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Pillole di Cultura : Virtù

a cura del prof. Luigi Casale

Da ragazzo non mi rendevo conto per quale motivo gli insegnanti di latino ci facessero tradurre la parola latina “virtus” col vocabolo italiano “valore”; e più precisamente “valore militare”. Eppure gli stessi dizionari dell’epoca, come prima accezione del lemma, proponevano l’interpretazione di “valore militare”.
Per me era difficile accettarlo, sapendo con quale significato usiamo noi la parola virtù nella parlata quotidiana. E, ancora, conoscendo il giudizio degli storici dell’antichità, a parte Livio, sui soldati, sul loro reclutamento e sulla loro vita. Sembrava un’aberrazione identificare la forza fisica del soldato, con la “virtù”.
Adesso, a posteriori, me ne rendo conto; ricordando che la maggior parte dei testi delle versioni dal latino parlavano di battaglie campali, di imboscate, di movimenti di truppa, di atti di eroismo legati ad azioni di guerra, o di gesti di violenza.
Qualcuno, forse esagerando, ha detto che la storia di Roma è la storia dell’esercito.
Intanto bisogna riconoscere che “virtus” (virtù) come derivato da “vir” (uomo) non può significare altro che “la prerogativa più peculiare dell’uomo”. Perciò se l’uomo è un soldato la sua qualità sarà evidentemente il valore militare. Ma se invece è un filosofo (intellettuale) la sua peculiarità sarà la razionalità o la condotta morale.
E se è un marito sarà un “bravo marito” in tutti i sensi, ma soprattutto la “virilità”.
Considerato quindi che il vir è maschio, la virtus sarà essenzialmente la mascolinità.
Perciò si capisce ora che, cambiando nel tempo l’ideale dell’uomo o la sua attitudine, cambia naturalmente anche la rappresentazione delle qualità ritenute indispensabili a renderlo tale. Così è successo che l’applicazione della parola virtus, attraversando tutto il medioevo in cui dell’uomo si è avuta un’idea molto diversa da quella dell’antichità, ha fatto sì che “virtuoso” divenisse l’uomo religioso,
Proprio come nell’antichità lo era il valoroso soldato. Spostatosi poi l’uso della parola alla sfera spirituale, quindi applicata all’anima, di virtù si è parlato anche al femminile. Quasi un ossimoro.
Oggi, se non ci riferiamo esclusivamente alle virtù morali, siamo costretti a dover precisare con l’aggiunta di un aggettivo come per esempio “virtù civiche”.
E la stessa parola virtù viene applicata anche ad elementi che non siano necessariamente umani. Vedi: “la virtù di una pianta o di un medicinale”.
Per avere un’idea di questo mutamento di significato, e coglierne il momento del passaggio potremmo rileggerci il capitolo del Machiavelli dove si parla di Virtù e Fortuna. Vedremmo come i due termini: virtù e fortuna, in Machiavelli conservino ancora la semantica degli antichi.
Tante altre parole, passando da un ambiente culturale all’altro, modificano il loro significato. Ne ricordo qualcuna modificata – proprio come questa – dal pensiero cristiano, su cui potremmo ritornare per un approfondimento di analisi. Vedi: fede (fiducia e fedeltà) diventa “confidenza in Dio”; agonia (gara, lotta) diventa “sofferenza prima della morte”; salvezza (salute) diventa “redenzione”; miracolo (fatto meraviglioso) diventa “intervento divino”; confessione (pubblica dichiarazione) diventa “atto penitenziale”; angelo (messaggero o messaggio) diventa “personaggio mistico, inviato di Dio”; passione (sofferenza) diventa “sacrificio del Cristo”; martire (testimone) diventa “persona eroica fino all’estremo sacrificio”; sacramento (gesto rituale del processo civile) diviene “segno della presenza di Dio nella storia”; demonio (divinità, spirito vitale, destino) diviene “essere spirituale incline al male”. Così tante altre.
Questa piccola riflessione sullo scivolamento del significato (e, in particolare, in presenza e in conseguenza di un mutamento di mentalità), è indispensabile alla comprensione degli Autori distanti dalla nostra contemporaneità.
Inoltre – per il poco che ci riguarda – ci ricorda che i Vocabolari si devono usare (e consumare, direi) nella stagione ad essi contemporanea. In seguito, devono essere gelosamente custoditi per la loro capacità di documentazione. E procurarsene subito di nuovi.

                                                                                                                                                      L.C.

Pillole di cultura: Effigiata

a cura del prof. Luigi Casale

Della lingua napoletana, le poche parole ancora originali, quelle cioè antiche e ancora usate solo in ristretti ambiti sociologici oppure nel ricordo degli ultraottantenni, e che non trovano riscontro nella parlata toscana, abbiamo già visto come esse derivino direttamente o dal latino o dal greco.
Il fatto di avere una discendenza nobile è chiaro segno che sono nate in ambito culturale elitario. Per lo stesso motivo, una volta diffuse, e – modificate – banalizzate nelle parlate locali, esse hanno acquistato il rango di parole dotte perdendo del tutto la loro trasparenza.
Una di queste è “l’effigiata”(l’ho scritta e l’ho letta secondo la lingua italiana).

Non conosco la statistica delle parole più usate, ma pare tuttavia evidente che in condizioni normali la parola “effigiata” (a meno che non sia ricondotta ad una terminologia tecnica) non dev’essere tra le più utilizzate dal parlante comune. Al punto da farla sembrare una “parola dotta”, cioè una parola che interrompendo il suo processo evolutivo, sia stata in seguito recuperata e rimessa in circolazione da parlanti acculturati, nella forma più antica, quella originaria. Nel caso di effigie la forma più antica è la parola latina “effigiem” dal verbo effingo (e+fingo = simulo), che significa immagine, riproduzione, finzione.
Ricordiamo il principio secondo cui “l’arte è finzione”, in quanto riproduzione del reale. Infatti ne è un’immagine.
Ora questa parola, dotta finché vogliamo, è molto diffusa nella parlata napoletana; ma proprio perché se ne è perduto il senso, essa si è rassegnata a divenire una “parola opaca”. Chi la usa, sa di che cosa intende parlare, ma non è in grado di coglierne il vero senso.
Si sente dire: “‘Na bbona ‘ffigiata!” (Una buona sorte). Oppure: “Aggia jucà a ‘ffiggiata”.
E questa è per noi l’effigiata: il gioco del lotto. I novanta numeri della “smorfia” dei quali si scommette l’uscita fortuita, dell’uno o dell’altro, secondo un ordine prestabilito, sia da soli che in combinazioni tra loro.

Allora c’è una ruota che gira la quale fa muovere la cesta (‘a panara) con i 90 numeri, e qualcuno ne estrae progressivamente una serie di 5. Vince chi ne indovina uno o più, a seconda che abbia scommesso sull’ordine di uscita o sulla loro compresenza nella cinquina. L’estratto, l’ambo, il terno, la quaterna, e finalmente la cinquina. Il premio si calcola mediante dei coefficienti per i quali va moltiplicata lo posta giocata.
Questo è il discorso tecnico sul gioco del lotto. Ma per illustrarne l’aspetto culturale della tradizione napoletana, mi rifaccio alla citazione di un mio omonimo. Scrive infatti Gennaro Casale in un articolo sulla commedia “Non ti pago” di Eduardo De Filippo: “Il gioco del lotto […] diffusamente conosciuto, […] a Napoli […] permea la società nel profondo […]. Il popolo napoletano ha un legame privilegiato con tutto ció che trascende il sensibile […]. Il napoletano vive anche con chi non è fisicamente presente: lo percepisce perché ne riconosce la voce negli accidenti, nei fenomeni, nei numeri.”

Ecco la magia dei numeri e il loro potere. Il legame col mondo ultraterreno, fantastico e immaginario, che convive – ma soprattutto interagisce, influenzandolo – col mondo reale e con la vita di ogni giorno. E così tutto diventa numero, tutto è esprimibile e riconducibile in un numero (dei novanta della smorfia).
Ed eccoci arrivati ad un altro nome dell’effigiata: la smorfia. Il libro dei numeri dove ad ogni numero corrisponde un’immagine, la rappresentazione di un oggetto, di un’idea, di un sentimento, di una condizione, fantasiosamente riprodotto in un disegno (effigie).
La smorfia, o che sia la deformazione del volto umano nel ghigno di chi soffre o di chi ci deride, il mascherone della commedia antica (se ipotizziamo la sua derivazione da “morfé” = forma), o che sia l’insieme di tutte le rappresentazioni del reale al fine di ricavarne il numero magico corrispondente, nel caso che la parola (anch’essa “dotta”, anch’essa “banalizzata”, anch’essa “opaca”) sia fatta derivare da Morfeo, nome mitologico del sonno e di conseguenza del sogno (i Romani avevano una sola parola per indicare il sonno e il sogno).
E il sogno, nella coscienza popolare è l’area di contatto tra i due mondi, quello di quà e quello di là. Il posto dove si concretizzano le immagini mentali e dove di conseguenza si sostanziano i numeri.

L.C.

Pillole di cultura: Effimero

a cura del prof. Luigi Casale

Effimero significa “di breve durata”, che dura un giorno.
La sua origine è in una espressione della lingua greca: ̉εφ’ημέραν (leggi: ef’emèran) = “per un solo giorno”. Effimero, quindi – etimologicamente parlando – dovrebbe significare: della durata di un giorno.
Altre parole della stessa origine sono efèmera (insetto la cui vita dura un giorno), effemeride o efemeride (libro delle registrazioni giornaliere; rubrica giornalistica a cadenza quotidiana; e via discorrendo), emeroteca sezione di una biblioteca dove si raccolgono e si custodiscono le pubblicazioni quotidiane; e – per estensione – anche tutte le altre pubblicazioni a stampa (periodiche).
Ricordiamo il saluto augurale dei greci: kalimèra (buon giorno), parola che nella forma Calimera o Calimero è presente anche nella lingua italiana come toponimo o appellativo.
La parola effimero, dunque, per significato è vicina agli aggettivi giornaliero (“che vale un giorno solo” oppure “che si verifica ogni giorno”) e quotidiano (dal latino “cotidie” (= ogni giorno), a sua volta da “quot diebus” (= per tutti i giorni, cioè “che si ripete ogni giorno”), e al sostantivo diario (dal latino “diarium” – proveniente da “dies” = giorno – che significava razione giornaliera, quota di denaro, di materiale, o d’altro che doveva bastare un giorno).
Diarium, poi, ha la stessa formazione di “salarium” = razione di sale, che si dava ai soldati.

Pillole di cultura: “Egregio”: Detto e non- detto

a cura del prof. Luigi Casale

“Egregio Signore!” Ma che sarà mai questo “egregio” con cui tante volte mi hanno chiamato e continuano a chiamarmi nella corrispondenza e nella comunicazione formale?
Mi fa ricordare la risposta di un personaggio delle barzellette giovanili (napoletane), il quale una mattina essendo stato apostrofato dal suo compariello con l’appellativo di “aitante”, così gli rispose: “Aità (Gaetano!), si aitante è ‘na cosa bbona, aitant’a te e aitante pur’a me. Ma si aitante è ‘na cosa malamente, hai tant’i chilli pàccari …. Hai capito, Aità?”
Ora “egregio” risulta che sia la trasformazione di una espressione latina che suona più o meno così: “E grege”, e che letteralmente significa: “uscito dal gregge”. Sul piano del significato corrisponde perciò al più moderno “distinto”.
Quindi nella metafora di “egregio” è sottinteso che una persona per essere distinta (ma non capisco perché mai si dovrebbe essere distinti) deve uscire fuori dal gregge. Praticamente deve essere un pecorone, o almeno esserlo stato.
Stessa considerazione per l’aggettivo “esimio” (dal verbo eximere). Esso vale sempre come “distinto”, perché esentato da certi obblighi, perciò privilegiato, eccellente.
Conclusione: accettate con bonaria tolleranza quando qualcuno vi chiama egregio oppure esimio. Ma se vedete che mentre vi dà il benvenuto accenna a un sorriso sornione e allusivo, allora potete anche voi, in segno di umiltà, riconoscere la vostra “ignoranza” e ricambiargli il complimento, rispondendogli: “Scusate l’ignoranza! Non so se la mia arriva alla vostra. Ma che significa egregio?”. E sarà ripagato.

Pillole di cultura: Emancipazione

a cura del prof. Luigi Casale

Emancipazione, emancipato, emancipare (o emanciparsi): rispettivamente sostantivo, aggettivo e verbo. Queste parole oggi indicano – sempre rispettivamente – il fatto, la condizione, l’azione relativi ad un’attività umana, che possiamo chiamare “l’uscita da una situazione di diritto e il passaggio ad una nuova condizione di diritto in qualche modo più ampia di benefici e di potestà”. Per esempio, è emancipata la persona che migliora la propria cultura e acquista perciò una maggiore libertà di giudizio; è emancipata la donna (o l’uomo) che si libera dai condizionamenti di un sistema di valori obsoleto (pregiudizi), a volte addirittura limitativo della dignità e della libertà della persona; è emancipato il minore (o la minore) al quale il giudice riconosce la facoltà di agire alle stesse condizioni di un maggiorenne.
Andiamo adesso alla storia della parola. La parola latina “mancipium” (pl.: mancipia) presso gli antichi Romani indica lo schiavo (servus/serva) nato in casa, cioè lo schiavo figlio di schiavi. In latino “manu càpere” infatti è afferrare con la mano, tenere in mano. Il verbo “capio-càpere” è prendere; quindi anche “fare prigioniero”, tanto che i “captivi” (oggi diciamo “i cattivi”, ma con significato completamente diverso) erano proprio i prigionieri. Mancipium (parola di genere neutro) all’origine è il prigioniero (la persona che ha perduto i suoi diritti) o per atti di guerra o per incapacità da parte sua a saldare un debito. Quindi si tratta di una persona che in qualche modo si trova ad aver perduto la sua originaria libertà, divenendo proprietà del vincitore o – nel caso – del creditore.
L’eventuale riscatto, per merito o per denaro, da parte dello schiavo; o la restituzione del debito da parte sua, oppure un atto di liberalità del padrone (dominus) potevano restituire in qualsiasi momento la libertà al mancipium, che diveniva “e-mancipiis”: [Vi ricordate il valore di “provenienza” della preposizione latina “e/ex” ?] appartenente cioè alla categoria degli ex schiavi, e veniva chiamato anche liberto. Poi decideva lui se voleva o no continuare a mantenere rapporti di amicizia o di correttezza col suo ex padrone.
Quindi emancipare significa fondamentalmente “fare uscire dalla condizione di servo”, cioè restituire alla libertà.

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Emancipazione, oltre a ciò che abbiamo detto sopra, è anche il termine tecnico per indicare l’istituto giuridico attraverso il quale viene riconosciuta al minore la facoltà di agire (e la responsabilità che ne consegue) di un maggiorenne.