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Pillole di cultura: Diocesi

a cura del prof. Luigi Casale

Sono tante le parole che contengono nella loro composizione l’elemento strutturale “eco/oco”, di origine greca, che in qualche modo aggiunge alla parola composta il significato di “casa”. (In questa rubrica ne abbiamo già esaminate alcune: economia, ecologia, parrocchiano, parrocchia.) Diocesi è una di esse.
Oggi la diocesi è la circoscrizione territoriale sottoposta alla giurisdizione di un vescovo. Ma all’origine, al tempo della riforma dell’impero Romano fatta da Diocleziano, la diocesi era una delle unità territoriali amministrative in cui era stato diviso l’impero; quindi una regione molto più ampia delle attuali diocesi.
La parola deriva dalla espressione greca: dià oikías (διά οικίας = attraverso le case), e significa: unione di più centri abitati.
Come ho detto, nell’organizzazione territoriale della Chiesa cattolica la diocesi è guidata da un vescovo (“episcopo” – sempre di origine greca – che letteralmente significa: colui che osserva dall’alto; o che guarda intorno. Cioè – diremmo oggi – il guardiano, il sovrintendente o, anche, il pastore).

Pillole di cultura: “di primo pelo”

a cura del prof. Luigi Casale

Oggi si usa l’espressione “di primo pelo”, molto diffusa, per dire “giovane”, “nuovo del mestiere”.
L’espressione, infatti, proprio questo significa; anche se il pelo o la barba incipiente non c’entrano proprio niente. Ma perché?
Se questa espressione significa “giovane” lo è solo per traslato. Vale a dire grazie ad una metafora (parola che è sinonimo di traslato). Le due parole sono – esattamente – dei “calchi”, cioè una è la copia dell’altra; sempre dal punto di vista della semantica.
Traslato viene dal latino (trans + latum [dove “latum” è uno dei temi del verbo fero=portare]) e significa: portare attraverso, portare di là; quindi traslato = “trasportato”, trasferito.
Metafora è invece di origine greca (metà + phoréō e significa la stessa cosa “trasportato”.
Ciò che è trasportato – secondo il significato delle due parole – da una determinata sfera lessicale ad un diversa sfera lessicale è proprio il significato.
Il parlante che usa una determinata parola, appartenente ad una certa sfera di parole (si dice anche: lessicale), è capace e/o decide, o in maniera autonoma ed originale, oppure, appoggiandosi ad una convenzione già esistente tra i parlanti, di trasferirne il significato ad una realtà che dovrebbe essere indicata con un’altra parola (appartenente perciò ad una diversa sfera lessicale). [Si definisce sfera lessicale un elenco di parole che ruotano tutte intorno allo stesso argomento].
La definizione della metafora, così come l’abbiamo formulata, sembra complessa; ma – mi pare – chiara e completa.
Una più evidente spiegazione ce la darà proprio l’esame della espressione che stiamo esaminando. Se il pelo di cui si parla qui fosse veramente il pelo della barba o altra peluria adolescenziale (come si è portati a credere; e come certamente lo è per chi la lingua è opaca), il significato di “primo pelo” passando all’adolescente che comincia a sperimentare la comparsa e la crescita della barba, andrebbe a significare – in altre parole – giovane o giovanile. In questo caso si parlerebbe del pelo per indicare la persona a cui il pelo appartiene. E già questo comportamento è un esprimersi “per metafora”. Anche se qui è comunque presente un legame logico, cioè un certo rapporto di vicinanza, tra le due realtà a confronto. Le grammatiche dicono “la parte per indicare il tutto”.
Però si dà il caso che il nostro “pelo” (quello della espressione da cui siamo partiti e che usiamo abitualmente, non è il pelo anatomico della specie umana, il quale, se riferito alla barba, indicherebbe l’individuo maschio adulto. Se riferito ad altro pelo indica “che sta crescendo”, maschio o femmina che sia.
Il “pelo”, di cui si parla – veramente (e qui entra la semantica storica) – è il “pilum” dei Romani, cioè il giavellotto, una specie di lancia corta che faceva parte della dotazione del soldato. È solo un caso che anch’esso sia riferito all’uomo, maschio, adulto. Ma – in questo caso: è il caso di dirlo – qui si tratta di un dato di cultura, non di un dato di natura.
I Romani chiamavano “primipìlus” il soldato di prima fila, o il comandante di una unità militare, com’era il centurione. Ma non è escluso neppure che con questa espressione si potesse indicare il soldato appena arruolato (“alle prime armi”, si direbbe oggi; al “primo giavellotto”, avrebbero detto i Romani. In latino: “primpìlus”. E allora – solo per puro caso – le due espressioni, quella antica e quella moderna, quella trasparente e quella ancora opaca, coinciderebbero).
In Cesare, però, e in altri autori il “primipìlus” è il centurione del primo manipolo dei triarii, i veterani: quelli con tre lustri di anzianità e perciò all’ultima ferma, la quarta. Quindi è il comandante dei più anziani, anziano egli stesso.
A conclusione di questa nostra conversazione possiamo notiamo come la trasparenza della lingua rischia di stravolgere completamente il significato dell’espressione.
Comunque resta il fatto che è meglio saperle le cose, che non saperle.
Conoscere è meglio di non-conoscere.

Pillole di cultura: Eccetera

a cura del prof. Luigi Casale

Ecc., ecc. – Che strano trovare quest’eccetera-eccetera all’inizio del discorso! –
Sì! E’ vero. Certe volte ce ne sono di quelli che quando la parola gli piace te la condiscono in tutte le insalate, la usano dappertutto e chi è attento a queste cose si accorge che essa è fuori luogo. Allora due sono i casi: o l’ha imparata da poco, e allora per non dimenticarla, forse inconsciamente, la va ripetendo spesso per farla sua. O pensa che la parola sia chic, e faccia scicche anche esibirla. (Anzi i casi sono tre). Oppure ha un tic, non può fare a meno di ripeterla almeno una volta ogni dieci parole. Il vizio è più forte di lui. Eccetera. Eccetera!
Questa parola, da sola, o ripetuta due volte, la si usa per interrompere una sfilza di tante altre cose, cosicché facciamo a meno di nominarle, o perché pensiamo che il ricevente le conosca, oppure che le possa immaginare, o che tutte quelle eventuali precisazioni alle quali rinunciamo non siano necessarie ai fini della comprensione dell’atto comunicativo. Eccetera.
“Eccetera” è la forma agglutinata dell’espressione latina “et cetera” e significa “e le restanti cose”, “e ciò che segue”, “e le altre cose”.
In latino ci sono diversi aggettivi (o pronomi) per indicare il concetto di altro. E questi, quasi tutti, si sono conservati nella lingua italiana; come: altro [alius]; altro tra due [alter]; restante [reliquum]; tutti quanti gli altri (maschile) [ceteri]; tutte le altre cose (neutro) [cetera].
I giovani latinisti sanno che al neutro plurale ceterus fa cetera = tutte le altre cose. Quindi: “et cetera” = “e tutte le altre cose”.

Pillole di cultura: Ecologia

a cura del prof. Luigi Casale

Per facilitarne la sua comprensione e il nostro compito della classificazione, ci conviene subito collegare questa parola all’ultima da me trattata, cioè al lemma economia. Se economia è l’amministrazione – si vorrebbe: saggia – della casa, come detto [védine la spiegazione nel relativo lemma], ecologia [da oíkou e lógos (οίκου + λόγος)], della casa è il “discorso”: la scienza, la disciplina. Intendendo per casa l’ambiente in cui viviamo (quindi il mondo), e per discorso una riflessione responsabile e possibilmente scientifica su di esso.
Allora diciamo meglio. Ecologia è tutta la serie di interventi [e quindi lo studio e la pratica] che si sono sviluppati negli ultimi tempi sulla salvaguardia dell’ambiente: acqua, aria, terra. La natura, insomma, intesa come la “casa” dei viventi. Per far sì che vi ci si possa ancora vivere.
Se poi allarghiamo il discorso al giusto utilizzo delle risorse della terra (o, meglio, il creato) – sempre per consentire ai “viventi” ( tutti! ) di viverci in maniera degna e rispettosa – ci rendiamo conto del diretto collegamento tra le due parole: economia ed ecologia. E delle due realtà che esse rispettivamente denotano.
(E meno male che si era detto che non si dovesse parlare di politica!)
E di morale? Si può?

Pillole di cultura: Economia

a cura del prof. Luigi Casale

Una volta esisteva una materia scolastica che si chiamava Economia domestica. Era riservata alle ragazze delle scuole medie.
Per chi avesse avuta una formazione universitaria, per chi leggeva il giornale, per chi in qualche modo seguiva le sorti dei propri risparmi, per chi solo masticasse un poco di politica, o conducesse in proprio una qualsiasi attività produttiva, per costoro l’economia – parola altisonante – corrispondeva ad una cosa complicata da coinvolgere ed interessare addirittura la vita e la sorte degli uomini e degli stati.
Per essi il sentir parlare di “economia domestica” appariva una vistosa banalizzazione.
Per noi invece – gente non sufficientemente acculturata e non in grado allora di comprendere i sottili legami tra le parole – per noi “economia” era, sì, una parola importante, ma non certo collegata, né alla sorte delle nazioni, né tanto meno – per essere “domestica” – alla formazione scolastica delle fanciulle. Nella nostra lingua (e nella nostra vita) l’economia era un impegno serio di tutta la famiglia. Era sinonimo di risparmio. E come tale non poteva essere altro che domestica.
Mio padre usava spesso questa parola. Soprattutto perché sapeva bene che quanto guadagnato il giorno prima non sarebbe bastato, il giorno successivo, a dare da vivere a cinque persone. E ad una famiglia non servono solo gli alimenti. Per quanto importanti e … indispensabili. “Non di solo pane vive l’uomo!”
Per la mamma era una parola sconosciuta, ma lei era quella che più di tutti sapeva metterla in pratica: cercava di realizzarla senza farcene accorgere. E in effetti sembrava che non ci mancasse niente. Con questa percezione siamo cresciuti.
L’espressione “Economia domestica” perciò, a chi per un verso a chi per l’altro, appariva un accostamento di parole che disturbava, in quanto l’aggiunta dell’aggettivo “domestica” sminuiva, offendeva, nell’uno e l’altro caso, la pretenziosità, la solennità, propria dell’altisonante termine “economia”. Era, insomma, un’inutile ridondanza. Poi, in età di scegliere la facoltà universitaria, scoprimmo che fra i percorsi degli studi superiori esisteva anche una “laurea in economia e commercio”.
Adesso che gli studi li ho terminati, con cognizione di causa mi chiedo: Ma come fa l’economia a non essere domestica? E non lo dico, perché chi sa da quale ideologia soggiogato; ma proprio perché sotto l’aspetto puramente linguistico l’espressione non regge. Dal punto di vista della semantica storica. Etimologicamente parlando. Perché l’economia o è “domestica” o non è.
E vediamo perché.
“Domestica” – che non è la cameriera – significa: che riguarda la casa (lat: domus). Perciò si tratterebbe di una “economia” che riguarda la casa.
Ma analizzando poi la parola “economia”, troviamo che essa è formata da due radici greche: oíxou e nómos (οίκου + νόμος) di cui la prima significa “della casa”, e la seconda: “legge, governo, amministrazione”. Economia, dunque, stando alla sua forma etimologica è proprio il governo, l’amministrazione della casa (oíkou).
Quindi dire economia domestica è come se dicessimo “domestica amministrazione della casa”. A questo punto è naturale chiederci come fa l’economia ad essere anche domestica?
Evidentemente la metafora, attraverso l’uso originale che il parlante ha fatto e fa della parola “economia”, ha portata il termine a coprire un’area di significato molto più ampia di quella indicata dalle due radici di cui essa è formata. Perciò per ricondurla al significato originario, quello etimologico, è stato necessario aggiungere l’aggettivo “domestica”. Ricavato questa volta dalla lingua latina.