Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.
Maurizio Cuomo
‘o Panzaruttaro
( a cura di Gioacchino Ruocco )
Già all’epoca dei romani c’era la consuetudine di consumare cibi per strada acquistandoli nelle botteghe sottocasa o posti sui decumani; peccato che a quei tempi dalle nostre parti si ignorasse ancora l’esistenza della patata (importata per la prima volta in Europa nel 1535, dallo spagnolo Francisco Pizarro, quando al suo rientro in patria da un viaggio in America, ne fece dono ai regnanti), un particolare questo che di certo ha negato ai nostri avi il piacere di degustare qualsiasi stuzzicheria a base di questo tubero.
Personalmente ho visto per la prima volta un panzaruttaro ambulante, all’età di dieci anni, quando i miei genitori mi permisero di andare a cinema assieme ai ragazzi più grandi che abitavano nel vicolo. All’uscita dell’allora cinema “Nazionale” dove avevamo assistito, credo, al film dal titolo “La cena delle beffe” con Amedeo Nazzari, l’odore del fritto mi attirò inevitabilmente perché era tardi pomeriggio ed incominciavo ad avere fame, “tenevo na lopa”, come si diceva allora, quando Mc Donalds non era ancora arrivato dalle nostre parti. Dietro al banchetto c’era un uomo che riduceva , di volta in volta, un impasto informe in piccole palle che poggiava su un panno bianco per dar loro, successivamente, la forma di sigari girandole velocemente tra le mani. Nella parte del banchetto vicino alle stanghe, che servivano per guidarlo nelle fasi di trasferimento, era alloggiata una caldaia in rame stagnato per la cottura del prodotto che non era l’unico, vista la varietà di cibi di strada presenti nel repertorio culinario napoletano, come le palle di riso, i carciofi fritti, la pizza fritta, gli scagliuozzi e le crocchette di patate, che noi in dialetto chiamiamo panzarotti senza dimenticare quelli che hanno la forma di mezza luna e vengono riempiti con mozzarella e pomodoro, ecc. Bastarono due di essi a calmare il borbottio dello stomaco anche perché il costo di ognuno di loro non mi consentiva di comprarne di più con i soldi che mi erano stati assegnati. Il carrettino poggiava su due ruote e su un puntale dalla parte delle stanghe, in modo da avere un assetto stabile in fase di fermo, in più presentava una copertura per proteggere il piano di lavoro contro la piaggia e dei ripiani vetrati che consentivano all’avventore di guardare il prodotto disponibile ma di non toccarlo: unica garanzia di igiene alimentare che all’epoca veniva offerta. Nelle mie escursioni saltuarie a Castellammare, l’ultima volta che mi è capitato di vederlo è stato una decina di anni fa. Di sera il carrettino veniva illuminato con una lampada ad acetilene che nel tempo lasciò, per la sua pericolosità esplosiva, il passo a quelle alimentate da GPL (gas di petrolio liquefatto). E’ vero che le perdite e le scomparse ci fanno recriminare contro il progresso o le norme che vietano la produzione di beni con le condizioni di igiene descritte, ma non ho mai saputo di qualcuno che abbia sofferto per i panzarotti così prodotti. I mestieri scomparsi nella pratica sono tanti, basta riandare alle pubblicazioni che ne trattano, fortunatamente per i golosi del fritto, questo mestierante ambulante è ancora attivo in diverse zone di Castellammare. La ricetta dei panzarotti (crocchette di patate) che ho rintracciato nell’Enciclopedia della donna (ed. Fabbri) e in altre pubblicazioni, prevede necessariamente le patate, il parmigiano, le uova, la noce moscata, sale quanto basta e olio per friggere. Le patate, le uova e il sale sicuramente c’erano nell’impasto di allora; il parmigiano e la noce moscata non credo proprio. Il pepe, estraneo alla ricetta, era sicuramente presente perché, profuso in abbondanza, dava fastidio allo stomaco. Il resto, nella mia prima volta, lo fece l’appetito, la fantasia e la temperatura calda del prodotto che fu divorato caldo, come raccomandava il panzaruttaro e l’autore del ricettario.