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Mare e pescatori stabiesi

Aniello Lascialfari racconta

( si ringrazia il prof. Luigi Casale per la preziosissima revisione di bozza )

Aniello Lascialfari (costume di scena)

Aniello Lascialfari (Il pescatore: costume di scena)

Così la mia memoria spinta anche dalla fantasia riprende il volo saltando da ramo a ramo. Erano gl’inizi degli anni ’60, ed io ero molto giovane. Nel tempo libero dal lavoro – lavoravo a Napoli – era mia abitudine frequentare i pescatori della Banchina di “Zi’ Catiello”, specialmente nelle belle giornate d’estate quando il tramonto pareva che non finisse mai. Poi venne l’ora legale. Allora in questi pomeriggi allungati si discuteva di pesca, di attrezzatura, di barche, quando in città c’erano ancora i calafati. Qui a Castellammare i migliori – a sentire i pescatori – erano i fratelli Aprea di Sorrento. Le barche da essi costruite … “tènene ‘o mare ch’è ‘na bellezza. È ovère! Costano ‘na cusarella ‘e cchiù, ma nun songhe vutecarelle comm’a chelle che fanne a Torre ‘o Grieche. E pure ‘o lignamme è nata cosa. È chiù staggiunato, chiù tuosto”. Raffaele Aprea era una persona amata da tutti sulla banchina ‘e zi’ Catiello, ex operaio tracciatore dei Cantieri Navali, era ‘o cumpare ‘e tutte quante. Continua a leggere

La cantata dei pastori

ricordi e osservazioni del prof. Luigi Casale

La cantata dei pastori

“Cantata dei Pastori” anno 1934 (circa): si distinguono in scena Gaetano Cuomo (Razzullo), Vincenzo Cuomo (diavoletto) e Pasquale Esposito (diavolo) – foto gentilmente concessa dal compianto Beppe Cuomo.

Spesso si sente parlare di “tempi forti”. L’espressione si riferisce ai momenti della nostra vita particolarmente significativi, dove maggiori sono l’impegno personale e la consapevolezza. Generalmente se ne parla con spiccata allusione alla vita dello spirito e alla originalissima esperienza morale, individuale e personale. Oppure nei momenti delle grandi scelte. Chi conserva una visione trascendente della vita e della storia, dell’una e dell’altra si fa una rappresentazione ideale e al confronto di quella vorrebbe parametrare le proprie vicende umane, sia quelle personali che quelle collettive, familiari, sociali, storiche e politiche.

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Castellammare: vita, storia e cultura

Aniello Lascialfari racconta

Si ringrazia il prof. Luigi Casale per la preziosissima revisione di bozza

Pozzano di Castellammare (Antica stampa - coll. Gaetano Fontana)

Pozzano di Castellammare (Antica stampa – coll. Gaetano Fontana)

Un tempo, nella mia gioventù, scendevo da quella strada vecchia che mena sulla piazza davanti all’antica basilica di Pozzano. Per raggiungerla, partivo sul tardo pomeriggio – di questa stagione potevano essere le ore 17,00 – dalla piazza del Caporivo, ed a piedi, per salita S.Croce, raggiungevo la strada Panoramica fino al Castello. Poi prendevo a sinistra per la strada vecchia che porta al santuario della Madonna Della Libera, senza raggiungerlo. Preferivo proseguire per la strada antica che porta alla Basilica di Pozzano. La mia meta odierna, di questo viaggio della memoria, rimane ancora il largo dove sorge la Basilica. Tra me e me vado alla ricerca di tracce che m’indichino la presenza di personaggi illustri. La fantasia scioglie le briglie, si dà al galoppo, quasi prende il volo, e mi tocca assecondarla: Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Matilde Serao ed Eduardo Scarfoglio, Peppino Turco ed Olga Ossani. Questo è il luogo dove si racconta che alla fine dell’Ottocento essi erano soliti incontrarsi. Continua a leggere

Facezie d’altri tempi

Facezie d’altri tempi

Si narra di un’avventura ( Stabiesi: gioiosi e irriverenti ) – o disavventura? – che tre stabiesi, simpatici burloni, ebbero una domenica dell’anno 1935 o giù di lì. E come da una loro facezia si fosse originata l’ilarità dei paesani, occasionali festivi passeggeri del tram cittadino. La cosa – si narra – capitò una domenica mattina alla fermata della Villa Comunale, proprio davanti alla Cassa armonica. Così la raccontano. Dicono che uno dei tre fratelli, il più anziano, che era anche il più dinoccolato, il più genuinamente grossolano perché il meno acculturato, e, per lo stesso motivo, il più bonariamente sempliciotto, nell’atto di scendere dal tram, non potendosi trattenere oltre, emettesse una sonora flatulenza che invece di farlo arrossire, ne illuminò la mente – questa volta il gas naturale fece effetto – per cui, accortosi egli che sul predellino della porta d’uscita del tram, al mancorrente si reggeva un prete, così – dicono – lo abbia apostrofato: “Zi’ pre’, nun ve mettite scuorno ‘e fa’ sti ccose?” Da qui – si racconta – la sonora risata degli astanti.

zi' prete

zi’ prete

Si sa che la favolistica di origine popolare ha una rigidità di schemi narrativi che si ripetono identici in ogni tradizione letteraria, sotto ogni cielo e a tutte le latitudini. Quando, addirittura, la stessa storiella, se originata dal medesimo aneddoto, modificata nei particolari e adattata al nuovo ambiente socio-culturale, non si riproponga – pari pari – con rinnovata ed originale vis comica.
Probabilmente il prete non doveva essere del luogo; oppure, si dovrà supporre che il nostro personaggio, per consentirsi tanta gratuita libertà, non conoscesse i preti della sua città.
E – aggiunge il narratore – “certamente veniva da uno dei comuni dell’entroterra vesuviano”.
Ora, è risaputa la considerazione che, in ogni città sia essa piccolo centro, capoluogo o capitale, viene riservata alle persone che provengono dalle città confinanti: “da fuori”, dalla campagna, dal contado, dalla montagna, o, rispettivamente, dal piano.
Per rimanere nell’ambito regionale a noi familiare, tutti sanno che a Torre (Annunziata) per indicare “il baggiano” di manzoniana memoria, si dica: “Scénn’a Vuosco”. (Ho dovuto precisare di quale delle due Torri si tratta perché anche Torre del Greco ha il suo bel da fare. Visto che da Napoli a Castellammare è denominata “’A tin’e miezo”: la tinozza, cioè, che, del concime biologico utilizzato una volta per fertilizzare orti e giardini, conteneva le parti solide). I “torresi” poi – intendendo per torresi quelli di Torre del Greco, e cominciando ad indicare con l’appellativo di “oplontini” i cugini di Torre Annunziata – fanno ogni sforzo per trasferire il “titolo onorifico” ai confinanti “nunziatesi” (oplontini), come li chiamano loro.
A Pompei, poi, per dire la stessa cosa si dice: “Vèn’a Castellammare”; mentre a Castellammare dicono: “Chill’è ‘e Gragnano”. E così via. Solo in Basilicata ho trovato una certa ammirazione per chi viene da fuori, in particolare per chi viene dalla Campania. Ma anche questa ostentata simpatia è funzionale allo scopo: essa nasconde infatti la loro avversione per i pugliesi. Debolezze umane. E sempre bonarie occasioni di facezie. E chi più ne ha, più ne metta.

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Così a Trecase si racconta un’identica storiella che a Castellammare. Se poi per combinazione dovesse risultare che essa è stata generata dallo stesso avvenimento che si racconta a Castellammare, allora si tratterebbe addirittura dello stesso aneddoto. E Trecase, manco a farla apposta, è uno dei “comuni dell’entroterra vesuviano”, il più vicino a Castellammare, la quale si gode la fama e la fortuna di essere protesa verso la punta della Campanella, mentre gli altri scendono dalla montagna. Vuoi vedere che quel prete quel giorno veniva proprio da Trecase?
Chi sa.
Tuttavia in qualche particolare il racconto è leggermente diverso.
Dopo aver sonoramente scoreggiato, il tipo gioioso e irriverente, credendo di fare una bravata da aggiungere al già fatto gran rumore, si rivolge – sì – al prete dicendogli: “Zi’ pre’, nun ve mettite scuorno ‘e fa’ sti ccose?”. Al che – ecco appunto la variante – questa fu la pronta risposta: “Nipo’, nun sapevo ca tenevo nu nipote accussì battilocchio”.
Fu a questa punto che scattò lo sghignazzare diffuso dei viaggiatori. Stando – naturalmente – alla parola di chi racconta la storiella a Trecase.

Luigi Casale

MESSAGGIO di NATALE ( Natale del Signore 2011 )

del prof. Luigi Casale

E’ tempo di Natale. Festa della memoria e della tradizione.
L’atmosfera della festa la si respira nell’aria già a partire dagli ultimi giorni di novembre. Con ogni condizione di tempo. Neve o nebbia, bruma o pioggia, o anche bufera e tempesta.
Ma specialmente quando risplende la bella giornata dicembrina con il sole basso nel cielo e le ombre che si allungano sulla terra: quando i diversi piani di luce si sovrappongono trasparenti, ma ancora distinti e chiaramente individuabili nel riverbero della foschia pomeridiana, mentre si prepara il tramonto.
Sempre e comunque, però, la tipica atmosfera di festa resiste la durata di un mese. E a Santo Stefano subito si cambia registro. Tanto che la cultura popolare – quella condensata nei proverbi – per dire che qualcosa: un’emozione, un fenomeno, una promessa, un impegno, è di breve durata, esclama: “E’ durato Natale e Santo Stefano”.
In effetti succede che l’Avvenimento, presente nella evidente attualità storica e nella sua perenne contemporaneità psicologica, fuga dalla coscienza la tensione accumulatasi durante l’attesa della festa, ed esplode nella pienezza della gioia, il giorno della Festa.
Così passato il Natale svanisce anche il cosiddetto clima natalizio. Quello festaiolo e superficiale, naturalmente. E si ritorna alla consapevole realtà dell’oggi.
Perciò, quello che anche noi inseriti come siamo nella cultura popolare, semplicisticamente continuiamo a dire “tempo di natale”, la Liturgia cristiana, opportunamente invece, chiama “Tempo di Avvento”. Cioè tempo proiettato verso la venuta. Quindi, “Tempo dell’Attesa”. Tempo animato dal desiderio che genera fervore, mentre si avvicina il momento della gioia piena, quando la Festa sarà presente nel suo “essere”.
Il sabato del villaggio? Solo in parte! La differenza è che il Poeta dice che, dopo, ritorna la noia.).
La fiducia e la speranza cristiana ci fa dire invece che ritornano serenità e certezza.

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Quanti si muovono alla ricerca del significato dei gesti, e quindi alla scoperta del loro fondamento nella esperienza esistenziale e alla loro conseguente esplicitazione, fino ad una rilettura più profonda e motivata del mito, e della sua rappresentazione, fanno opera educativa di carattere sociale. Fanno cultura. E qui non c’entra la religione. Anche se essa resta di primaria importanza.
Per parte nostra, noi, allungando lo sguardo a ritroso sulla vicenda umana: personale, di gruppo, o universale fino alle più recondite e misteriose origini, notiamo come la consapevolezza (la retta coscienza) dell’innato bisogno di trascendenza abbia sviluppato nella persona umana, insieme al processo di conoscenza o di crescita, la cosiddetta coscienza morale e il sentimento religioso. Questa ricerca, questo sviluppo umano che è crescita culturale, come detto, (e nella visione cristiana è segno dell’alleanza di Dio con l’uomo), ha prodotto quel sublime dato culturale (religioso) presente nelle Sacre Scritture. A cui l’uomo attinge la rivelazione del Dio (Epifania = manifestazione). Dio è nelle Scritture. O meglio nella Scrittura.
Ed è la stessa manifestazione di Dio che ritroviamo nella vita dell’uomo, quella che poi come storia esemplare ed emblematica confluisce nelle Scritture. Quelle antiche, con la esemplarità del “popolo eletto”. Le nuove, il Vangelo, con l’esemplarità della vita di Gesù.
Dio, quindi, è nella nostra vita e nella storia dell’uomo. Un modo diverso e interessante per cogliere il senso della “creazione” e della “redenzione”. Storia di salvezza.
Alla luce di questa certezza, diamo significato al Natale di Gesù, e alla sua Attesa.
Con questo spirito auguro a tutti un Buon Natale.

l.c.