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Pillole di cultura: Idiota

a cura del prof. Luigi Casale

Oggi è il turno di idiota. Se consulto il vocabolario italiano, il primo che mi capita sottomano (Dizionario della lingua italiana, di Devoto e Oli), leggo alla voce idiòta: “Caratterizzato da una vistosa e sconcertate stupidità” ; … e cose simili (più o meno). La definizione del lemma si conclude, poi, “… [ …dal greco: idiòtes, individuo privato senza cariche pubbliche … ]”.
Faccio notare di passaggio che nella stessa pagina si trovano parole come idiòma e idiotismo, che proprio niente hanno a che vedere con la stupidità. Idioma è una lingua particolare, propria di un gruppo di parlanti ben definito (diciamo: una lingua nazionale oppure un dialetto); e idiotismo è una forma espressiva particolare, tipica di un gruppo di parlanti molto ristretto (corrispondente – potremmo dire – o a un quartiere o a una sola città).
Allora vado a consultare un vecchio vocabolario di greco antico, il buon Bonazzi (“Dizionario Greco – Italiano, compilato ad uso delle scuole della Badia di Cava dei Tirreni da S. E. l’Arcivescovo di Benevento, D. Benedetto Bonazzi O.S.B., professore pareggiato nella R. Università di Napoli”) – meritava proprio questa citazione! Ricca di informazioni e di storia. L’altro vocabolario di greco antico, ancora in uso nelle scuole (che negli anni ha soppiantato il Bonazzi, monaco benedettino), è il Lorenzo Rocci S.J. (religioso della Compagnia di Gesù) – dicevo: vado a consultare lo storico vocabolario greco e concludo – mi pare di capire – che l’“idiòtes”, presso i greci era una persona che in un certo senso viveva da solo, badava ai fatti suoi, non si curava di partecipare alla vita pubblica e alla gestione dello Stato. E la chiamate stupida una persona tale?
Intanto oggi utilizziamo la parola così come essa ci è arrivata, e prendiamo atto dell’enorme scivolamento di significato che essa ha dovuto subire per arrivare fino a noi, passando attraverso la lingua latina che ce l’ha consegnata.
Però a ben riflettere, chi è più idiòtes (che pensa ai fatti suoi!) oggi, chi prende parte alla politica o chi se ne tiene lontano?

 

Pillole di cultura: affatto

a cura del prof. Luigi Casale

Oggi esordisco con una poesia.

SONETTO DI PARADISO

         Mi viene in sogno una bianca casetta,
         sull’erto colle, dentro un’aria affatto
         tranquilla; e il verde del colle è compatto
         e solitario, e l’ora è benedetta.

         Mi viene in sogno una dolce capretta,
 5     che mi sta presso, e mi sogguarda in atto
        placido umano, quasi un muto patto
        ne legasse. Poi pasce ancor l’erbetta.

        Volge il sole al tramonto; un luccichio
        cava dai vetri, un dorato splendore,
10    della casetta su in alto romita.

        E tutto il dolce che c’è nella vita
        in quel sol punto, in quel solo fulgore
        s’era congiunto, in quell’ultimo addio.

Da “Cuor morituro (1925-1930)” di Umberto Saba (1883 – 1957)

Le notizie essenziali sull’autore e sulla sua pubblicazione li trovate nell’annotazione bio-bibliografica, il resto se vi interessa su Wikipedia. Ma è meglio fare un giro in Biblioteca.
La poesia, per le sue caratteristiche formali, estetiche, e compositive meriterebbe un lungo discorso. Ma non è mia intenzione commentarla qui. Almeno non oggi. Solo chiedo che ognuno la rilegga, per poter continuare a parlarne.
Intanto noto – e faccio notare – che la prima lettura, quella referenziale (cioè la comprensione del testo come semplice atto comunicativo, vale a dire: capire ciò di cui si sta parlando) sembrerebbe alquanto facile. Le parole usate sono tutte parole del lessico quotidiano; e anche il registro, a parte l’effetto ritmico, mi pare un registro familiare.
Personalmente, rispetto al mio lessico particolare, di poco usato trovo solo le parole “erto” e “romita”, e … , forse, l’espressione “ne legasse” . Altro non riesco a trovare da poterlo ritenere in qualche modo motivo di difficoltà ai fini della comprensione del piano referenziale (come ho detto). Certamente un altro lettore (con lessico personale e sintassi differenti) troverebbe altre parole, ed altre espressioni, estranee al suo modo di parlare. Ma tutto sommato – suppongo – non dovrebbero essercene più di due o tre, come per me, anche se differenti. Insomma non più di quante ne ho incontrate io.
Ma allora perché propongo questa lettura?
Ecco. Per parlare dell’avverbio “affatto”, argomento di questo mio articolo. Parola che troviamo nel secondo verso della poesia.

Fatta questa premessa, posso iniziare la prevista lezione di semantica.
Molte parole sono generate da locuzioni o espressioni, come “marcia-a-piedi”, “arco-baleno”, “va-te-la-pesca”, oppure “a-fatto”, “di-fatti”, “in-fatti”, o anche “a-punto”, “per-ciò”, (e in napoletano: “va’-trova”, “può-essere” o “può-darsi”) le cui componenti poi, una volta agglutinatesi (legatesi l’una all’altra), hanno finito anche con l’essere scritte come unica parola. Ed è proprio ciò che è capitato ad “affatto”.
(Ricordo di passaggio che tutti gli avverbi italiani formati con la terminazione (suffisso) “-mente” hanno la stessa origine in questo tipo di agglutinazione; e la parola “mente”, all’origine, quand’era separata dall’aggettivo, cioè prima di trasformarsi in suffisso, era un sostantivo).

Ora le parole elaborate a partire dalla parola “fatto” significano fondamentalmente “in maniera evidente” cioè: “stando ai fatti”, e valgono “assolutamente”, “completamente”, “del tutto” (quindi valore affermativo); le seconde, composte con “punto” o “mica” significano “per quanto poco” o “per quanto piccolo”. Per cui entrambi i tipi di espressioni se vengono usati al negativo, vanno a significare nel primo caso “per niente” nel secondo “neppure un poco”. Ma devono essere accompagnate da un elemento negativo chiaramente lessicalizzato.
E qui potrei fermarmi. Ma allora, la poesia?
Ci arrivo.
Qualche anno fa in una classe liceale di fronte all’interpretazione di questo testo poetico della prima metà del secolo scorso, la totalità degli alunni (una trentina) sostennero che “affatto” avesse valore di negazione, per cui “affatto tranquilla” per essi valeva “per niente tranquilla”; né si accorgevano che con questa interpretazione il seguito della descrizione non era comprensibile, in quanto veniva stravolto tutto il senso della poesia.
Questo per la cronaca. Ognuno poi, in privato, potrà fare la sua prova di verifica.
Mentre io continuo la discussione.
A parte l’evidente errore di lettura, i poveri ragazzi non avevano tutti i torti. La loro lingua era ancora opaca. Essi usavano segni linguistici secondo la convenzione (sociale) dei loro modelli linguistici di riferimento. E oggi la convenzione è – sembrerebbe essere – che “affatto” sia una negazione. Lo avvalora la televisione, lo confermano i cronisti radiotelevisivi, qualche giornalista, e addirittura qualche scrittore e qualche professore. E, ormai, già anche qualche dizionario.
Questo mio intervento, perciò, non pretende di modificare la convenzione, cioè il modo d’uso corrente oggi, ma vuole (vorrebbe) che ognuno – in particolare i miei amici di scuola media ai quali mi rivolgo – si ponga di fronte al problema in maniera critica. Ecco la lingua trasparente! Che, per quanto riguarda questo caso, almeno ci consente di leggere, e comprendere, un testo di appena ottanta anni fa.
Tutto questo ci fa capire un’altra cosa, importantissima per la comprensione del concetto di evoluzione linguistica. Cioè che, attraverso l’uso che se ne fa, le parole vanno soggette a trasformarsi, e se non sempre si trasformano sul piano fonetico o morfo-sintattico, spesso possono farlo su quello semantico (del significato). Cioè cambiano il loro significato. Fino a rovesciarlo completamente, talvolta. Com’è il caso di “affatto”. Che in questo momento storico si trova proprio nella sua fase di incertezza. (C’è chi lo usa in un modo e chi nell’altro).
L’appuntamento è a tra una cinquantina d’anni per sapere quale sarà stato il suo esito.

Pillole di cultura: ‘a ciòrta

a cura del prof. Luigi Casale

“’A sciorte” oppure “’a ciòrta”, con diversa fonetica a seconda delle aree di produzione, è la sorte. Ma anche la scelta, o – ancora – l’assortimento, oppure la fortuna.
A Napoli, invece, per antonomasia è la pasta, intesa come tipo o taglio.
Con connotazione positiva, poi, la parola indica anche la buona sorte, cioè quella che gli antichi Romani chiamavano fortuna secunda o fortuna prospera.
Noi familiarmente e in maniera scherzosa e un po’ volgare, diciamo “’o mazzo”.
Infatti, “tèn’a ciòrte” chi consegue un premio o un risultato in maniera inaspettata. ‘Nce vo’ ‘na bella sciorte!
Anche nella lingua italiana, la parola corrispondente (sorte) assume gli stessi significati.
L’origine delle due parole: sorte e ciòrta è il vocabolo latino sors (sorte) dal verbo sero (intrecciare), ricalcata a sua volta sul più antico: “fors” (caso) che è collegato al verbo “fero” (portare) nel senso di “comportare”. Fors indica perciò la manifestazione della sorte, come dimostra la parola latina fortuna. E Fortuna, oltre ad essere la dea, è anche – sia in latino che nelle lingue romanze – la ricchezza [vedi il particolare uso che se ne fa anche nella lingua italiana].
Ma – come ho detto – “’a ciòrte” è anche il tipo di maccheroni.
“Né! Ma che ciòrte vuó?” chiede la cuoca al marito, dovendo buttare la pasta. Sicché ‘a ciòrte è proprio il tipo di pasta.
Una volta se ne contavano più di 100 tipi. Oggi, nei supermercati se ne vedono a stento una decina.
Ci salviamo noi, fortunati (“Che bella ciòrte!”) ad avere il pastificio a due passi da casa. E possiamo scegliere il tipo adatto per ogni piatto, e per ogni condimento.
Ma poi questa fortuna la sappiamo apprezzare?
Postilla inviata dall’autore (in vista dei Referendum):
Fortuna, è quindi la sorte; cioè, fondamentalmente, il caso. Per cui essa non implica necessariamente, come succede a noi parlanti moderni, un qualcosa di favorevole, di positivo. Per lo stesso motivo i Romani dicevano “fortuna secunda” o “fortuna adversa” per distinguere la fortuna buona da quella cattiva.
“Secunda” significa, infatti “che segue, seguente”; cioè che ci viene da dietro, e quindi ci spinge in avanti. Pensate al verbo “assecondare” (= guidare il movimento spingendo da dietro). Mentre “adversa” è contraria: cioè (da “ad + versus”) che ci viene incontro girata verso di noi, perciò si oppone al nostro movimento. Ci frena, se non – addirittura – ci respinge. Buona giornata a tutti. E buona fortuna! E mi raccomando: “Tutti a votare domenica!”. Se ci stanno a cuore la nostra sorte e – insieme – la nostra fortuna. Che sia “secunda”!

Pillole di cultura: Accendere (parte II)

a cura del prof. Luigi Casale

Accendere e spegnere, nella lingua italiana, trovano la loro originaria pertinenza (cioè si adattano con determinate parole affini per significato) solamente con il fuoco. Tutte le altre cose che si possono accendere o spegnere sono frutto di metafora. Quindi si accendono e si spengono tutte le cose che danno esca al fuoco. Ma se cerchiamo la radice etimologica delle due parole, avremo una grande sorpresa. Che la loro area semantica è quella della luce e del colore. Praticamente, si mette in evidenza non tanto il fenomeno chimico della combustione che per l’uomo antico è misterioso, quanto il suo effetto visivo che innegabilmente è una percezione istintiva anche per l’uomo antico.
Immaginate il rapporto col fuoco da parte degli esseri inanimati. Al confronto l’uomo, pur ignorando la causa e il fenomeno specifici del fuoco, intuisce poeticamente la differenza tra acceso e spento in termini di luminosità e di colore. Notiamo tuttavia che nelle parole che esamineremo manca il tratto semantico delle temperature (freddo, tiepido, scottante).
Accendere è parente di incendio: il primo, verbo; l’altro, sostantivo. Se ipotizziamo che all’origine entrambe le parole abbiano avuta la corrispondente mancante, quale che essa sia, ci troveremo di fronte a due coppie in cui i verbi sono: “ac-cendere” e “in-cendere”. Non è difficile constatare che sono due verbi formati con preverbio (prefisso): il primo prende la preposizione “ad” (movimento verso; prossimità); il secondo, la preposizione “in” (dentro; movimento dall’esterno all’interno). Chiarito l’apporto di significato fornito dalle preposizioni che stabiliscono la differenza tra i due verbi, ci resta di scoprire il significato del verbo radicale “-cendere”.
In uno dei lemmi, pronti in redazione, ho avuto modo di parlare dell’apofonia. Nell’attesa che il lemma “apofonia” sia pubblicato, do qui una definizione essenziale del fenomeno fonetico. In breve: l’apofonia è quel fenomeno per cui una vocale di una parola cambia il colore a seconda che si trovi in una radice verbale o in una radice nominale, oppure quando il verbo senza preverbio assume il preverbio. Es. (latino) : “facio” (italiano: faccio) / per-ficio (italiano: faccio fino in fondo, porto a termine) . Sullo schema della lingua latina, esaminiamo i participi perfetti, vivi anche in italiano: fatto / perfetto. La a è una vocale apofonica, cioè che cambia colore.
La stessa cosa capita al verbo “candere” quando prende la preposizione come prefisso. Diventa in-cendere e ac-cendere, con la a che diventa e .
[La preposizione ad- diventa ac- per assimilazione regressiva].
Il corrispondente verbo radicale *cando non è attestato; tuttavia esiste un verbo candeo: essere bianco, schiarire, illuminare. Le due radici sembrerebbero collegate. Se così fosse, pur restando per noi provvisoriamente insoluto il problema della dipendenza dell’uno dall’altro, possiamo già dire che tutte le parole italiane come: accendere, incendio, incenso, candido, candela, candidato, candeggina, ecc. appartengono alla stessa famiglia, cioè fanno parte della sfera lessicale (insieme di vocaboli) della luce, del chiarore, della luminosità, del candore, e – per le due voci che anticamente se ne sono allontanate – del fuoco e della fiamma.
Spengnere. Scusate se mi riferisco ancora al latino, ma è l’unica strada. Ex-pingere: ex (preposizione) + pingere (verbo = dipingere, dar colore, illuminare dando maggiore o minore tonalità).
La preposizione ex- davanti a “pingere” è usata con valore privativo e fa si che il verbo significhi privare del colore.
La teoria che i termini accendere e spegnere originariamente si muovessero nell’area semantica della luce e del colore è confermata dall’altro verbo: estinguere.
Spero che adesso sia più facile seguire il ragionamento seguendo la sintesi grafica.
Extinguo da ex + tinguo (sinonimo di tingo, che significa bagno [vedi le parole italiane “intingo” e “attingo”] e anche inumidisco (il colore). O che si ricolleghi, anche questo verbo, alla stessa area semantica, o che voglia aggiungere l’idea del “gettare acqua sul fuoco”, con questo metodo di ricerca qualche risultato siamo riuscito ad ottenere.

Pillole di cultura: I giorni della settimana

a cura del prof. Luigi Casale

Il nome dei giorni della settimana è una delle prime cose che si insegnano ai bambini, come le dita della mano, o i mesi dell’anno. Un apprendimento seriale. Per tenere allenata lamemoria. Lunedì. Martedì. Mercoledì. Giovedì. Venerdì. Sabato. E domenica.
Certamente la suddivisione del tempo in settimane non è della tradizione classica. Essa fa parte della cultura ebraica. Vedi il racconto biblico della Creazione.
E l’origine dei nomi? Intanto diciamo che a rigore la settimana così com’ è oggi non comincia dal lunedì (Forse la settimana lavorativa, sì). Se, secondo la tradizione ebraica, il sabato è il giorno del riposo, allora questo è il settimo. Ne abbiamo conferma nel passo evangelico in cui si racconta che “il giorno dopo il sabato” Maria Maddalena e, successivamente, Pietro e Giovanni trovarono la tomba vuota. Quindi quel giorno, che in seguito i cristiani chiamarono giorno del Signore (dies dominica), cioè quella che noi chiamiamo ancora “domenica”, era ed è il primo giorno della settimana.
Abbiamo detto “dies domenica”. Mentre “dominica” è l’aggettivo derivato da Dominus = il Signore, “dies” è un nome che significa “giorno”, trattato, a seconda delle situazioni, a volte come femminile, a volte come maschile. Così “la domenica” in italiano è diventato un nome femminile; “le dimanche” (francese) e “el domingo” (spagnolo) sono al contrario nomi maschili.
“Dies”, che nel caso della parola “domenica” si è eclissato, negli altri cinque giorni si è mantenuto trasformandosi nel suffisso “–dì” (lune-dì, ecc.). D’altra parte la parola è presente nella lingua italiana come forma “di’” (da diem), viva nell’espressione “buon dì”.
Parlavamo degli altri cinque giorni. Essi sono dedicati ai personaggi dell’Olimpo Romano. Scomparso Apollo dalla domenica, sono rimasti Diana (la luna), Marte, Mercurio, Giove e Venere. “Il sabato”, poi, ha conservato la forma della lingua ebraica.
Quindi nei nomi della settimana si conservano presenze di una cultura che contiene elementi della civiltà classica (romana), di quella ebraica e di quella cristiana. Di queste tre culture, o meglio, della loro sintesi (sincretismo) noi conserviamo la matrice. Sulla quale poi si sono sovrapposte con maggiore o minore incidenza la civiltà germanica (invasioni “barbariche”) e quella araba, considerando che quella greca e bizantina sono gia componenti di quella classica.
Nel linguaggio ufficiale della chiesa il nome dei giorni della settimana, a parte il primo, denominato come abbiamo detto “dies dominica”, gli altri, sono designati col numerale: feria secunda, feria tertia, feria quarta, feria quinta, ecc., dove feria è la parola latina che significa “festa”. Ancora così sono chiamati i giorni della settimana nella lingua portoghese.
Anche da noi – chi va in chiesa il Giovedì Santo lo sa – quella festa si chiama “Feria quinta in cena Domini” (La quinta festa della settimana della commemorazione della cena del Signore).