunta del sindaco Tommaso Olivieri, tentò in ogni caso di portare avanti un programma tendente a coniugare giustizia sociale, trasparenza politica, onestà d’intenti e rispetto della cosa pubblica. Quando si rese conto di quanto impari fosse questa sfida per le troppe incompatibilità tra le diverse forze alleate, ne prese semplicemente atto e diede le sue dimissioni da assessore. Pur se tra incertezze e compromessi, Raffaele Gaeta era da molti anni, dal 1900 almeno, ma probabilmente passò pure attraverso una breve esperienza repubblicana, forse all’indomani dei moti del 1898 – protagonista d’ogni battaglia d’emancipazione, sempre presente in tutte le iniziative politiche e sindacali dell’ultimo decennio e direttore nel 1903 del primo giornale socialista di Castellammare, Lotta Civile. Protagonista di primo piano, la sua passione politica, e quella dei compagni di lotta, si scontrava con una realtà sostanzialmente arretrata in una città dove, nonostante la forte presenza di una classe operaia omogenea, distribuita in numerose fabbriche, da quelle metallurgiche all’arte bianca, dalla lavorazione del legno al settore conciario, fino ai prodotti alimentari e ad un forte tessuto artigianale, raramente organizzata e peggio guidata, in ogni caso capace di far sentire la sua voce e di mobilitarsi quando questo si rendeva necessario, rimaneva essenzialmente bigotta, incapace di impegnarsi politicamente e di esprimere una sua reale rappresentanza nelle istituzioni locali e parlamentari.
L’apparato industriale di Castellammare poteva dirsi veramente imponente rappresentato com’era da quella dell’antico e prestigioso Regio Cantiere navale (1783), più altri quattro cantieri privati di costruzioni di navi in legno, di cui tre nella zona a nord della città, nei pressi del fiume Sarno e un Cantiere mercantile la cui costruzione a Pozzano risaliva al 1842. Accanto al cantiere s’imponeva la Regia Corderia (1796) seguiti dall’Impresa Industriale di Costruzioni Metalliche, (1870), in seguito Cattori, poi Cantieri Metallurgici Italiani, dall’Opificio Meccanico e Fonderia Catello Coppola fu Antonio (1893), poi AVIS, ma l’impianto risaliva al 1881, quando i Coppola avviarono una modesta fonderia di ghisa e bronzo – dalla Cirio (1887), fino ai quattro molini, ai sei pastifici e alle diverse concerie.
Stando ai numeri del censimento industriale del 1911 a Castellammare c’erano 256 imprese con meno di dieci addetti, 9 ne contavano tra gli 11 e i 25, mentre ben 14 avevano più di 25 dipendenti. Nonostante questi numeri la classe operaia non contava niente, soggiogata da un clero che dominava non soltanto l’aspetto religioso ma anche e soprattutto quello politico esprimendo direttamente suoi rappresentanti o in alleanza con i diversi potentati come da troppi anni era da considerarsi la temibile famiglia dei Fusco. Del resto in una città la cui popolazione non superava i 34mile abitanti, ma dove c’erano ben 28 fra chiese, conventi e cappelle, dove si muovevano centinaia di preti, suore, monaci, cappuccini, carmelitani, domenicani, francescani, gesuiti ed altri ancora in una miscela esplosiva che lasciava poco o nulla di spazio a chiunque non si riconosceva in questa religiosità così onnicomprensiva e così presente nella vita quotidiana della popolazione stabiese, la vita per chi aveva abbracciata una militanza come quella socialista non poteva non essere irta d’ostacoli, senza tenere conto della repressione quotidiana operata dalla forza pubblica, al servizio incondizionato della borghesia, salvo rare eccezioni, sempre pronta ad intervenire anche nelle più pacifiche manifestazioni, purché indette dalla sinistra, sciogliendo comizi, operando spesso arresti indiscriminati e intimidendo quanti per curiosità o per simpatia erano presenti.
Quale aria si respirava in quei tempi, quanto pesante fosse il clima d’intolleranza e fino a che punto potesse essere invadente il clericalismo reazionario, non consentendo molti margini di manovra a chi doveva muoversi in una ancor giovane democrazia così fortemente controllata dall’articolata rete di sedi religiose, lo dimostra un nuovo rivelatore episodio, a riprova di come in una città come Castellammare, dove la chiesa era particolarmente presente, in maniera così asfissiante e con un numero così incredibilmente elevato di ecclesiastici e luoghi sacri, il controllo sociale non poteva essere più totale. Non a caso, proprio in questa città era sorta la prima Associazione Cattolica Artistica Operaia di Carità Reciproca del Mezzogiorno, fondata nel 1882 e fortemente voluta dal vescovo Vincenzo Maria Sarnelli, “… per formare cristianamente onesti operai ed a preservare gli stessi dalle dottrine del socialismo…”
Il 27 giugno 1909 doveva venire a Castellammare di Stabia, per tenere una conferenza, l’avvocato socialista, Vittorio Podrecca (1883 – 1959), fratello minore del più famoso Guido (1865 – 1923), campione dell’anticlericalismo, “l’insultatore della Madonna e di Gesù”, e direttore del settimanale satirico socialista più diffuso dell’epoca, L’Asino. La notizia di questo prossimo avvenimento fu più che sufficiente per mettere in subbuglio il campo clericale e questo, a sua volta, condizionare tutti i proprietari dei locali per boicottare i tentativi d’affitto di una sala dove tenere la conferenza. Il sindaco, Ernesto Fusco, il più giovane dei quattro fratelli, sapeva fin troppo bene di quanto gran parte del potere politico detenuto dalla sua famiglia si doveva alla chiesa, così come ricordava perfettamente di essere stato lui stesso designato direttamente dal vescovo in quella ormai famosa ma famigerata riunione tenuta a casa di quest’ultimo, alla presenza dei 32 neo consiglieri comunali, la sera del 10 marzo, alla vigilia dell’insediamento ufficiale, suggellando il patto delle reciproche convenienze. Tutto questo gli era chiaro, ma ciononostante non poté fare a meno di concedere l’uso della sala, un ampio locale solitamente usato per i concerti civici ma spesso utilizzato anche per i comizi e
(…) mille volte concesso ai cattolici per le loro sbrodolature (…) concesso nei periodi elettorali per questo o quell’altro oratorucolo di provenienza esotica ma sempre fuschiano nonché per l’illustre (!) deputato analfabeta del nostro collegio Era giusto che il medesimo locale fosse concesso per una volta almeno al partito socialista..
L’autorizzazione fece andare su tutte le furie il clero e immediatamente, la sera del 12 giugno, una folta delegazione di preti, “una cinquantina di bacherozzi”, come li definì il cronista dell’Avanti nel suo resoconto del 17 giugno, si recò allora dall’incauto sindaco, non potendo immaginando, quando aveva concesso la sala comunale ai socialisti, di essere un amministratore a sovranità limitata. Senza perifrasi la delegazione chiese l’immediata revoca della concessione della sala fatta ai giovani diavoli rossi. Inaspettatamente trovarono una inusuale resistenza da parte del primo cittadino indisponibile ad accontentarli, anche quando questi minacciarono di togliere l’appoggio dei cattolici alla sua amministrazione, ricordandogli senza reticenze che doveva unicamente ai loro voti se si trovava in quel posto. Inutilmente il sindaco si difese ricordando la difficoltà oggettiva di rifiutare ad altri ciò che da sempre era concesso a loro. Ma di fronte all’insistenza dei preti, perse la pazienza e in un impeto d’orgoglio minacciò: “Piuttosto darò le dimissioni”, dimenticando, forse solo per un momento, quanto poco questo importasse al clero.
Venendo meno le minacce politiche, alla nutrita commissione di preti non restò che usare l’arma più potente della chiesa: l’anatema. Forse il povero Ernesto Fusco sbiancò in volto, forse cercava soltanto una via di scampo per cavarsela dalla parola data a quei giovani socialisti sull’uso della sala e l’anatema poteva essere una giustificazione abbastanza forte per piegarsi senza perdere la faccia, resta il fatto che a questa ulteriore minaccia subitaneamente si piegò, ricevendo in premio l’applauso di quello “ sciame nero” sempre più infittitosi fino a raggiungere una cinquantina d’unità. Mentre tutto questo avveniva, attirati dalla curiosità di quell’improvvisa invasione di tuniche nere guidate da “un noto sacrestano, nemico acerrimo del ciarpame socialista”, un gruppo di giovani del locale circolo socialista si recò anch’esso in municipio, ma tanto bastò, quando i due gruppi s’incontrarono, per scatenare una furibonda rissa. Seconda la versione data da uno degli stessi protagonisti, la responsabilità dell’accaduto era unicamente “.. dei preti (che) con cristiano slancio teppistico, investono di calci e pugni alcuni nostri giovani nel mentre gli altri preti, gongolanti di gioia applaudivano..” Nonostante l’improvvido attacco, la reazione non mancò e nella feroce colluttazione che ne seguì, i prelati ebbero la peggio, trovando scampo soltanto nella fuga precipitosa, mentre nel contempo interveniva la polizia. Seguirono gli arresti di due giovani socialisti, Ugo Colonna e Achille Gaeta (1892-1957).
In cella i due ragazzi, militanti del circolo giovanile socialista, non ci rimasero molto, furono, infatti, rilasciati subito dopo, mentre i dirigenti della sezione del Partito chiedevano l’intervento del Sottoprefetto, per porre fine una volta per tutte a queste provocazioni. La conferenza di Vittorio Podrecca sul tema “Fede e…buona fede” si sarebbe poi tenuta nella locali della fabbrica di Carlo Mignot alla presenza di circa cinquecento cittadini, nonostante alcuni altri tentativi di boicottaggio come quello di lacerare, la sera prima, tutti i manifesti annunzianti la conferenza e di introdurre “nella serratura dell’uscio della fabbrica di Mignot numerosi sassolini per impedire che lo si aprisse..”. L’ultimo tentativo fu fatto quella stessa mattina, in una domenica d’inizio estate, quando in tutte le chiese della città, durante la messa, furono minacciati di scomunica tutti gli stabiesi che avessero partecipato a quella conferenza anticlericale, vista e propagata ai fedeli come una riunione d’anticristi al servizio del Male. A presiedere la conferenza vi era uno dei primissimi socialisti di Castellammare, l’avvocato Luigi Fusco, già militante nei primi anni novanta dell’Ottocento, che ricordò ai presenti, prima di dare la parola all’oratore ufficiale, tutte le manovre messe in atto dai clericali per impedire che si tenesse quella riunione.
In questo contesto, quindi, irto di difficoltà ma anche di positive potenzialità, si muovevano i nostri primi socialisti, tra cui lo stesso Raffaele Gaeta. Pur moderato nelle sue manifestazioni politiche ma mai domo, seppe infondere nei suoi figli, Oscar, Guido e Gaetano (Nino) la sua passione politica e la fede nel socialismo, al punto da riuscire, fin dai primi mesi del 1913 a far parlare di loro nella nuova stagione del movimento operaio stabiese iniziatosi nel nome di Amedeo Bordiga e del suo Circolo rivoluzionario intransigente Carlo Marx.
Raffaele Gaeta lascerà Castellammare il 23 luglio 1935, ormai settantaquattrenne, insieme alla moglie e ai figli Oscar e Nino, trasferendosi a Napoli. Nel 1934 Oscar aveva aderito formalmente al fascismo, per motivi di opportunità, come tanti in quegli anni bui in attesa di riprendere il suo posto dopo il 1943, cosa che farà egregiamente. Nel marzo 1939 Oscar, con Pasquale Pecorelli e Giuseppe Candia, pubblicò un fascicoletto di otto pagine, una sorta di Pro memoria, come loro stessi lo definirono, intitolato “l’autarchia e la bonifica del Pantano di Sessa”. Poi, nel 1940, emigrò a Roma sposandosi con Ines Borsatti e qui morirà il 16 dicembre 1977. Guido, l’antico antimilitarista, si era già trasferito a Milano nel giugno del 1933, manifestando aperta simpatia per il fascismo e di lui si perderà ogni traccia. Anche Nino, l’ultimo dei Gaeta, si trasferirà a Roma dove diventerà un brillante ed illustre avvocato.
6. Le elezioni politiche del 7 marzo 1909 e quelle amministrative parziali del 24 luglio 1910
In quegli anni, alla fine del primo decennio del secolo, incontriamo dunque Raffaele Gaeta partecipare, in una calda, torrida domenica dei primi d’agosto del 1908, ad un Congresso provinciale socialista, dove fu uno dei relatori ufficiali sul tema della propaganda. L’assise si tenne nella sezione PSI di Portici, nell’ennesimo tentativo di ricostituire una Federazione provinciale e vide anche la presenza di altri due giovani stabiesi: Ignazio Esposito e Catello Marano (1884 – 1971). Quest’ultimo, figlio di un operaio panettiere, fu costretto a ricorrere nel 1902 al sussidio municipale per garantirsi un abbonamento ferroviario di sei mesi per recarsi a Napoli, dove frequentava il 2° corso liceale presso l’istituto Genovesi. Trasparente figura di socialista fino alla fine dei suoi giorni, Catello Marano fu il padre di Francesco (1915 vivente), antifascista, comunista, condannato a 8 anni di carcere per propaganda sovversiva e diffusione di manifestini contro il duce nella notte tra il 19 e 20 gennaio 1936, anniversario dei fatti di Piazza Spartaco del 1921, consigliere comunale del PCI nelle prime elezioni libere del 7 aprile 1946. L’avvocato Gaeta sarà ancora protagonista, il 4 ottobre, nella stessa sezione per una prima riunione operativa della neonata organizzazione politica. Così come lo vedremo di nuovo candidato, nelle amministrative parziali del 24 luglio 1910, nel primo tentativo di blocco elettorale, esteso a livello provinciale in tutte le competizioni amministrative, messo in atto dalle forze d’opposizione in alleanza con repubblicani e radicali.
Dopo la pericolosa crisi di marzo, a seguito della disfatta elettorale e la prematura scomparsa della Camera del Lavoro, la sezione socialista aveva ripreso il suo travagliato cammino riuscendo in qualche modo a ricomporre le sue forze dopo essersi impegnato ad uscire dal Comitato dei partiti popolari, ritenuti dagli elementi di sinistra la causa prima delle sue continue sconfitte e conseguenti crisi. Lo scioglimento del Comitato fu sancito in un’assemblea del 17 maggio 1908 approvando un ordine del giorno presentato dal gruppo socialista in cui s’invitavano i partiti popolari – socialisti e repubblicani – a rientrare ognuno nella propria organizzazione. La partecipazione al Congresso provinciale socialista di metà agosto rappresentò in qualche modo la prima uscita ufficiale della rinnovata organizzazione che si richiamava ai principi marxisti. Nuove forze si erano fatte avanti, nuovi giovani pieni d’entusiasmo come Catello Marano, Alfonso D’Orsi, Ignazio Esposito, Achille Gaeta ed altri. Il 1909 si aprì con una serie d’iniziative da parte della sezione socialista e del suo circolo giovanile rinvigorito dalle nuove leve. Cominciò il giovane Marano, fresco dottore in lettere, mettendo in piedi dal 17 gennaio una serie di conferenze sulla Storia universale da tenere nella sezione ogni domenica, mentre altri assumevano iniziative con comizi sul rincaro dei viveri o a favore del suffragio universale, il professore di matematica, Pietro Carrese, teneva addirittura seminari su argomenti come “Chimica ed elettricità” per chiarire il nesso esistente fra le leggi chimiche ed elettriche e chiudeva il ciclo Andrea Luise con una commemorazione di Giordano Bruno (1548 – 1600).
L’avvicinarsi delle elezioni politiche generali da tenersi il 7 marzo costrinse la sezione ad interrogarsi su quale condotta tenere dopo la decisione di rompere con l’esperienza del Comitato dei partiti popolari. Furono necessarie ben due riunioni, il 15 e il 17 febbraio per rendersi conto che non vi erano le condizioni per presentare un candidato socialista, anzi non vi era neanche nessuna possibilità di sperare in una buona affermazione del partito: nel collegio elettorale solo Castellammare di Stabia presentava un minimo d’organizzazione socialista, per il resto era completamente assente negli altri comuni. Inevitabile quindi l’ennesima deliberazione a sostegno, della candidatura del repubblicano Rodolfo Rispoli, anche da parte del quotidiano nazionale del PSI, per il quale, “La cui riuscita è quasi sicura.”.
Ancora una volta si rinnovava quindi la sfida tra il semi analfabeta Fusco e l’avvocato Rispoli. In verità fino all’ultimo il Re di Castellammare aveva temuto per una nuova candidatura dell’ammiraglio Aubry, ma poi c’era stata la decisione di quest’ultimo di optare per il I collegio di Napoli dopo aver scritto il 10 febbraio una sorta di lettera aperta di congedo ai suoi elettori affidandola all’amico stabiese, Tobia Vollono affinché la divulgasse ai suoi concittadini e alla stampa. Qualche preoccupazione al Fusco gliela procurarono anche alcuni dissidenti offrendo la candidatura del collegio al marchese Alfredo Lucifero, un calabrese, capitano di vascello. Il rifiuto di quest’ultimo lasciò quindi lo scontro ai due eterni acerrimi rivali degli ultimi nove anni.
Appoggiato come sempre dal partito monarchico e dal clero, la candidatura di Alfonso Fusco fu presentata ufficialmente la sera del 20 febbraio nel circolo Pro Stabia, l’associazione che si definiva monarchica progressista guidata dal presidente Raffaele Palladino. Nella stessa serata era il pugliese Pietro Pansini, avvocato repubblicano e deputato da diverse legislature a presentare ai suoi elettori Rodolfo Rispoli. Ancora una volta violenze e sopraffazioni d’ogni genere furono le vere protagoniste delle elezioni e come sempre queste trovavano facile coltura a Gragnano dove
(…) Una vera banda di malfattori (assoldati e guidati dal partito Garofalo – Fusco) nelle prime ore di ieri assalì con rivoltelle e mazze ferrate i fautori della candidatura Rispoli che si recavano alle urne, senza che la polizia, testimone oculare del fatto, intervenisse. Non c’è dubbio che avevano la consegna di lasciar fare. Nel conflitto furono feriti gravemente l’ing. Nastro, il cav. Vincenzo Nastro, il sig. Gabriele De Martino ed altri…
Inutilmente 200 elettori mettevano per iscritto la loro protesta alla presenza di un notaio, mentre l’onorevole Pansini si recava dal Sottoprefetto Peri per denunciare quanto accadeva. La paura della vittoria repubblicana faceva mettere la sordina a qualunque protesta e la sconfitta si presentò puntuale con 2002 preferenze a favore del candidato istituzionale contro i 916 dell’oppositore repubblicano.
In quell’estate del 1910, a Castellammare la sezione del partito radicale era ai suoi primi vagiti. Negli ultimi giorni di maggio un gruppo di giovani si era messo alacremente al lavoro per costituirla e nel giro di poco più di un mese si era arrivati all’inaugurazione poi tenutasi il 7 luglio. Tra le prime deliberazioni assunte dalla neo sezione ci fu quella di non accettare come soci le persone già passate attraverso l’esperienza di altri partiti politici, suscitando l’interessamento dei socialisti, ovviamente interessati a costruire nuove alleanze per le prossime amministrative. Il primo giugno la sezione socialista aveva, a sua volta, tenuto un’assemblea, deliberando di scendere in lotta con un programma intransigente e con una lista, composta unicamente da iscritti delle due sezioni, contro tutte le consorterie locali. E in coerenza con questa nuova impostazione avevano rifiutato la richiesta d’alleanza elettorale venuta dall’Associazione per il commercio e la villeggiatura con la quale il 5 maggio avevano tenuto un pubblico comizio a favore della municipalizzazione della luce elettrica a Castellammare partendo dal riscatto del gasometro e togliendo la concessione alla Compagnia Napoletana del Gas che la deteneva ormai dal 1865. Inutilmente il Presidente dell’associazione, Weiss, scongiurò e lusingò i socialisti di accettare l’unione da loro proposta, ma questi avevano ormai deciso di lottare da soli senza alcuna confusione con elementi eterogenei. Per i Radicali si candidarono: Federico Apuzzo, appaltatore – Alfonso Castellano, disegnatore – Giuseppe Gaeta, comunale – Raffaele Luise, ingegnere – Michele Salvati, disegnatore – Giuseppe Scarselli, industriale. Per i socialisti Guglielmo Donnarumma, costruttore navale – Luigi Fusco, legale – Raffaele Gaeta, avvocato – Giosuè Penna, operaio – Vincenzo De Rosa, legale e Catello Marano, dottore in lettere. L’entusiasmo non mancava in quei giorni di fibrillazione da campagna elettorale, come sempre tesa e dura, che solitamente accompagnava le elezioni, ma ci fu un momento in cui il blocco dei radicali e socialisti cominciò a tramutare la speranza in qualcosa di più concreto e fu quando una settimana prima del fatidico 24 luglio esplose la notizia della rottura tra i clericali e i moderati. L’imprevisto divorzio era scaturito quando i clericali chiesero ai moderati di ritirare dalla lista due loro candidati: l’avvocato Nicola Fusco e l’imprenditore Pietro Salese. Il giovane rampollo del potente clan di Castellammare aveva abbandonata la sfortunata esperienza di consigliere comunale di Marigliano, dove era stato eletto nel luglio del 1909. In questa cittadina dell’entroterra napoletano si era candidato su probabile proposta dello zio, l’industriale Francesco Montagna (1848 – 1922), socio d’affari con i fratelli maggiori di Nicola, Alfonso e Ludovico e super votato deputato del collegio di Acerra dal 1890, politico senza rivali, legato alla camorra e per questo continuamente attaccato dal giornale socialista La Propaganda. Nel gennaio 1911 Alfonso Fusco e Francesco Montagna saranno coinvolti nello scandalo nazionale del contrabbando d’alcool, approdato in parlamento dove si aprirà un’inchiesta contro il deputato d’Acerra. Nel maggio 1912 subirà una doppia condanna di sei mesi di reclusione ciascuna e a 1.862.129 lire di multa dopo 40 giorni di dibattito giudiziario. Con Francesco Montagna saranno condannati altri quattro complici ma non Alfonso Fusco ancora una volta uscito indenne dall’ennesima bufera abbattutasi su di lui.
Contro la richiesta dei clericali di candidare Fusco e Salese, arrivò perentorio il rifiuto del potente clan, provocando con ciò l’inevitabile scissione tra le due forze, da sempre dominatori della scena politica cittadina, con i secondi eterni succubi dei primi. Lo scatto d’improvvisa e inaspettata dignità del partito personale di Alfonso Fusco sorprese non poco il clero e gli stessi fuschiani ma subito dopo i diversi ambasciatori si misero in moto cercando di ricucire lo strappo. A cinque giorni dalla fatidica domenica elettorale questo non si era ancora sanato facendo sognare più di uno di assistere finalmente al tramonto definitivo del potente clan familiare. Da troppi anni ormai i numerosi proseliti della famiglia Fusco andavano vantandosi di come a Castellammare non si muoveva foglia senza la volontà di Alfonso Fusco, così come in passato si poteva dire di suo zio Catello. Con il passare dei giorni la frattura sembrava sempre più insanabile al punto da far giocare ad ognuno una doppia partita: mentre si continuava a trattare, contemporaneamente ognuno predisponeva la propria lista suscitando un legittimo entusiasmo nelle file del blocco popolare sempre più convinto di riuscire finalmente a battere, forse definitivamente, il gran nemico. E a rinforzare questa ipotesi erano anche le notizie delle difficoltà per il partito di Fusco a trovare i nomi per completare la lista elettorale, dimostrando, se ancora ce n’era bisogno, quanto grande era il condizionamento clericale. In questo scenario di confusione ci fu anche chi, come il consigliere uscente, Onofrio Avitabile, scaricato dal clero come dai moderati, pensò bene di presentarsi da solo, quale unico candidato con un programma fatto affiggere su un manifesto di cui riempì la città, tutto inneggiante a Dio, rendendosi inutilmente ridicolo.
Il pericolo di una vittoria della sinistra dovette farsi effettivamente concreto se, per evitarla, i poteri forti agirono sulle autorità competenti facendo sì che a quattro giorni dalle elezioni la direzione del Regio Cantiere desse improvvise disposizioni a tutti gli operai di lavorare per la domenica del 24 luglio. “Se questa non è una manovra per danneggiare il nostro partito – perché si sa che fra la massa degli arsenalotti contiamo il maggior numero di voti a nostro favore – interessiamo vivamente il ministro Leonardo Cattolica a voler dare immediatamente disposizioni perché il 24 corrente sia un giorno di riposo come tutte le altre domeniche”, scriveva disperato Ignazio Esposito dalle colonne dell’Avanti! il 23 luglio. Ma la doccia fredda arrivò con l’improvvisa e ormai inaspettata riconciliazione seguita alla resa dei moderati inchinatosi alla volontà dei clericali di vedere soddisfatta la propria imposizione. La chiesa aveva chiesto la testa di due candidati, ma la soluzione fu trovata con la candidatura isolata, da indipendente, di Nicola Fusco, fratello minore di Alfonso. Con questo compromesso, costruito attraverso la sapiente regia della curia vescovile nella cui sede ogni sera le riunioni si susseguivano le une alle altre con “gente che va e che viene fino a notte inoltrata e veri e propri galoppini elettorali in gonna fra i quali si distinguono due eccellentissimi preti stabiesi: Raffaele Vanacore e Catello Castellano”, la vittoria tornò a sorridere ai vincitori di sempre.
La vittoria dei clerico – moderati – per soli 150 voti ma sufficienti ad ottenere la maggioranza dei seggi in palio: 10 su 12 – non impedì comunque al blocco di portare nel nuovo consiglio comunale due consiglieri, Giuseppe Scarselli, con 718 voti e Michele salvati con 675, entrambi radicali. Faceva inoltre una certa impressione annoverare la vittoria di Nicola Fusco, unanimemente ritenuto dagli elettori moderati stabiesi il più simpatico e amato tra i quattro potenti fratelli, riuscito eletto con 681 preferenze, incasellandola nei numeri della minoranza. Primo tra i non eletti, Raffaele Gaeta che raccolse 654 preferenze. Ancora una volta ai socialisti toccò di fare i portatori d’acqua al mulino di altri e l’amarezza dovette serpeggiare tra le scarne fila degli impotenti militanti e dirigenti della sezione del PSI ma nulla fu fatta trasparire sulla corrispondenza dell’Avanti che così commentava il risultato elettorale:
(…) Il concorso degli elettori è stato scarsissimo, poco più del 50 per cento. Tenuto presente le mescolanze delle altre volte e l’intransigenza attuale vuol dire che un passo innanzi l’abbiamo fatto. Per noi è stata una splendida affermazione di principi che non mancherà di diventare nostra vittoria domani. Agli equivoci del passato abbiamo preferito le posizioni nette, convinte come siamo che quella che occorre nel Mezzogiorno è soprattutto l’educazione politica.
Sarà lunga l’attesa prima di vedere l’alba della vittoria socialista a Castellammare – dovranno trascorrere ancora dieci lunghi anni in uno scenario politico sociale completamente modificato – e quando questa verrà, durerà soltanto 63 giorni chiudendosi nel sangue di sei innocenti vittime per le quali nessuno pagherà rimanendo per sempre un mistero irrisolto. Ma anticipiamo nel paragrafo successivo questo fondamentale momento della storia del movimento operaio di Castellammare, una delle pagine più importanti e significative nella storia più complessiva vissuta da questa città del Mezzogiorno, rara isola rossa in un sud povero, arretrato, profondamente religioso dove il socialismo è stato sempre, per la maggioranza della popolazione, una parola della quale, nella migliore delle ipotesi, bisognava avere paura perché sinonimo di peccato.
7. L’altra faccia di Piazza Spartaco
Le elezioni del 31 ottobre 1920 premiarono gli sforzi della Camera del Lavoro e della sezione del Partito socialista, entrambe schierate sulle posizioni rivoluzionarie di Amedeo Bordiga e già avviate verso la costituzione del Partito Comunista d’Italia. Per 63 giorni si visse un epopea che per molti doveva somigliare a quanto accadeva in Russia dove la rivoluzione aveva trionfato e per la prima volta nella storia si sperimentava la costruzione di una nuova società non più fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Un’utopia che nell’Unione Sovietica non sarebbe durata molto, trasformando ben presto il sogno in incubo e per molti l’inizio di sofferenze inenarrabili a partire da alcuni degli stessi protagonisti della rivoluzione d’Ottobre, molti dei quali, travolti dagli eventi, pagarono con la vita il tentativo di ribellarsi, quando si resero conto che con l’avvento di Stalin ci si avviava non verso la libertà ma verso un regime di terrore e di morte. Ma questo in quegli anni nessuno lo poteva sapere, a nessuno era dato di immaginare fino a che punto si potevano tradire ideali così nobili quali erano e rimangono la costruzione di una società più giusta, senza nessuna distinzione in classi sociali, senza lo sfruttamento di pochi a discapito dei tanti costretti a subire le prepotenze dei forti, le umiliazioni dei ricchi, le violenze del potere costituito.
A Castellammare dunque il sogno, diventato realtà, di “fare come in Russia”, era già per tanti altri l’incubo della dittatura del proletariato, dell’espropriazione dei beni, della fine della libera iniziativa, del libero mercato. E allora cominciarono ad organizzarsi. Le vicende di quei giorni, passati alla storia come i fatti di Piazza Spartaco, sono troppo note perché siano di nuovo qui riportate e si rinvia dunque per ogni ulteriore approfondimento al libro di Antonio Barone – lo sfortunato storico locale, precocemente scomparso a 55 anni il 30 marzo 1995 – che ha brillantemente ed esaurientemente raccontato quanto avvenne durante quei 63 giorni in Piazza Spartaco, edito dagli Editori Riuniti nel 1974.
Meno conosciuta, ormai scomparsa dalla circolazione, da almeno mezzo secolo e più, è invece la versione raccontata dallo storico fascista, Giorgio Alberto Chiurco, nella sua ponderosa e minuta ricostruzione degli eventi che portarono il Duce a conquistare il potere, Storia della Rivoluzione fascista. 1919-1922; cinque densi volumi di pura, sconfinata apologia pubblicati nel 1929 dalla Vallecchi Editori. Nel terzo volume, nelle pagine 29 e 30, si ricostruiscono sinteticamente i fatti di quei giorni, così come sono stati vissuti dal popolo di destra, l’altra faccia di Piazza Spartaco che qui riportiamo integralmente:
A Castellammare di Stabia la situazione era molto tesa per ragioni politiche, avendo tra le altre cose i popolari fatta combutta con i comunisti ed avendo questi ultimi perpetrato ogni sorta d’abusi appena giunti al potere. Così avevano soppresso molte spese devolute alla beneficenza per versarle a favore della Camera Confederale del Lavoro e delle organizzazioni estremiste. Avevano anche aumentato di alcune migliaia di lire l’assegno per il sindaco e pare che avessero anche stabilito delle indennità speciali per gli assessori. Tutti i partiti dell’ordine si ribellano ed è indetto in Piazza Giardino un comizio. Il Fascio di combattimento affigge un manifesto. Tutti i negozi nell’ora fissata sono chiusi. E, incolonnati in diversi cortei, gli elementi dell’ordine si recano alla piazza del comizio che riesce imponentissimo, e nel quale un Ordine del giorno vibrante è votato da trasmettersi al Governo. Intanto i sovversivi si erano tutti mobilitati presso la Camera del Lavoro.
La folla, all’uscita del comizio improvvisa un corteo che giunto all’altezza di Via Bonito, tra il seminario e il teatro, viene a contatto coi sovversivi i quali avevano, sul palazzo del Comune, issato la bandiera rossa. I sovversivi sparano colpi di rivoltella e lanciano bombe. Un proiettile raggiunge in piena fronte il maresciallo Carlino Clemente e l’uccide. Dinanzi all’aggressione improvvisa i dimostranti, per la maggior parte disarmati, fuggono. I carabinieri reprimono la rivolta a gran fatica e con l’aiuto di alcuni rinforzi circondano il Municipio nel quale si asserragliano i rivoltosi. I gravi disordini portano 8 vittime e cioè oltre il maresciallo Carlino anche i marinai Michele Esposito e Sabato Amato, e alcuni operai. Vi sono inoltre una diecina di feriti gravi e altri leggeri. E’ proclamato lo sciopero generale nonostante le proteste degli operai. Sono operate numerose perquisizioni con sequestri di armi in gran copia. Sono arrestati il prof. Michelangelo Pappalardi, segretario della Camera del Lavoro e l’avv. Cecchi. E’ perquisita la Camera del Lavoro. Unanime il cordoglio per la morte del maresciallo Carlino, che col sacrificio della sua vita, evitò la strage di diecine di persone.
Le contraddizioni e le omissioni sono evidenti, ma non poteva essere diversamente tenendo conto dello spirito partigiano di chi ha scritto. Ottanta anni dopo, all’indomani delle celebrazioni dei fatti di Piazza Spartaco, un protagonista di quella vicenda, scomparso nel 2004 a 105 anni, ritornò su quei giorni raccontandolo in uno scritto che consegnò ad un giornalista del Corriere del Mezzogiorno, Gimmo Cuomo. Anche questa è una lettura di destra e ci è utile per completare una storia che ancora oggi suscita polemiche per le diverse verità che emergono, tanto più in una fase di revisionismo quale quella che oggi attraversiamo.
“Le elezioni amministrative dell’ottobre 1920 portarono al comune i comunisti che festeggiarono la vittoria con cortei, con bandiere rosse e banda in testa, rami di limone carichi di frutta, al canto di “Bandiera rossa” e lancio di invettive agli avversari politici.
Il passaggio delle consegne dal Regio commissario, Prefetto Muffone, ai nuovi eletti avvenne in un clima euforico, il consigliere Martorano, in piedi su uno scanno agitava una foto di Lenin. Dopo che era stato designato il Sindaco, nella persona del prof. Pietro Carrese, il prefetto Muffone lasciò l’aula. ( preciso che al passaggio dei poteri, che il Commissario cedeva in nome del Re, gli scalmanati consiglieri gridavano “In nome di Lenin”.
Nella prima seduta consiliare fu deciso di intestare a Spartaco, Piazza Municipio. La notte del 16 gennaio 1921 avvenne la sostituzione della targa. Il mattino del 17 gennaio gli studenti della scuola tecnica “G. Bonito” notato il cambiamento, in segno di protesta lanciarono un calamaio contro la nuova targa. Erano Giuseppe Monti e Michele Santaniello. Alcuni comunisti presenti all’atto li schiaffeggiarono e dissero: “Questo vale anche per i vostri amici”.
Avevo appuntamento con amici in Piazza Municipio, notai un gruppo di studenti che si agitavano. Incuriosito mi avvicinai; i due predetti raccontavano l’accaduto; nel contempo giunsero i miei amici, Gaetano Canino, avvocato, Pasquale Erto, il medium Michele Bocchetti, vice cassiere della Banca d’Italia, il capitano Catello Criscuolo; ci facemmo raccontare da Monti e Santaniello ciò che era accaduto e stabilimmo di dimostrare pubblicamente contro l’Amministrazione Comunale. Costituimmo un Comitato, Canino Presidente, io Segretario. Ci recammo in questura per l’autorizzazione ad un corteo; il Commissario dottor Antonio Vignali ci presentò al Sottoprefetto Farina che ce lo concesse con la seguente riserva: “Fra tre giorni e percorso prestabilito”, la richiesta fu firmata da noi cinque.
Nei tre giorni che precedettero la manifestazione, ci demmo da fare affinché la manifestazione ottenesse il più alto consenso, come recapito l’Associazione Combattenti, presso la cappelleria Grottola, di proprietà del Presidente Capitano Gioacchino. Fu aperta una sottoscrizione tra commercianti e anticomunisti; si cercava una banda, quelle conosciute non aderirono, dovemmo optare per una sconosciuta. S’incaricò l’operaio Pasquale Laus a cercarla, a Castellammare non c’era ancora il Fascio di combattimento, nella zona c’era solo una sezione a Pimonte. Avevamo bisogno di un locale per riunirci, il dott. Salvatore Imparato ci mise a disposizione la sede dell’Associazione Democratica, della quale era Presidente, il locale al Corso dove attualmente c’è la Scavolini.
Tre giorni d’intenso movimento, ma si raggiunse lo scopo. La mattina del 20 gennaio, grande adunata presso l’Associazione Democratica. Erano presenti le varie associazioni, con le bandiere, i fascisti di Pimonte erano intervenuti con il loro gagliardetto; si attendevano i popolari, Silvio Gava era il segretario del partito e Raffaele Russo del loro sindacato. Volevano che il corteo si muovesse dalla loro sede, Palazzo Alvino, ma dovettero recedere. La manifestazione l’avevamo organizzata noi e non doveva avere sfondo politico. Si mosse, Banda in testa, dall’associazione Democratica. In villa comunale, dalla Cassa Armonica lessi il comunicato e l’ordine di percorso: Largo Quartuccio, Via Prima e Seconda De Turris, Santa Caterina, ritorno per Via Bonito e senza sosta in Piazza Municipio, attraverso via Mazzini, al punto di partenza.
Tutto si era svolto con la massima tranquillità, si seguiva il binario della ferrovia, la testa del corteo era giunta in vista di Piazza Municipio, sulla torretta di Palazzo Farnese fu issata la bandiera rossa con falce e martello, dai balconi stipati di compagni, con megafoni si lanciavano invettive contro i dimostranti e s’invitava ad avvicinarsi. I carabinieri formarono un cordone dall’angolo dell’ospedale San Leonardo al portone del Seminario per impedire ai dimostranti di aderire all’invito dei facinorosi, diversi audaci riuscirono ad attraversarlo.
Dal comune si sparava, cadde il maresciallo dei carabinieri Clemente Carlino, Luigi Musolino corse in aiuto, era morto, spostò il cadavere accostandolo al muro del Seminario. Con Renata Fusco ed Andrea Cosenza volevamo ripararci nel Seminario, il portone vigilato da un agente di finanza fu chiuso, rimanemmo esposti ai proiettili, fui ferito alla gamba destra, la Fusco atterrita non cessava di battere il martelletto, il portello si aprì. Dal terrazzo sovrastante l’officina dell’acquedotto si poteva vedere la piazza cosparsa di rottami di marmo. La notte avevano divelto tutti i divisori degli orinatoi per farne proiettili, le scale della cattedrale, occupate da gente armata di randelli, gente venuta da Gragnano che, nonostante la festività di San Sebastiano, era scesa a dar man forte ai compagni. I carabinieri, visto cadere il loro maresciallo aprirono il fuoco contro il comune e verso la cattedrale, da dove erano partiti i primi colpi. Cessato il fuoco, le forze dell’ordine entrarono nel palazzo comunale, impedendo a tutti di uscirne. I comunisti si erano asserragliati ai piani superiori; si attendeva l’arrivo del Procuratore del Re.
Chi ha ucciso veramente il maresciallo Clemente Carlino? Il processo che si celebrò nei mesi successivi in Corte d’Assise, tra il 7 febbraio e il 6 aprile 1922, giorno del verdetto definitivo, assolse i quindici imputati rimasti in carcere dopo le centinaia d’arresti seguiti ai tragici eventi di quelle ore e Antonio Barone, nella sua ricostruzione storica, tende a dimostrare come effettivamente il colpo di pistola non poteva essere partito dai socialisti. Dice, anzi, chiaramente come, dalle testimonianze a favore degli imputati, emerge quasi subito il vero probabile uccisore del maresciallo: Andrea Esposito detto Raimo, così descritto dal giornalista stabiese, Piero Girace, nel suo volume, Le acque e il maestrale: Un tipo tra il signore di campagna ed il mercante di cavalli, alto robusto, di carattere rumoroso e guascone, il quale vestiva quasi sempre alla cacciatore, stivaloni gialli, frustino e cappello sulle ventitrè.
Ardente nazionalista e organizzatore di manifestazioni patriottiche, candidato senza fortuna nelle elezioni del 31 ottobre 1920, Andrea Esposito riuscirà a conquistare l’agognato seggio nelle amministrative tenutesi il 10 aprile 1922 e diventare perfino assessore.
Contro “Raimo” aveva provato a testimoniare uno degli stessi imputati, il decaduto assessore socialista all’acquedotto Antonio Esposito affermando di averlo riconosciuto chiaramente sulla loggia del Seminario a causa di un impermeabile chiaro che Andrea Esposito era solito indossare, la stessa loggia dalla quale, secondo i socialisti, era partito il colpo di pistola assassino. Ma contro il giovane socialista – era nato il 17 marzo 1895 – passato al Partito comunista, Antonio Esposito, si erano rivolti, invece, i sospetti del giudice istruttore convinto che fosse proprio lui il maggiore responsabile dell’accaduto e autore del fatidico assassino colpo di rivoltella. Questo sospetto accompagnerà Antonio Esposito per molto tempo, tant’è che nella sua scheda biografica di pericoloso rivoluzionario, redatta dalla Sotto prefettura di Castellammare, conservata presso l’Archivio centrale dello Stato, iniziata il 12 marzo 1923 e nella quale è descritto come un “perduto sovversivo”, di lui si dice che (… ) dalla voce pubblica fu additato come colui che dal palazzo municipale con una pistola militare avesse ucciso il maresciallo dei RR.CC., Carlino Clemente..
Di agiate condizioni economiche, Antonio Esposito aveva, secondo l’estensore delle note di polizia, un carattere violentissimo. Uomo di cultura e di grande intelligenza, studente universitario in ingegneria, fu ferito in guerra riportando una cicatrice all’occipite. Ultimo segretario della sezione comunista nel 1923, espatriò in Francia nel giugno 1926. Nel novembre 1941, a Parigi, dove aveva ormai fissato la sua residenza, chiese l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista, concludendo in questo modo la sua parabola politica.
Chi fu dunque l’assassino del maresciallo Carlino? Il fascista Andrea Esposito, detto Raimo, l’uomo a cui il 28 ottobre 1922 i gerarchi campani affideranno l’incarico di guidare le camicie nere stabiesi nella storica marcia su Roma, oppure il comunista, “perduto sovversivo”, Antonio Esposito? La verità non la sapremo probabilmente mai.
Di questa vicenda ne scrisse anche “Il Risveglio di Stabia” con un editoriale del suo direttore così commentando questa luttuosa pagina di storia cittadina:
…Col cuore straziato prendiamo la penna per dire poche parole sulla luttuosa giornata di giovedì 20 gennaio, chiusasi con la morte di sei persone e con innumerevoli feriti. Fra le vittime sono da annoverar due militi della Benemerita, di cui il compianto Maresciallo Carlino Clemente, fulminato da una palla assassina. Ai poveri morti mandiamo il nostro saluto; ma al valoroso Maresciallo Clemente Carlino, caduto vittima del proprio dovere, commossi esprimiamo tutto il nostro dolore e quello della cittadinanza stabile, che spande sul suo feretro fiori d’ammirazione e di rimpianto.
8. La targa in ricordo del maresciallo Clemente Carlino
Alcuni anni dopo, ci fu chi continuava a ricordarsi dello sfortunato Clemente Carlino, nativo di Grazzanise, morto ammazzato ad appena 40 anni. Antonio Vignale, Commissario capo della pubblica sicurezza di Castellammare scriveva, nel febbraio del 1930, al Commissario prefettizio Roberto Ausiello ricordando i luttuosi fatti del 20 gennaio 1921:
(…) L’eroico sottufficiale dell’Arma era in quell’occasione al mio fianco ed a quello del Capitano dei RR.CC. Cav. Romano e mentre nobilmente ed energicamente ci coadiuvava nel resistere alla folla incalzante, che tentava di spezzare i cordoni ivi disposti a sbarramento della Piazza Municipio, cadde in mezzo a noi vigliaccamente colpito a morte. Col suo sacrificio scongiurò il sacrificio di altri, poiché la sua fine contribuì a limitare le conseguenze del conflitto, che di certo sarebbero state ancora più luttuose di quelle che furono.
Unanime fu il cordoglio per l’esecrando delitto, rimasto purtroppo impunito per verdetto negativo della giuria napoletana: unanime la commozione durante il trasporto all’ultima dimora della salma insanguinata, su cui la cittadinanza profuse fiori e lacrime – l’estinto lasciò la vedova, signora Squillante Silvia, nativa di Sarno, ove si ritirò.
Nell’epoca che immediatamente seguiva ai luttuosi fatti… più volte si ventilò l’idea di murare, al posto dove il Carlino cadde, una targa di marmo o di bronzo, la quale ne ricordasse il sacrificio (…) ma questa eroica vittima rimase e rimane tutt’ora immeritatamente oscura.
Sin dalla venuta a Castellammare della S.V. Ill.ma mi proposi di prospettare a codesta On. le Amministrazione straordinaria il desiderio(…) perché fosse esternata nel marmo la memoria di tanta vittima del dovere. E poiché sono ben noti ormai i nobili sentimenti della S.V. ill.ma e l’amore e la passione che Ella porta in tutte le opere belle (…) io sono sicuro che Ella senz’altro accoglierà la proposta che le sottometto, con animo tuttora commosso dello scomparso, quella cioè di far murare in Piazza Municipio, all’angolo del palazzo del Seminario, nei pressi della tipografia De Martino, una targa in bronzo o in marmo con epigrafe che ricordi alle generazioni future questa nobile figura dell’Arma Benemerita, caduta vittima del dovere, significando che la data dello scoprimento dovrebbe coincidere con quella dell’inaugurazione del Monumento ai caduti di Stabia….
Non se ne fece niente e sembrava ormai un’idea perduta, quando il successivo Commissario prefettizio, poi Podestà, il Generale Giovanni Battista Raimondo, la riprese nominando un Comitato che si riunì il 1° ottobre 1931 proponendo di realizzare una targa in marmo con corona di bronzo da murare sulla facciata del palazzo dell’ex Seminario, nei pressi del luogo dove il Carlino cadde; di scoprire la targa il 20 gennaio 1932 e cioè nell’undicesimo anniversario del luttuoso avvenimento; di far tenere l’orazione ad un ufficiale dell’Arma; di lanciare una sottoscrizione popolare; di chiedere al Regio Cantiere la fornitura della corona di bronzo; l’epigrafe da incidere sulla targa era invece già stata dettata dal prof. Francesco Di Capua: Mentre il popolo d’Italia inneggiava alla Vittoria e all’Italia, qui cadeva Carlino Clemente, Maresciallo dei RR.CC. colpito dal piombo fratricida di pochi traviati da fosche teorie straniere. 20.1.21–20.1.32”
Una nuova riunione si tenne il 31 dicembre per definire gli ultimi dettagli: il conte Nicola De Balzo di Presenzano sarebbe stato l’oratore della cerimonia, la targa di marmo era pronta e mancava solo l’incisione da affidare ad un marmista, bisognava scrivere al comune di Sarno per chiedere l’indirizzo della vedova per essere invitata. Nella prima metà di gennaio pervenne dal Podestà di Sarno la notizia che la vedova del defunto maresciallo era internata nel manicomio di Nocera Inferiore e non avevano lasciato figli. La cerimonia si tenne puntualmente il 20 gennaio 1932 nella ritrovata Piazza Municipio. Nessuno: né il Cavaliere, Dottore e Commissario capo della Pubblica Sicurezza di Castellammare, Antonio Vignale, né il Commissario prefettizio, poi Podestà il generale Raimondo Giovanni Battista, né il Comitato nominato per la preparazione della manifestazione del 20 gennaio 1921 avevano speso una sola parola per ricordare come quel tragico giorno a perdere la vita non fu soltanto il maresciallo maggiore Clemente Carlino ma anche altri cinque innocenti, cinque povere vittime della follia umana, inermi cittadini, alcuni dei quali ignari passanti la cui unica colpa fu di trovarsi nel posto sbagliato nel momento meno opportuno, per una tragica fatalità. Ma di questo il regime fascista “se ne fregava”, come recitava il motto delle squadre d’azione delle camicie nere. Al Maresciallo Clemente Carlino venne anche intitolata un’ala dell’ex Seminario, quella dov’erano dislocate le aule della scuola elementare.
Sarà l’Amministrazione comunale di Centro sinistra guidata dal sindaco post comunista Catello Polito a ricordare, 80 anni dopo i tragici avvenimenti, quei “..martiri semplici..”, quando il 10 febbraio 2001 commemorerà i fatti di Piazza Spartaco con un convegno e una lapide, dettata dal giornalista Antonio Ferrara, sulla facciata di Palazzo Farnese:
Il 20 gennaio 1921 in questa piazza l’assalto fascista al Municipio di Castellammare di Stabia provocò la morte di sabato Amato, Michele Esposito, Vittorio Donnarumma, Francesco Laruscia, Raffaele Viesti e del maresciallo dei carabinieri Clemente Carlino, martiri semplici ma fulgidi di gloria, mentre l’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Pietro Carrese difendeva i valori di libertà e di democrazia, decidendo di intitolare a Spartaco questa piazza. La città pose nell’80° anniversario. 20 gennaio 2001.
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Fonti utilizzate:
ASC, Archivio Storico Comunale.
ACS, Archivio Centrale di Stato.
ASN, Archivio di Stato di Napoli.
I giornali dell’epoca: Il Mattino, l’Avanti!, La Propaganda, L’Aurora, La Verità, varie edizioni Cultura e Territorio, Piero Girace: Le acque e il maestrale, Arti Grafiche Sav, 1961.
Antonio Barone: Piazza Spartaco, Editori Riuniti nel 1974.
Giorgio Alberto Chiurlo: Storia della Rivoluzione fascista. 1919-1922; Vallecchi Ed., 1929.
Raffaele Scala: Alle origini del socialismo e della Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, in Studi stabiani in memoria di Catello Salvati, Nicola Longobardi Editore; 2002.
Note: