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Pillole di cultura: Cuccetelle e scazzuòppoli

a cura del prof. Luigi Casale

Talvolta sembro straniero tra la mia gente. E non perché, in qualità di emigrante ogni volta che torno sono sempre di meno le persone di mia conoscenza e tante, tantissime, quelle che non avevo mai viste; o anche perché rientrando non ne riconosca più la lingua. Anzi proprio per aver vissuto lontano lunga parte della vita mi accorgo di conservare un patrimonio di parole che ormai sembrano perdute dai miei paesani.
Ricordo che da ragazzo quando la mamma faceva la pasta in casa – e a casa nostra capitava spesso: qualche volta se ne offriva anche alle zie e alle stesse sue commarelle – noi, il tipo più diffusa, le cuccetelle, le chiamavamo proprio cuccetelle. E così la famiglia della nonna da cui forse ci veniva questa denominazione di questa pasta, semplice da prodursi, ma che richiedeva tuttavia una grande abilità che solo il tempo e la pratica potevano fornire.
Si affusolava l’impasto (solo semola di grano duro doppio zero che noi compravamo da Cutigniello – Ditta Molino e Pastificio Gallo – e acqua tiepida), in spessi cordoni: si tagliavano in pezzettini questi cilindri allungati, i quali, nello stesso tempo che la lama del coltello separava, venivano resi a forma di piccoli cubi: il tempo di una leggera stagionatura, ed ecco che, schiacciati e adattati sulla estremità del pollice, e … u vi’ lloco! … a cuccetella era pronta da poggiare sul panno bianco accanto alle altre fino a farne uno o due chili a seconda della necessità: più spesso la minima quantità giusto per la cottura giornaliera della famiglia.

cuccetelle

Le cuccetelle del “Casale”

 

Tante piccole cucce (crani, teste, pelate), perciò cuccetelle, distese sulla tovaglia, il tempo che si asciugassero.
[Di mio padre che dai venti anni in su fu calvo, in famiglia si diceva scherzosamente e simpaticamente che aveva la cuccia]. Perciò oggi che anche la lingua napoletana si è appiattita sul quella toscana, le cuccetelle si direbbero, tutt’al più, cappelletti. Ma quello che non capisco… perché orecchiette?
E poiché “cuccetelle” non solo si chiamavano nella nostra famiglia, ma anche presso i vicini di casa, e – suppongo – così in tutta la città, allora io continuo chiamarle cuccetelle, anche se non l’ho mai trovato scritto sulle confezioni in commercio.
Quanto all’etimologia della parola, l’ipotesi è la seguente. Cuccetelle diminutivo di cuccia (testa rasata); cuccia da coccia, a sua volta come metafora, dal latino cochlea (conchiglia).
La stessa cosa mi capita con la parola “scazzuòppoli” con cui noi chiamavamo gli gnocchi, pur sapendo che molti li chiamavano strangulaprieviti.
Anche quest’ultimo termine mi sembra d’importazione. Allora, metafora per metafora, io continuerò a chiamare scazzuoppolo il piccolo manufatto di semola e farina con aggiunta di fecola di patata, senza forma definita. Mi sembra più adatto alla forma dello scazzuoppolo. Anche se poi mi presenta qualche problemuccio per ricostruirne l’etimologia.
Chi usa la parola però, attraverso alcuni passaggi analogici non ha difficoltà ad isolare alcuni tratti semantici presenti in essa. E partiamo da scazzimma: cispa. Questa è prodotta normalmente dagli occhi; ma, in quantità notevole, quando essi sono affetti da congiuntivite.
Scazzare è, almeno per noi, stuzzicare o scrostare eventuali incrostazioni o secrezioni biologiche dalle parti delicate del corpo, da cui anche il più generico scazzellare (scollare, separare, isolare), contrario di azzeccare.
Quest’ultimo termine mi costerà un ulteriore approfondimento.
Quindi se scazzimma equivale a “caccola biologica”, per analogia scazzuoppolo è il pezzetto di pasta fresca senza una sua forma determinata.

L.C.

 

 

Pillole di cultura: Cultura

a cura del prof. Luigi Casale

(Pillole di cultura: Dettata da un’emozione profonda (e dal desiderio di commemorare la figura del preside Carosella, amico e maestro), nasce oggi l’analisi semantica della parola cultura, proposta dal prof. Casale).

Come sanno i lettori amici del liberoricercatore, questa modesta rubrica “le pillole” è classificata sotto la voce “cultura”.
E’ giusto pertanto dedicare anche a questa parola, così importante, l’attenzione che merita. Perciò oggi la mia (e vostra) ricerca riguarderà il lemma “c u l t u r a“.
Avremmo dovuto farlo già da tempo. Ma, ora, fatto il necessario mea-culpa, senza pretesa di averne una giustificazione, vi provvedo a tambur battente.

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Lemma si chiama ogni voce del vocabolario, considerata come elemento unitario del lessico (insieme dei lemmi) . E significa “cosa detta (o pensata)”; quindi, parola.
La parola “lemma” etimologicamente deriva dalla radice greca: leg/log , da cui derivano anche il verbo “légō” (dico) e il sostantivo “lógos” (discorso, pensiero, parola) tante volte richiamati in queste pagine; e tante altre parole italiane, come lettura, leggenda, logica; nonché i suffissi “-logìa” e “-logo”.
Il tipo di struttura linguistica della parola lemma [leg + mat = lemma] indica generalmente una cosa concreta, una “sostanza”, che prende significato dall’azione indicata dal verbo. Quindi: lego = dico; lemma = cosa detta. Di queste parole ce ne sono tante nella lingua italiana – e in tutte le lingue europee – e sono quelle che terminano con la sillaba “ma” [da: –mat], come lemma, appunto; e sono tutte maschili, in quanto le originarie parole greche così formate sono di genere neutro. Vedi: dilemma, teorema, problema, idioma, tema, ecc. patema o politeama. E anche lemma. Ma ce ne sono ancora tantissime.

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Oggi, però, parliamo di “cultura”. Forse ne ho accennato a proposito di “colono”. Parola, insieme a “cultura” e a “culto”, etimologicamente collegata al verbo latino “colo” (= coltivare/abitare/venerare).
Ad ogni modo se la “cultura” è dei dotti, come generalmente si ritiene, e “colono” è, invece, il contadino (o l‘abitante della colonia, il colonizzatore), come ognuno bel sa; “culto” è un servizio verso la divinità, un atteggiamento collettivo proprio dell’uomo religioso. Questo collegamento semantico delle tre parole, riconducibili alla medesima radice, alla fine di questa nostra disquisizione dovrebbe aiutarci ad evitare i diversi pregiudizi sociologici dovuti – per la parte che ci interessa – alla scarsa competenza della lingua (quanto a trasparenza).
Vuoi vedere che proprio questo si vuole significare – cioè il superamento della visione di una società tripartita, fatta di dotti (aristocrazia), clero e contadini – quando si dice: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”? Cosa che tuttavia non sempre va a genio alle altre due categorie: i dotti e il clero che vorrebbero distinguersi dai coltivatori: i cafoni.
Nello stesso tempo, però, la nostra riflessione ci fa capire anche un altro dato di fatto: cioè che all’albore delle civiltà la classe sacerdotale, con l’anelito di penetrare il muro del mistero, si fa depositaria delle conoscenze acquisite che poi essa stessa custodisce attraverso un sistema di segni grafici, creando la scrittura.
Quindi “colo”, verbo latino, originariamente significa “coltivare” (e quindi abitare un luogo). O che sia la terra l’oggetto del colo, o – per metafora – la casa, o la regione geografica; o che sia la persona stessa, la famiglia, il gruppo sociale, il “colere”, il “coltivare”, rappresenta sempre una tipologia di attività, pratica o ideale, indispensabile alla vita umana, che in base all’oggetto può essere: l’agricoltura (che come conoscenza e abilità tecnologica rappresenta e comprende tutta la cultura materiale), il gusto del bello (estetica) o il senso del giusto (morale); o, nella forma più alta, la riflessione sulla condizione umana e la conseguente opzione esistenziale (filosofia e religione). Solo questa costante attività del “coltivare e coltivarsi” procura la autodeterminazione razionale, cioè la libertà.
Questa – a parer mio – è la vera comprensione della parola “cultura”.

Pillole di cultura: Deriva

a cura del prof. Luigi Casale

L’imbarcazione senza ormeggi e senza pilota va “alla deriva”.
Ogni volta che si rappresenta una realtà in evoluzione, cioè “naturalmente in movimento” (geografica, sociologica, linguistica), alla fine se il processo sfugge al controllo, si parla di “deriva”. Perciò c’è la teoria della “deriva dei continenti” per cui le grandi masse terrestri (i continenti), che si suppone facessero parte di un unico blocco (pangèa), dopo essersi separati continuano a spostarsi e, scivolando sulla piattaforma sottostante, si allontanano, ognuna in una direzione diversa e opposta.
E si dice “deriva linguistica” il fenomeno di allontanamento (puramente ideale) formale e strutturale – fonetico e morfosintattico – delle lingue generate da un’unica lingua originaria. Per esempio la grande famiglia delle lingue indeuropee, oppure le moderne lingue europee dette romanze perché derivate dalla lingua dei Romani, il latino e perciò dette anche neo-latine.
Così si parla di “deriva morale” (o sociale) a proposito di sbandamenti e allontanamento di individui o di gruppi dal sistema di valori condiviso e sperimentato.
Il tratto semantico che caratterizza le parole italiane che hanno alla base la radice di “deriva” è quello di “allontanamento per separazione”.
Questa radice è la stessa di “rivus” (corso d’acqua); modificata poi dal prefisso “de” (provenienza e allontanamento); per questo motivo il verbo “derivare” originariamente – prima cioè di un suo uso traslato, in conseguenza della metafora – significa “far defluire da un fiume (o da un lago) un corso d’acqua”. La parola poi, proprio a causa di una generalizzazione dell’uso metaforico, è andata a coprire tutta la grande area di significato che conosciamo oggi e con cui usiamo la parola: familiarmente e con competenza.
Altra cosa è “arrivare”, che è formata dalla parola “ripa” (sponda del fiume). Quindi “ad ripam” è: dirigersi verso la sponda. Le due parole latine: “rivus” (corso d’acqua) e “ripa” (sponda) sono apparentate, in quanto risalgono alla comune radice “rve”; “Arrivare”, dunque (ad ripam ire = andare verso la riva), è raggiungere una meta, un obiettivo, un termine: sia del percorso spaziale che di quello ideale.
Arrivare, a rigore, non è il contrario di derivare anche perché alla loro base vi sono due parole diverse.

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“Rivalis” – sostanzialmente – è colui che sta sulla sponda opposta, il dirimpettaio. Oggi invece è il nemico (rivale).
Lo stesso mutamento di significato era avvenuto presso i Romani con la parola “hostis” (nemico).
Hostis all’origine doveva essere “straniero”. Basti pensare al tedesco Gast (ricostruito sullo stesso ètimo) che significa ancora “forestiero, ospite, invitato”. E alle prole italiane: oste e ospite. Nonché a “hotel”.
Poi di nuovo, partendo dallo stesso concetto di straniero, si determinano connotazioni opposte nelle parole: ospitalità e ostaggio. La prima con l’idea di positività, la seconda tutta negativa.

Pillole di cultura: Desiderare

a cura del prof. Luigi Casale

Se vediamo una stella cadente – si sa – esprimiamo un desiderio. Chi sa perché?
E’ la fascinazione che le stelle esercitano sulla nostra vita. E’ un fatto proverbiale.
La contemplazione del cielo stellato, la convinzione di ricevere ognuno l’influsso di una stella, la stessa credenza che il nostro destino sia determinato dalla congiunzione degli astri (con tutta la conseguente produzione di oroscopi), ci mettono in un atteggiamento di acquiescenza di fronte a questo potere misterioso. Quasi a voler sottolineare la nostra dipendenza dal cielo, o meglio, il riconoscimento della nostra limitatezza e, nello stesso tempo, della nostra forza e della potenza delle nostre aspirazioni. Probabilmente questo atto, esistenziale e filosofico insieme, è la intuizione della dignità di esseri pensanti, che ci appartiene.
“Sidera” in latino sono gli astri, le stelle. In italiano esiste l’aggettivo “siderale”.
Chi ci crea qualche problema è il prefisso avverbiale “de”. La preposizione corrispondente vale come caratteristica che indica una separazione, oppure una provenienza dall’alto. “Privo di”. Oppure: “Discendere da”.
Presso i Romani, e in genere presso tutti i popoli antichi, gli àuguri, tra gli altri sistemi di segni (come viscere di animali, voli d’uccelli, ecc.) da cui trarre gli auspici, avevano anche le stelle. E quando il cielo era coperto, la privazione delle stelle era un ostacolo al riconoscimento di quelle certezze che essi cercavano; per cui la condizione di insoddisfazione per questa mancanza era un “desiderare” cioè essere privi delle stelle; e, di conseguenza, anche di quelle realtà di cui ognuno si immaginava che le stelle fossero portatrici. (In questa prima ipotesi il “de” ha un valore privativo).
Nel suo secondo significato di “discendere da” l’interpretazione più che essere opposta appare complementare alla prima ipotesi. Cioè “desiderare” significherebbe aspettarsi dalle stelle quelle cose di cui per il momento siamo privi (causa la mancanza delle stelle).
Ora ci rendiamo conto di che cosa veramente significhi essere nati sotto una buona stella?
Contrariamente agli “assiderati” che muoiono dal freddo per essere stati tutta la notte “sotto le stelle” (latino: “ad sidera”), o esposti alle inclemenze della stagione fredda.

 

Pillole di cultura: Meteco

a cura del prof. Luigi Casale

Metèco è lo straniero che vive stabilmente in uno Stato; e come tale, visto con ostilità. Nel greco moderno la parola significa semplicemente “straniero”. Essa è formata a partire dall’antica espressione greca μέτ-οικος = che ha cambiato casa (o separato da casa, cioè lontano; e quindi emigrante).
I meteci, nell’antica Atene, erano gli stranieri residenti. Queste persone non partecipavano alla vita politica della città, ma, purché pagassero una tassa, potevano svolgere tutte le attività in piena libertà.
La parola, da sempre usata dagli storici per lo studio dei rapporti sociali nell’antica Atene, è stata recuperata all’uso corrente in Europa, entrata anche nel lessico italiano, dopo il successo discografico del cantante greco-francese Georges Moustaki (1969), che in una famosa sua canzone tale si definiva.
Perciò potremmo anche dire che “meteco” ci viene dal francese. Specialmente se consideriamo la posizione dell’accento tonico (“metèco” dal fr. métèque).
Così succede per tante altre parole apparentemente entrate nella nostra lingua dal francese o dall’inglese. Mentre difatti esse sono molto più antiche, e già conosciute in Italia dai classicisti. Come, per esempio, la parola reclàme. In latino esiste “rèclamen” che dovrebbe dare in italiano réclame (e così è stato; e continua ad esserlo solo per qualche vocabolario e per i puristi). Noi, invece, i parlanti quotidiani diciamo “reclàme” utilizzando la forma francese “réclame” ( pronuncia: reclàmə).
Ma se proprio qualcuno volesse fare una bella figura, (non so però a che cosa possa servirgli!) può anche dire rèclame e mèteco. Correndo il rischio – se nessuno lo capisce – di essere guardato male.
A lui la scelta.

[Vedi: economia, ecologia, parrocchiano, diocesi, ecumenico, ecc.].