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Juve Stabia – Hellas Verona ( Attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone )

Juve Stabia – Hellas Verona
( Attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone )

ciuccio

ciuccio

A scadenza fissa ritornano le cronache dei contrasti ideologici di natura razzistica delle varie tifoserie calcistiche delle squadre del nord e di quelle del sud.
Le cronache ritornano quando negli stadi si ripetono incidenti, si notano striscioni stupidi e si ascoltano cori imbecilli. Ma la verità è che quella mentalità deteriore cova e si alimenta nelle menti dei soggetti che, poi, la manifestano attraverso le iniziative indicate, come sfogo di un malessere personale. E sempre a loro completo disonore. Quelle manifestazioni, infatti, sono il segno evidente del ritardo culturale e civile in cui versano – e questo, bello non è – gli attori delle azioni sopra ricordate, di cui si alimenta la cronaca giornalistica

Si riteneva che il gioco del calcio, in mancanza di altre agenzie educative o in sintonia con esse, potesse aiutare a crescere i supporters di tutte le squadre, aggregando simpatie e passioni campanilistiche e favorendo così la socializzazione, e, con essa, la conoscenza di altre persone, di altre città e, nello stesso tempo, lo scambio di esperienze e di gesti di solidarietà. Tutto questo all’interno di un sistema (il gioco del calcio) che come sport avrebbe dovuto esaltare la lealtà; e come sistema di regole – in campo (le regole dl calcio) e fuori dal campo (nella gestione dei gruppi sportivi e delle associazioni ad essi collegati) – avrebbe dovuto esaltare la legalità. A questo servono le associazioni, i club, i gruppi: ad evidenziare l’identità culturale degli associati, ma solo per fargli superare blocchi psicologici e ritardi di civiltà; non certo a confondere l’individualità di ognuno e ad annullarne il senso di responsabilità.

E invece, …. .

* * *

Prendendo spunto dalle recenti controversie (offese – polemiche – ricorsi – contro-ricorsi – ecc.) intrattenute tra Hellas Verona e Juve Stabia, voglio ricordare alcuni episodi risalenti alla mia esperienza personale avuta con amici e colleghi veronesi. Non dirò di quegli stupidi comportamenti – miserie umane! – che non mancano mai da parte di persone che non riescono a confrontarsi tenendo fermo l’inderogabile assunto che l’altro, comunque, vada rispettato. Di fronte a questi casi ho sempre evitato di fare polemica, perché “a lavar la testa all’asino, …. ecc., ecc., …”
Ho sempre cercato di offrire all’ottuso di turno esempi di dignità e di tolleranza.
Se ci sia riuscito non so.
Perciò preferisco piuttosto raccontare di quelle situazioni che hanno fatto chiarezza di pregiudizi e di comportamenti conseguenti, non proprio sereni nella valutazione dell’altro. Nell’una e nell’altra direzione, perché. nonostante quei pregiudizi si era pur sempre amici o colleghi, e si continuava comunque a rimanere tali. Se pure con qualche forma di circospezione.

* * *

A Verona io ci ho lavorato. E ho avuto modo di apprezzare la precisione e il senso del dovere dei colleghi veneti. Insieme anche a qualche difettuccio.
Nella stazione di Verona Porta Nuova delle Ferrovie dello Stato, un giorno ero in servizio alla Biglietteria dietro uno dei tanti sportelli aperti nelle ore di punta quando numerosi viaggiatori – studenti, lavoratori pendolari, turisti, viaggiatori occasionali – si affollavano in lunghe file nell’atrio. Un collega alla destra, un altro alla sinistra, e così di seguito, a ranghi compatti per tutta la linea degli sportelli come in una trincea, si cercava si smaltire la massa dei viaggiatori. A sinistra avevo Menini, a destra il Titta – così chiamavamo Augusto Piubello – , e tutti e tre, come gli alti fino all’ultimo sportello, eravamo alle prese con la macchina automatica in dotazione all’epoca: la SASIB, la quale, dopo averlo ingoiato il cartoncino rettangolare bianco, lo stampigliava per risputarlo come un biglietto ferroviario: data, destinazione, importo, validità e numero di serie. L’operatore doveva solo selezionare su richiesta del viaggiatore la città di arrivo; e lo faceva sopra un grande pannello su cui scorreva la striscia di plexiglass con un movimento orizzontale/verticale, come se seguisse un’immaginaria coppia di assi cartesiani. Per accelerare le operazioni di pagamento, ognuno poi aveva escogitato la sua tecnica personale nel calcolare il resto da dare insieme al biglietto. Visto che la maggior parte della clientela pagava con valuta cartacea di taglio elevato.
A tutti noi sarà capitato di avere avuto qualche discussione agli sportelli pubblici su chi dovesse procurarsi la moneta spicciola, se il cliente oppure l’impiegato di servizio allo sportello.
Ebbene quel giorno in seguito alla difficoltà in cui si trovava il Titta nel dare il resto al viaggiatore, si animò una controversia rispettosa e bonaria con un viaggiatore per vedere a chi dei due toccasse andare a procurarsi la moneta contante. Nonostante le maniere garbate della discussione nessuno si decideva a cedere, adducendo sempre nuove argomentazioni a sostegno della propria tesi. Alla fine perdendo la pazienza il viaggiatore che fin allora aveva parlato sempre in italiano senza la minima inflessione dialettale sbottò, dicendo, nel più schietto napoletano: “Aggio capito: attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone”. Il Titta restò perplesso, e senza comprendere neanche una parola credette che il simpatico viaggiatore volesse offenderlo.
Quella espressione napoletana era di mia conoscenza, come pure mi era familiare la parlata; ma ciò che particolarmente richiamò la mia attenzione fu il fatto che avesse sanzionato con quella sentenza un battibecco che non avevo potuto seguire durante tutta la contrastata operazione di acquisto del biglietto. Mi stupiva inoltre l’esitazione del Titta che a quelle parole incomprensibili per lui e credute un improperio, non sapesse trovare una risposta, né sapeva perciò come reagire. Allora per toglierlo dall’impaccio mi sporsi verso il suo sportello fino a farmi vedere dal viaggiatore, al quale prontamente e perentoriamente risposi: “Sono del tutto d’accordo; ma anche lei dovrà convenire con me che è sempre meglio attaccà ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone, anziché attaccà ‘o patrone addò rice ‘o ciuccio. O no?”
E la cosa si sciolse con una risata generale. Allora il signore, a sua volta sorpreso, andò a procurarsi la moneta spicciola.

* * *

La cosa strana si verificò dopo, quando rimasto solo col Titta egli mi chiese che cosa avesse detto quel signore e che cosa gli avessi risposto io. Allora, sentita la traduzione che gli feci delle espressioni napoletane, lui mostrò meraviglia che io, napoletano, mi fossi schierato contro un napoletano prendendo le difese di un veronese. Però ancora più grande fu il mio stupore di fronte alla sua meraviglia.
E ce ne volle per fargli capire che, data la situazione e valutate le ragioni dell’uno o dell’altro, non avevo esitato a mettermi dalla parte di chi a me, a torto o a ragione, sembrava essere nel giusto. Veronese o napoletano che fosse.

Luigi Casale

Ho visto solo metà partita

Cos’jé pazzi: “Ho visto solo metà partita”.
(in televisione)

Giovedì sera il Napoli ha giocato la sua partita di Europa League contro l’AIK Solna al Råsunda Fotbollstadion. E l’ha vinta: all’ultimo minuto: ultimo tiro: ultimo gol (per quello stadio). Meno male! … per noi. Purtroppo di quella partita …. ho potuto vedere solo la metà. Meglio andare allo stadio!
Quella di vedere solo metà partita è una vecchia abitudine di casa nostra: da quando c’era il bianco-e-nero.

Un giorno mio padre all’indomani di un’importante partita della Nazionale si sentì chiedere da un suo amico:
– Genna’ ajere t’he vista ‘a partita?
– Sì, Miche’. Ma n’aggia visto solo ‘na metà.
– E che t’he visto? …’O primmo o ‘o sicondo tiempo?
– Aggio visto sulo ‘a metà ‘e coppa, pecché ‘a metà ‘e sotto era tutta scura. Tengo ‘a televisione scassata!

E’ proprio quello che è successo a me giovedì sera. La metà di sotto dello schermo era coperta da una grossa iscrizione: “Siete sul canale provvisorio di ITALIA 1, che sarà in funzione fino al 27 novembre. Siete perciò pregati di risintonizzare i canali e cercare quello giusto. Se non riuscite da soli, potete interpellare un tecnico”.

provvisorio

provvisorio

Canale provvisorio!!!

Tutta la serata con questo “cataplasimo” davanti agli occhi! Immaginate voi?
Né potevo sintonizzare l’apparecchio in quel momento. Avrei suscitato la reazione dei figli che con me volevano vedersi la partita in diretta. Così ne abbiamo visto solo metà. Cos’jé pazzi!
Però fortunatamente, tutto è bene quel che finisce bene.

Luigi Casale

 

Arguzie e facezie

Una persona a me cara che ho frequentato nell’infanzia, e anche in gioventú, trovava mille modi per scherzare; ed era solito farlo in ogni occasione, con tutte le persone che incontrava tranne con i musoni e quelli che lui chiamava semplicemente “chillu fetente”, … e questo non era uno scherzo, ma una cosa serissima! Con esse infatti era di poche parole.

Quest’uomo era mio padre. Giocava in tutti i modi: con i doppi sensi della lingua, con il calcolo aritmetico rapido, con i paradossi, con ogni sorta di paraustiello, con le abilità di prestidigitazione, con i facili trucchetti della fisica e della chimica che lasciano sbalorditi i semplici e fanno arrabbiare gli ignoranti, e anche con il gioco delle tre carte (ma questo solo in famiglia con noi ragazzi).
Ricordo che quando verso i quarant’anni, di botto, improvvisamente smise definitivamente di fumare, continuava ad accettare -se qualcuno gliela offriva- la sigaretta. Poi al momento in cui l’amico avvicinava il cerino o l’accendino per accendergliela, facendo il gesto di mettersela nel taschino, gli diceva: Tu me l’hai offerta volentieri e io l’ho accettata di buon grado. Così siamo contenti tutt’e due. Ma non intendo fumare: come l’ho accettata, per dimostrarti che l’ho gradita, la conservo.

fumatore

fumatore

Sempre sulle sigarette – ma la situazione non muterebbe con qualsiasi altra cosa – quando – al tempo in cui fumava ancora – era lui a chiedere una sigaretta, come si fa tra amici nei momenti di necessità, a chi gli rispondeva: “Ma io ne ho una sola”, lui ribatteva: “Embe’! Io una te n’aggia dimandata. Se te ne avessi chieste due, avresti potuto dirmi: “Nun t’he pozzo ra’, pecché ddóje nun ‘e tengo. In quel caso avresti avuto ragione”.

Qualche volta chiedeva (per finta) di andarne a comprare un numero dispari di sigarette, mettiamo cinque. (Allora era possibile solo per certe marche piú vendute.) E diceva: “Fàttene dare metà col filtro e metà senza filtro”.
– “Ma com’è possibile?” gli rispondeva pronto il ragazzo, se era “nu guaglóne scetato”.
– “E che ci vuole? Ne prendi due col filtro e due senza filtro …”
– “Ma queste sono quattro!”
– “Sí. E la quinta la prendi: da un lato col filtro e dall’altro senza filtro”.

Luigi Casale

 

‘A pusteggia (…la musica è leggera e si fa pesante!)

‘A pusteggia
(…la musica è leggera e si fa pesante!)

Solo tardi ho appreso che lo stazionamento di musicanti con strumenti e con (o senza) altoparlanti nelle piazze, nei larghi, e nei vicoli della città, o nei cortili dei caseggiati delle zone a forte densità di popolazione, si chiamasse “’a pusteggia”. Fu quando la Newton-Compton cominciò a pubblicare alcune serie di tascabili a 1000 lire il volume, distribuiti nelle edicole con cadenza settimanale come i rotocalchi. Così nella primavera del 1995 fu distribuita la serie Napoli Tascabile. Di questi opuscoletti mi capitò di acquistarne qualcuno che è rimasto a casa mia, particolarmente letto. “I posteggiatori napoletani” di Mimmo Liguoro, giornalista RAI. Così ho scoperto quest’altro significato dei termini “posteggiatore” e “posteggia”.
I posteggiatori fino a quel momento, per me, erano i guardamacchine dei parcheggi pubblici (tecnicamente: incustoditi) di fatto custoditi da questo personale “volontario”: posteggiatori che in cambio del servizio chiedevano (e chiedono, ove resistono) un piccolo contributo. Mentre la “posteggia” era stata fin allora – per me e per i miei coetanei accomunati dalla stessa parlata gergale – la pratica del corteggiamento a tecnica stanziale: fare da “palo” restando sempre fisso o infisso nello stesso posto, davanti al portone o sotto al balcone della innamorata, la “fortunata”. O, in alternativa, l’attesa nel luogo fissato per l’appuntamento, dove impalato si aspettava il/la solito/a ritardatario/a di turno.
Quelli che a Napoli erano i “posteggiatori” nella nuova accezione, da noi in provincia erano chiamati concertini, cantanti, o musicanti ambulanti. Qualcuno li nominava anche “straccia-facenne”. Ma credo che la realtà poi al di là del nome, fosse la stessa, anche se noi “provinciali” dimostravamo di possedere un lessico meno colorito e meno sofisticato di quelli della città. Forse, un’altra differenza era che i suonatori di Napoli – qui rimarco il “forse” – avevano più professionalità e forse più sicurezza economica per il mantenimento delle relative famiglia. Mentre da noi, in provincia, più che una prestazione artistica, o una manifestazione di folklore legata ad una tradizione locale, il gesto era percepito come forma di raccolta di elemosina, per non dire (in tono bonario) accattonaggio: occasione di incrementare le entrate che non erano mai sufficienti per chi non aveva altra fonte di reddito.
Questa attività restava comunque una occupazione straordinaria e provvisoria, che doveva durare giusto il tempo della disoccupazione. Specialmente negli anni del dopoguerra: in attesa di trovare un lavoro più sicuro. La provvisorietà legata all’evoluzione dei tempi comportò infatti, che la presenza del posteggiatore andò a ridursi da noi fino a scomparire nel periodo del boom economico. Dal 1946 fino a circa il 1960 si trattò di veri complessi canori, richiesti anche nelle ricorrenze e nelle feste di famiglia. Ma a mano a mano che si riducevano di numero, perché i componenti – musicisti o non musicisti – una volta inseriti nel mondo del lavoro, quello normale, lasciavano l’attività, i pochi posteggiatori superstiti, da soli o in coppia, erano sempre quelli più approssimativi sul versante delle prestazioni “artistiche”.

'a pusteggia

‘a pusteggia

Sicché agli inizi degli anni ’70 a Torre Annunziata era rimasta una sola coppia, che in maniera itinerante – senza più “posteggia” (la scelta di posti fissi [‘o posto], da cui il nome), chitarra e tamburino, giravano per le strade della città – ma anche nei centri confinanti – a chiedere l’elemosina. Non ricordo più se i loro strumenti producessero delle vere melodie o si limitassero esclusivamente a ripetere ritmi monotoni, noiose tiritere, percussioni inutili stordanti e ridondanti, sempre costanti nella loro circolarità, con qualche semplice variazione di crescendo e qualche voluta in chiusura.

“Nicola e Polichetti”, questo il nome del “complesso strumentale”, erano i nostri beniamini. Finché gli diventammo amici. E se Nicola, seppure con qualche dubbio, poteva sembrare il nome del personaggio, Polichetti – pochi sapevano che era un cognome – era ritenuto universalmente un soprannome. Comunque il “duo canoro”, pur non avendo fatta troppa fatica a sceglierselo, si ritrovarono un bel nome d’arte, proprio da professionisti per essere un complesso musicale; il quale si esprimeva però in un contesto di amicizia quando non era addirittura di compassione.
Alla fine anche Nicola trovò un lavoro, saltuario, a giornate, da muratore. E Polichetti restò solo a svolgere la raccolta delle offerte, e continuò a girare per la questua.
Probabilmente cercava di mantenere quel minimo di continuità (il mercato, come si dice oggi) per far sì che nelle giornate in cui Nicola non era chiamato a lavorare, entrambi, riprendessero senza troppe difficoltà la normale attività da essi abitualmente svolta prima. Mantenevano la piazza, insomma cercavano di conservare la clientela: ora che il loro esercizio era avviato cercavano di reggere il mercato.
Ciononostante, non è che le condizioni economiche migliorassero molto.
Eppure c’era un aspetto che rivelava la stretta solidarietà dei due, la piena ed equa ripartizione del ricavato, una condivisione senza riserve e senza alcuna clausola contrattuale. Nicola sul cantiere, e Polichetti in giro per le strade col suo tamburo a raccogliere l’elemosina. E che di elemosina si trattasse lo rendeva evidente il fatto che le persone neppure ascoltavano più il ritmo del tamburo, orfano della chitarra, che era divenuto esclusivamente un vero e proprio richiamo, e rottura … di timpani. Il povero Polichetti faceva quello che poteva. Strimpellava, o meglio percuoteva, al ritmo di marcetta, tambureggiando. E raccoglieva quello che gli offrivano. Ma mentre il guadagno di Nicola in qualche modo era noto, e in un certo senso maggiormente controllabile anche se era ancora senza busta-paga (e chi t’a ra?), il ricavato di Polichetti era completamente aleatorio, instabile, incostante, senza nessuna possibilità di previsione. Ciò dava sconforto al povero Polichetti: sconforto anche che si potesse dubitare della sua lealtà, talché lo portava talvolta a rinunciare al suo giro. D’altra parte questo fatto – non che egli dubitasse dell’onestà dell’amico (e della sua fiducia), più che di un socio – metteva Nicola nella condizione di sospettare che Polichetti rientrasse dalla questua in anticipo, sfiduciato dal modesto raccolto.
Allora d’accordo, com’erano sempre stati in tutto, decisero di fare uscire Polichetti col tamburo sui fianchi, legato nella vita da una catenella di ottone, fissata con un lucchetto, la cui chiave era custodita da Nicola. Nessuno stupore per le persone che lo incontravano durante il servizio. Molti neppure si accorgevano della novità. Altri pensavano che fosse per avere le mani libere onde governare più comodamente le bacchette che roteavano libere nell’aria, o, anche, per dare semplicemente stabilità al tamburo.
I due soci continuarono ad essere amici indivisibili, anche se uno aveva famiglia e l’altro era scapolo. Chi non li conosceva personalmente li pensava addirittura cognati, perché solo la presenza di una donna forte, economa, legata a entrambi da una comune sorte, poteva più facilmente spiegare la perfetta riuscita di quel sodalizio.
La sera, dopo il rientro dell’uno e dell’altro dai rispettivi “lavori”, liberato Polichetti dal tamburo che lo aveva obbligato l’intera giornata, controllato l’incasso, si recavano al bar del dopolavoro ferroviario, per un caffè o una cioccolata, due chiacchiere e una partita a carte. Non so per quanto tempo durò questo comportamento. Intanto anch’io cominciai a lavorare, e li persi di vista. Ma ricordo che negli ultimi tempi, quando di sera venivano al bar del dopolavoro, a chi gli chiedesse come era andata la questua quel giorno, Polichetti, purché si trattasse di amici e che la domanda fosse formulata seriamente e senza intenti canzonatori (sfottò), rispondeva: “Beh! ‘A musica è leggera, e si fa pesante…”

Luigi Casale

Ho visto solo metà partita

os’jé pazzi: “Ho visto solo metà partita”.
(in televisione)

Giovedì sera il Napoli ha giocato la sua partita di Europa League contro l’AIK Solna al Råsunda Fotbollstadion. E l’ha vinta: all’ultimo minuto: ultimo tiro: ultimo gol (per quello stadio). Meno male! … per noi. Purtroppo di quella partita …. ho potuto vedere solo la metà. Meglio andare allo stadio!
Quella di vedere solo metà partita è una vecchia abitudine di casa nostra: da quando c’era il bianco-e-nero.

Un giorno mio padre all’indomani di un’importante partita della Nazionale si sentì chiedere da un suo amico:
– Genna’ ajere t’he vista ‘a partita?
– Sì, Miche’. Ma n’aggia visto solo ‘na metà.
– E che t’he visto? …’O primmo o ‘o sicondo tiempo?
– Aggio visto sulo ‘a metà ‘e coppa, pecché ‘a metà ‘e sotto era tutta scura. Tengo ‘a televisione scassata!

E’ proprio quello che è successo a me giovedì sera. La metà di sotto dello schermo era coperta da una grossa iscrizione: “Siete sul canale provvisorio di ITALIA 1, che sarà in funzione fino al 27 novembre. Siete perciò pregati di risintonizzare i canali e cercare quello giusto. Se non riuscite da soli, potete interpellare un tecnico”.

provvisorio

provvisorio

Tutta la serata con questo “cataplasimo” davanti agli occhi! Immaginate voi? Né potevo sintonizzare l’apparecchio in quel momento. Avrei suscitato la reazione dei figli che con me volevano vedersi la partita in diretta. Così ne abbiamo visto solo metà. Cos’jé pazzi!Però fortunatamente, tutto è bene quel che finisce bene.

Luigi Casale