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Pillole di cultura: Uósemo

a cura del prof. Luigi Casale

a parola “uósemo”, usata nel meridione d’Italia, a Napoli significa “fiuto del cane”. Essa come tantissime altre parole è un relitto della lingua greca, che più a lungo si è parlata nell’Italia bizantina. Ed è originata dalla forma “osmé” o “osmòs” (odore), parole collegate al verbo “osmao” (odoro, fiuto). A loro volta, rispettivamente, da “odmè” (odore) e “ozo” (mando odore, esalo), corrispondenti ai vocaboli latini: “odor” (sostantivo: “odore”) e “oleo” (verbo: it. “olezzo”).

L.C.

P.S. (post scriptum = dopo aver scritto)
Chiedo scusa ai cultori della lingua greca e agli appassionati della sua grafia se ho scritto gli etimi greci con grafia latina. E’ colpa della mia modesta attrezzatura informatica e delle mie limitate capacità a reperire tabelle.
Ciò ha comportato qualche inesattezza, quanto agli accenti grafici e alla lunghezza delle sillabe (cose che non influiscono sulla comprensione del messaggio nella sua essenzialità). Agli esperti non mancheranno gli elementi per la ricostruzione graficamente ineccepibile della corretta lettura.

Pillole di cultura: Agenda

a cura del prof. Luigi Casale

Faccio in tempo a parlarvi di agenda?
Certo, avrei potuto farlo prima! Considerato l’uso diffuso della parola specialmente negli ultimi tempi.
Ma dopo che anche il quotidiano “la Repubblica” (giovedì, 3 gennaio 2013) ha dedicato un paginone alla parola (nello spazio: “R2-DIARIO di Repubblica”), non posso esimermi.
Perciò nel rispetto dei miei quattro lettori non mi tirerò indietro. Anche se la riflessione a più voci presentata sul giornale la Repubblica – suggerita dalla attualità della formula “agenda Monti” – ne spiega l’uso e il significato nel linguaggio della politica.
Il mio intento resta comunque fedele alla affermazione posta a cappello di questa rubrica. Ciò, per non lasciare l’affezionato mio lettore, desideroso di addentrarsi in un più personale percorso di lettura della parola, privo di quel metodo che nella sua modestia appare più vicino, più quotidiano, più familiare: tutto nostro, insomma.
Nella pratica noi sappiamo che cosa sia l’agenda: un libro, un quaderno, un brogliaccio, dove vengono annotati gli appuntamenti, le date importanti, le cose da fare; oppure dove sono fissate quelle annotazioni di carattere personale di cui vogliamo lasciare memoria allo scopo di poter ricostruire in futuro la nostra storia personale. Questa seconda utilizzazione avvicina l’agenda a quell’altro libretto che chiamiamo anche diario.
Per l’esperienza che ne abbiamo, potremmo dire allora che l’Agenda (quella che in questo inizio d’anno abbiamo ricevuto in dono specialmente da Banche, Assicurazioni, Uffici di rappresentanza, Ditte e Società di servizi) è più professionale, destinata agli adulti, o per lo più a persone di un certo impegno e responsabilità.
Il Diario, invece, scolari e studenti ce l’hanno nella cartella scolastica; dove annotano insieme agli impegni giornalieri di scuola anche i compiti assegnati, da svolgere a casa.
Le due cose potrebbero però ridursi alla medesima funzione, compreso anche il lavorio quotidiano di ricerca interiore fatto giorno per giorno attraverso la registrazione del vissuto: incontri, emozioni, fantasie, riflessioni, decisioni, annotazioni per memoria, ecc.
“Diario” – forse già ne abbiamo parlato in altre occasioni – è un aggettivo (poi sostantivato: “il diario”) derivato da dies = giorno; perciò l’etimologia della parola mette in evidenza una rappresentazione del tempo cadenzato a ritmi giornalieri.
Mentre “agenda” è un’antica forma di participio (perdutasi nella lingua italiana!) che la grammatica latina ci fa chiamare gerundivo. In particolare: agenda, dal verbo ago = faccio, è il nominativo plurale neutro del gerundivo latino, e significa “le cose che debbono essere fatte”. Perciò la parola, divenuta in italiano – come nome del libricino – un sostantivo femminile singolare, mette in evidenza le azioni programmate, le scadenze, tutte cose che, una volta svolte, diventano “fatte” (i fatti, gli avvenimenti); cioè “acta” (sempre da “ago”), per dirlo con la corrispondente parola latina.
Sia il politico che lo scolaro, quindi, a seconda che chiamino agenda oppure diario il loro libro immaginario delle cose da farsi – o il brogliaccio concreto su cui le annotano – si riferiscono ad un programma definito di “compiti” (ricordate l’espressione della Merkel? “L’Italia deve fare i suoi compiti!”).
Ma la parola “compiti” non significa necessariamente: “cose assegnate da altri”. Ma più esattamente: “cose che devono essere portate a termine (compiute)”.
In francese la parola per indicare la stessa cosa è: “devoirs” (calco delle parole italiane: doveri o debiti; cioè “cose dovute, che si devono fare o dare”).
In conclusione: solo chi non conosce la portata delle parole (specialmente quando c’è di mezzo una traduzione da una lingua all’altra) non capisce. Potenza della trasparenza! Mentre chi è in malafede, fa finta di non capire.

L.C.

 

Pillole di cultura: Amante

a cura del prof. Luigi Casale

Non mi piace la parola “amante”.
Certamente essa è accettabile e dignitosa in un testo letterario: sul piano comunicativo – e su quello artistico – come tutte le parole scelte dal compositore per la sua creazione originale, essa definisce una precisa realtà, rimanda cioè a un referente (così si dice), seppure inventato dalla fantasia dell’autore, chiaramente individuabile non solo nella parte di significato che indica l’oggetto in sé (denotazione), ma soprattutto in quella che implica (sottolinea e trasmette al lettore) sentimento (amore, odio, piacere, dolore, ecc.) oppure ricordi (adesione, repulsione, partecipazione) sulla base dell’esperienza ( esistenziale e linguistica) che ognuno ne ha fatto nella vita e nel quotidiano. Essa, la parola “amante”, non mi piace nell’uso che se ne fa normalmente. E non mi piace per quell’accumulo di significati altri, che l’uso ha sedimentato su di essa.
Preferisco: “amata”. Oppure: “amato”. A seconda dei casi.
Intanto come participio presente (forma nominale che esce in “-e” al singolare, e in “-i” al plurale) non mi consente di distinguere il maschile dal femminile. E poi perché insiste sull’elemento discriminatorio di tipo sociologico, proprio per quella sua connotazione di cui parlavo sopra.
Immaginate di pensare ad un amante; oppure ad un’amante. A seconda dei casi. Che ne dite?
Sarà colpa della nostra sensibilità, dell’educazione, sarà il sistema dei valori condivisi, saranno le convenzioni, i pregiudizi, – dite quello che volete – o la stessa civiltà (e la cultura) cattolica? Ma, sta di fatto che “amante” suona male. Eppure non dovrebbe essere così.
Perciò preferisco la forma passiva: amata o amato.

La cosa non riguarda solo la civiltà cristiana. La distinzione tra amore casto (sano, sacro) e amore profano (fuori dal tempio) è un classico, e si è sviluppato con l’evoluzione dell’uomo. Pensate solo all’inimicizia tra Giunone (la sposa) e Venere (l’amante) nella mitologia classica!
Ma ritorniamo alle parole.
Per indicare l’individuo adulto della specie umana (sessuata) abbiamo le coppie di parole: “maschio/femmina”; “uomo/donna”; “signore/signora”; “marito/moglie”, e tante altre in ragione delle funzioni, dei compiti e dei ruoli; come pure: amante/amante.

Badate bene che ci stiamo riferendo alla lingua italiana. E’ importante precisare ciò. Perché la lingua, come ha detto qualcuno, è il DNA della storia e della condizione socio-culturale di un popolo; e oggi con lo sviluppo degli studi di genetica – permettetemi lo scherzoso paragone – attraverso lo studio della lingua potremmo ricostruire il genoma completo di ogni gruppo sociale.
[Di passaggio faccio notare che l’Unità d’Italia l’ha fatta la nostra lingua letteraria, l’italiano. E tutti gli uomini che nei secoli l’hanno usata. Perciò: Grazie, Dante!]
Lasciamo da parte le parole “maschio” e “femmina” (la loro origine è nell’indeuropeo) le quali indicano la capacità e il rispettivo ruolo – potenziali – delle due persone nella funzione del procreare: parole queste che si adattano anche ai bambini e a tutti i viventi sessuati; e vediamo le altre coppie.

“Signore” e “signora”. Rappresentano il gene (per restare nella similitudine) di una cultura nella quale la struttura sociale è di tipo gerarchico: prima i “vecchi”, gli anziani; poi i giovani. “Senior”, “più vecchio”: rispetto a chi è “più giovane” (“iunior”).
Da “senior”(signore), poi, per banalizzazione è venuto anche “signora”.

“Uomo/donna”. Non so se veramente la parola latina “homo” (uomo), da cui deriva l’italiano “uomo” sia da collegarsi ad “humus” (terra). Se così fosse allora potremmo collegarla direttamente alla forma ebraica del nome Adamo, e scorgervi addirittura un contatto culturale col racconto biblico della creazione dell’uomo, fatto dal fango e animato dallo spirito di Dio.

Donna, invece ci viene da un’altra famiglia di parole: domus (casa); dominus (padrone di casa); domina (padrona di casa). Se poi “humus” e “domus” siano collegabili è un problema su cui soprassediamo. L’etimologia – d’accordo! – ci dà l’origine delle parole; ma non dobbiamo aspettarci l’origine prima (che non sappiamo neanche che cosa sia), ma accontentiamoci di quel tanto che ci basti a capire e a capirci, affinché la lingua diventi più trasparente.
Per indicare lo stesso concetto con un’identica funzione semantica, la lingua francese ha selezionato la parola “femme” (latino: “femina”) utilizzandola anche per indicare l’italiano “moglie” (latino: “mulier”, presente anche nell’aggettivo italiano “muliebre” = femminile). Gli italiani, in altre epoche (vedi i poeti cortesi medievali) dicevano: “madonna” (latino: “mea domina”= mia padrona); e anche i francesi evidentemente se nel francese moderno è rimasta la forma “madame”= ([mia] signora).

“Marito” è collegato a “maschio” in quanto derivante dalla stessa parola latina “mas”.

Per concludere. Il termine latino “uxor” (donna, sposa, moglie) è rimasto nella lingua napoletana (unica!) nella espressione “‘nzurà” (l’atto del prendere moglie) che è lo “sposarsi” dell’uomo, rispetto allo sposarsi della donna che si dice “mmarità” (atto del prendere marito).
Certo, anche in italiano esiste “uxoricidio”. Ma questa è un’altra cosa. E poi si tratta di una parola dotta.

Pillole di cultura: Ambizione

a cura del prof. Luigi Casale

“Ambizione” è l’andare di qua e di là alla ricerca di qualcosa. Il verbo “àmbio/ambìvi/ambìtum/ambìre”, da ambi (intorno; di qua e di là) + ire (andare), significa “andare in giro”. Nell’antica Roma la parola veniva usata per indicare l’attività di chi, candidato ad una carica pubblica, andava casa per casa a cercare il voto elettorale. Perciò “ambizione” – all’origine – non è tanto desiderare, aspirare, cercare di avere, o bramare il successo, o pretendere un riconoscimento, come la intendiamo oggi; quanto piuttosto il darsi da fare col sollecitare personalmente il consenso elettorale. In alte parole: andare in giro a cercar voti, uno per uno presso tutti gli elettori raggiungibili.
E “àmbito” [sost.] è lo spazio limitato, circoscritto, in cui ognuno si muove.
“Ambiente” [part. pr. del verbo ambire] è uno spazio definito, che ci contiene. Tipologia di luogo, reale o metaforico.
Mentre ambìto [part. pass. del verbo ambire] oggi vale “fortemente desiderato”.

Pillole di cultura: Anfiteatro

a cura del prof. Luigi Casale

La parola “anfiteatro” è formata da due elementi strutturali: anfi e teatro (greco: amphì +théatron).
Sappiamo che l’edificio pubblico che chiamiamo anfiteatro è una costruzione tipicamente italica; tant’è che se si vuole indicare inequivocabilmente il teatro (sia come genere letterario che come spazio per le rappresentazioni), lo si chiama “teatro greco”. E infatti il teatro (opera letteraria e manufatto architettonico) è interamente greco.
A questo proposito voglio ricordare che il genere letterario: “teatro classico” (che pur essendo di carattere narrativo, è sempre un’opera letteraria scritta in versi, cioè fatta di metro e ritmo, quindi è poesia) comprende tragedia, commedia, dramma satiresco; e, prima ancora, anche ditirambo; oltre a qualche altra forma di rappresentazione fatta di danza e di mimica. Per quanto riguarda la tragedia e la commedia, si tratta della forma più alta di produzione letteraria della Grecia classica, insieme all’epica e alla lirica.

Il teatro. La struttura architettonica destinata fin dall’antichità ad accogliere questi spettacoli a contenuto mitologico, storico-realistico, o burlesco, è fatta da una serie di gradoni a semicerchio appoggiati ad un pendio collinare. Immaginiamo un semicerchio: dalla parte della curvatura si disponevano gli spettatori (sui gradoni concentrici appunto); di fronte, dalla parte del diametro (la corda che sottende l’arco) è piazzata la scena. È questa una costruzione in muratura che rappresenta una facciata di abitazione, generalmente con più di una porta d’entrata (casa privata, sede pubblica, oppure tempio) con davanti una piazzetta (il proscenio). Quindi la scena è fissa (cioè sempre la stessa): una strada che va a destra, una strada che va a sinistra, una piazza al centro. La confluenza di un trivio, insomma, essendo la terza strada quella dalla quale lo spettatore osserva. Sia per gli attori che per gli spettatori la finzione scenica era immaginata sempre all’aperto e supponeva due strade, una a destra e l’altra a sinistra, delle quali la prima andava in città verso il Foro, l’altra andava fuori città che, a seconda dei casi, poteva essere o verso il porto o il campo di battaglia, o verso la campagna in direzione di un’altra città. I pochi attori presenti sulla scena si muovevano in questo spazio circoscritto, così definito dal Prologo, il personaggio che introduceva la storia. Ma conoscendo l’opera che stava per essere rappresentata, tutti gli spettatori riuscivano ad immaginare anche la direzione delle uscite. Anche le tre porte della scena erano o entrate o uscite, ma indicavano gli interni. Là si svolgevano le azioni violente o truculente, o indecenti. Quindi quelle azioni non erano viste dal pubblico degli spettatori. O erano raccontate dai personaggi che da quelle case uscivano, oppure all’esterno giungevano soltanto grida, suoni e rumori, che dovevano dare l’idea di quanto accadeva all’interno. Successivamente uno degli attori veniva a raccontare agli spettatori che cosa era successo dentro l’edificio.
L’anfiteatro. È invece un corpo ellittico costruito su zona pianeggiante, i cui gradoni, a forma di ellissi questa volta, sono una vera e propria costruzione architettonica poggiata sopra una serie di gallerie circolari (essenzialmente archi, quindi) con la volta a botte. Erano questi i passaggi attraverso i quali gli spettatori raggiungevano il posto a sedere. Gli anelli concentrici, e delle gallerie e dei corrispondenti ordini dei posti che le sovrastavano, andavano a restringersi intorno ad un’ampia arena ovale, nella quale si svolgevano spettacoli di grande movimento: giocolieri e saltimbanchi, caccia di belve, battaglie navali, scontri di gladiatori, e altri giochi di squadre (due o più anche contemporaneamente): tutti giochi di forza fisica e di resistenza, più o meno violenti.
“Amphì” – da cui deriva anche la forma “ambo”, che è andata a sostituire il numerale “duo” – è avverbio (e preposizione) e significa “di qua e di là”, “in giro”, “da tutte le parti”.
Il fonema “ph” ( pronuncia / fi / ) della lingua greca è labiale (come “p” e “b”), e ciò significa che si pronunciava accostando le labbra, proprio come “p”, “b” e “m” (e non come la nostra moderna “fi”). In pratica era una “p” fortemente aspirata. Quindi anche la nasale che la precede prenda la forma di labiale, cioè “m” (e non “n”). Quando la “ph” nella sua evoluzione fonetica (alla distanza) diventa “f” (perde cioè la caratteristica labiale) anche la “m” perde la sua, e diviene “n” (che, come dentale, può essere pronunciata a labbra aperte). Per questo motivo oggi la parola è “anfiteatro”. Quando invece il fonema per qualche motivo si dovesse trasformare in “b” (e continua perciò a conservare la sua caratteristica labiale), costringe allora anche la nasale a mantenersi labiale. Ed è ciò che succede in “ambo”.
La trasformazione di amphì in ambo, e l’utilizzo di questo avverbio col valore di “due volte”, ha fatto sì che la parola anfiteatro venisse interpretata come “due teatri: uno da una parte e uno dall’altra”, facendo nascere la leggenda dei due teatri girevoli che ruotando formavano l’anfiteatro, all’origine della forma dell’anfiteatro.
La verità è che i rispettivi manufatti del teatro e dell’anfiteatro sono strutture del tutto diverse ed hanno storie completamente diverse, sia sul piano linguistico e culturale sia su quello architettonico e strutturale. Anche se poi tutt’e due le costruzioni hanno a che fare col théatron (visione; spettacolo). Il verbo greco, infatti, è theáomai = guardo, osservo. Per anfiteatro si tratta però di un “vedere tutt’intorno, vedere di qua e di là”.

Notiamo ora due cose.
Prima. In alcune lingue europee come il francese, il grafema “th” di théatre, thème o thermes, rappresenta lo stesso fonema che è rappresentato dal grafema “t” (senza la “h”). Quindi in francese lo stesso suono / t / a volte si scrive “t” e altre volte “th”.
La presenza della “h” (quando c’è) in effetti è solo il segno di una memoria storica, cioè che all’origine (nella lingua greca antica) quella “t” era aspirata (th ). Per lo stesso motivo si è conservato anche il grafema “ph” di philosophe o phisique.
Seconda. La presenza della radice di théaomai compare anche nella parola italiana “politeama”, con cui si chiamano alcune sale cinematografiche per significare che esse sono polivalenti (adatte a più usi), essendo idonee ad ospitare diverse tipologie di spettacoli (greco: polù = molto; corrispondente al latino: plus e plurimus).
Aggiungiamo – giacché ci siamo – una nota di tecnica teatrale. Nel teatro greco antico – come ho detto – la scena è fissa, e rappresenta un tratto di strada, all’aperto, davanti ad un gruppo di case, o ad un tempio o ad un diverso edificio pubblico. Da un lato si va al Foro (verso la città), dall’altro al porto o al campo di battaglia, o fuori città verso la campagna o in direzione di un’altra città.
Abbiamo già detto che i testi del teatro classico erano in versi. La rappresentazione prevedeva che molte azioni (antecedenti al momento scenico, oppure quelle scabrose) venissero raccontate (diegèsi); ne discende che la rappresentazione vede pochissimi attori sul proscenio a sostenere l’azione scenica dal vivo. La maggior parte della vicenda (le scene di violenza o truculente o di intimità più o meno volgari che si immaginano svolte all’interno degli edifici, quelle che si erano già svolte, quelle che si svolgevano lontano nel tempo e nello spazio), erano solo raccontate dagli attori una volta usciti nel proscenio. Della storia rappresentata, molto più di quanto non si vedesse era invece raccontato.
L’anfiteatro invece non ha bisogno di questo tipo di soluzioni, in quanto le sue rappresentazioni mancando di testo prefissato, sono di pura azione o di abilità o di forza. E’ tutta un’altra cosa.