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Pillole di cultura: Juorno

a cura del prof. Luigi Casale

In latino “giorno” era detto “dies”. I ragazzi di prima liceo, primo anno di latino, sanno che tutti i nomi di 5^ declinazione sono femminili, ad eccezione di uno: dies = giorno, che è maschile. Molte volte però per il meccanismo dell’analogia anche dies veniva trattato come femminile. Era un errore? Chi lo sa? Sta di fatto che per la pratica di quest’uso (o se preferite: per il ripetersi di questo errore) la parola dies a volte figurava come nome maschile, a volte come nome femminile. Alla distanza, poi, le grammatiche scolastiche hanno teorizzato anche una leggera differenza di significato tra i due nomi al punto da specializzarli a seconda delle situazioni di contesto in cui la parola era utilizzata.
Sicché c’è un dies maschile e una dies femminile.
L’aggettivo derivato da dies è “diurnus” o “diurna”, che si è conservato nella lingua italiana col medesimo significato (che riguarda il giorno, che appartiene al giorno). Da questa forma, seguendo le regole insite nella lingua stessa che col tempo fanno trasformare la parlata, da “diurnu” si è passato all’odierno “juornu”, corrispondente all’italiano “giorno”.
A proposito, facciamo notare che “odierno” deriva dall’avverbio “hodie = oggi”, che ha origine nell’espressione latina “hoc die” (in questo giorno). Inoltre la parola “die” è attestata nella lingua italiana nella forma apocopata – scusate, ma si dice proprio così e significa: troncata – “di’” . Esempio: “Buon di’”.
Ritorniamo al “diurnus/giorno”. Per dire che anche in italiano la lingua si è attrezzata di due parole, una maschile e l’altra femminile, per indicare l’arco temporale delle 24 ore: esse sono “giorno” e “giornata”. Non vi spiego la differenza tra le due, perché non la conosco; ma vi invito a verificare se nel vostro personalissimo modo di usare le parole c’è la percezione di una differenza di significato tra giorno e giornata.

Pillole di cultura: Lontano

a cura del prof. Luigi Casale

Nell’illustrare il lemma “pagano” il cui valore etimologico è quello di “appartenente al pagus” (parola latina che equivale a villaggio), abbiamo richiamato anche il termine “vicino”, che vale “appartenente al vicus” (quartiere). E abbiamo anche detto che – a rigore – un vocabolo che potrebbe indica il contrario e dell’uno e dell’altro è “urbanus” (appartenente all’urbs = città [Roma]).
A questi aggettivi che indicano una provenienza o appartenenza, possiamo aggiungere anche “villanus” (appartenente alla “villa” = fattoria). Usati come sostantivi essi diventano: il pagano, il vicino, il villano, e, anche se meno usato come sostantivo, l’urbano (il cittadino).
Ora tutti questi nomi nell’italiano contemporaneo hanno perduto la loro connotazione originaria, propria del tratto semantico di “appartenenza ad un gruppo sociologico” (definito in base al luogo), e hanno recuperato un nuovo significato, connotato dalle abitudini di vita e dal comportamento morale. Significato che, pur se aggiuntosi naturalmente in forza dell’uso linguistico (metafora) di queste parole da parte dei parlanti, esso è stato determinato da un pregiudizio egocentrico e discriminatorio di tipo psicologico che tende a differenziare e quindi ad escludere chi è diverso da noi.
Perciò oggi l’opposizione urbano / villano ha come accezione principale quella di “educato / maleducato”. Così come pagano si oppone a cristiano, e vicino è il contrario di lontano.
Così siamo giunti alla parola che vogliamo esaminare: “lontano”.
Essa, come abbiamo detto, si contrappone a “vicino”, sia come avverbio che come aggettivo.
Ora si tratta di cercare di recuperarne la trasparenza attraverso l’indagine etimologica e la storia delle parole, così come abbiamo fatto con “vicino” e con le altre parole già studiate.
“Lontano” è l’adattamento nella lingua italiana di un aggettivo latino medievale: “longitanus”: dalla stessa radice “long-” (che concettualmente indica la distanza).
In epoca classica, infatti, il latino usava le seguenti parole: longus (aggettivo, che significava lungo) e longe (avverbio, che significava lontano).
A questo punto va detto subito che la spazialità (cioè la collocazione relativa di due oggetti) nella lingua latina, quali che siano i vocaboli usati, ha sempre la doppia dimensione dello spazio e del tempo, dimensione che solo il contesto può rendere esplicita e isolare.
Da queste due parole, perciò, derivano: longinque (lontano / dopo un lungo intervallo di tempo), longinquus (luogo esteso / di lunga durata; distante / antico), longinquitas (lunghezza / distanza / lunga durata), longiter (lontano / a distanza), longitudo (lunghezza / lunga durata), longiturnitas (longevità), e, per finire, longitanus (lontano), diffusesi nel medioevo.

 

L.C.

 

 

 

Pillole di cultura: Mambrucco

a cura del prof. Luigi Casale

“La fortuna del signor Giuliano Averna di Venezia! Svelato il mistero del Mambrucco!” Potrebbe essere l’occhiello (soprattitolo) di un titolo sensazionale. O la voce dello strillone che di quell’avvenimento va gridando la notizia in prima pagina….
E’ un guaio non conoscere le lingue… Ma fortunatamente ci sono gli amici. Quanto a me ne parlo bene un paio, l’italiano e quella che si dice “materna”. [Cari amici, sentite che bella connotazione ha questa parola?].
Perciò chiedo venia se la ricostruzione della parola non dovesse soddisfare completamente. E vi prego di scusare anche l’amico poliglotta che me l’ha suggerita. Come diceva mio padre…, non so se la mia ignoranza arriva alla vostra.
Forse il signor Giuliano aveva ragione circa il significato di questa parola. Ma nel senso che adesso vi dirò.
Ancora una volta, anche nella determinazione del significato della parola mambrucco ha giocato il pregiudizio sociologico e la protervia, causata da un egocentrismo becero e deleterio, di chi l’ha adottata e di chi la usa. Debolezze umane! Stupidità!
Ma torniamo alle parole, possibilmente con animo libero.
A detta del mio amico poliglotta, mambrucco dovrebbe essere una parola onomatopeica (che ripete cioè il suono – attraverso la scelta delle parole giuste (fonetica) – dell’oggetto che si sta nominando. La si trova spesso nelle poesie del Pascoli e di tanti altri poeti d’ogni lingua e d’ogni epoca. [Chi non ricorda il verso: “Mentre la neve fiocca, fiocca, fiocca” oppure quest’altro “Ecco, ecco, un cocco, un cocco per te.”?].
L’onomatopea la si trova anche nei fumetti. Ma questa è un tipo di onomatopea troppo facile (stupida come onomatopea, ma d’effetto, e perciò insostituibile), che non vale la pena neanche chiamarla tale. La ricordiamo solo per evitare che qualche studente la consideri onomatopea, nel senso letterale con cui l’ho definita. Poi c’è ancora un’altra onomatopea che è quella che ripete, storpiate, le parole degli altri, le espressioni di lingua ascoltate dagli “stranieri”. (Anche la parola “straniero”, sociologicamente parlando, non è che sia tanto simpatica!)
Ognuno di noi sa come chiama il vicino parodiandone il modo di parlare. Cin, ci, là è il cinese; Scimmsciamm è il provinciale.
Immaginate voi, che il napoletano distingue lo stabiese dal modo di dire “che cosè?”.
Perché il napoletano di Napoli dice “ched’è”. Il provinciale dal lato di Torre dice “chigghiè” o “ch’rè”. [Scusate se la scrittura non corrisponde alle vostre aspettative. Stiamo concordando, con i più fedeli lettori, una maniera condivisa di scrivere il napoletano.]
Fatto il preambolo, tra il linguistico e il moralistico, passiamo al nostro mambrucco.
Mi dicono che mambrucco dovrebbe essere la parodia di una espressone tedesca: la parola voleva proprio indicare il tedesco che parla tedesco. La vita è strana! … e anche giusta, a modo suo.
Ma questo dove poteva succedere se non in un contesto dove col tedesco si era costretti a convivere? Se non storicamente o geograficamente, almeno idealmente e culturalmente.
Mambrucco quindi è la deformazione parodiata – specialità tutta italiana – dell’espressione tedesca “man braucht” (serve, c’è bisogno, occorre), probabilmente sentita come una specie di intercalare, dall’interlocutore di lingua italiana. Un’ultima precisazione: questa parola a Napoli è stata importata. Perciò non la conoscevo. A questo punto il signor Giuliano è libero di riempire la parola di tutti i significati che vuole. Ma affinché essa diventi segno del codice-lingua, c’è bisogno (man braucht!) che anche gli altri parlanti ne riconoscano il significato (più o meno).
Ma la storia non è cominciata con i veneziani verso i tedeschi, o con i napoletani verso i torresi, o verso quelli dalla parte di Pozzuoli. O degli stabiesi verso gli scafatesi. E’ partita molti millenni fa. (E adesso che ci troviamo a vivere tutti mischiati: dovremmo chiamarci reciprocamene: millevoci.)
Pensate alla parola “barbaro”. Essa è passata a Roma dalla Grecia. I Greci, abituati ad ascoltare suoni duri (le consonanti cosiddette mute: k, p, t, gh, d, … le occlusive, o esplosive, insomma) cominciarono a chiamare “barbarbar” (è lo stesso meccanismo della onomatopea che ho definito di secondo tipo: più o meno, quella dei fumetti, per intenderci) i vicini parlanti che utilizzavano più labiali e liquide. Da qui la parola “bàrbaroi” (i barbari). E così nacquero anche i barbari, che forse erano più affettuosi, rispettosi e simpatici di loro. Ma di questo non sono sicuro. Non vorrei adesso che per questo qualcuno cominciasse a chiamarmi “piùomeno”.

Pillole di cultura: Marmellata

a cura del prof. Luigi Casale

Le parole sono come le ciliegie: una tira l’altra. E qui nel discorso entrano a proposito anche le ciliegie. Veramente. Infatti oggi ho in mente di parlarvi di “marmellata”.
Subito la parola marmellata mi ha rimandato a “confettura”, questa a “confetti”, e da quest’ultima sono giunto al verbo latino “conficio”.
La maggior parte dei produttori di marmellata (la conserva alimentare a base di frutta preparata con l’aggiunta di sostanze zuccherine) indica sui vasetti della dolce e proverbiale leccornìa la definizione di “confettura”. Quasi che marmellata fosse un termine regionale, da lessico familiare. Convinti che confettura sia più adatto alla denominazione della categoria merceologica per i risvolti giuridici, normativi e commerciali della comunicazione. Eppure c’è stato un tempo in cui passava l’idea – non so fino a che punto corrispondente alla realtà dei fatti – che la marmellata fosse un prodotto diverso dalla confettura. Diverso per qualità, per prezzo, e per lo stesso processo di preparazione del prodotto finale. Ma quali che fossero i referenti reali delle due parole, a noi interessano i significati, le accezioni, la loro formazione e la loro storia.
Marmellata è di origine portoghese (marmelada) e significa “confettura di marmelo (mela cotogna)”. Perciò “cotognata” è la traduzione puntuale, precisa, della parola “marmelada”. E’ strano, ma anche da noi, in Italia, l’unica marmellata che prenda il nome dalla frutta utilizzata è la “cotognata”. Della cotognata oggi ci è rimasto solo un nostalgico ricordo. Poi, il termine d’importazione portoghese è stato applicato per estensione a tutte le altre “marmellate”, o meglio, confetture, per chiamarle col termine generico.
Così “marmellata”, pur significando “cotognata”, si è esteso a tutte le confetture fatte con ogni tipo di frutta. Sempre nella lingua portoghese la fabbrica di marmellata si chiama “confeitaria”.
Non è escluso tuttavia che la seconda parte delle due parole portoghesi: “marmelata” (-melata) e “marmelo” (-melo), abbiano a che fare col miele (parola di provenienza greca, e poi latina, diffusa nell’area mediterranea). E questo spiegherebbe, da una parte, il modo più antico – caduto in disuso con la diffusione dello zucchero – di preparare le conserve di frutta; dall’altra, l’eventuale differenza, dove essa esista, tra le due qualità di prodotti.
La nostra “confettura” – come parola – viene da confetto, da cui anche “confettificio” e “confetteria”. Ma non ha nessun rapporto semantico con “zucchero”. Significa semplicemente “fatta con …”, “preparata con …”. (Anche se questi preparati rientrano tra quelli ottenuti grazie all’impiego di sostanze zuccherine.) Come già accennato, tutte queste parole hanno origine comune nel verbo latino “fàcere” (=fare). Cioè: “preparare”. Non si chiamano “faccende” anche tutti i lavori di casa svolti dalla padrona?
E qui è necessario richiamare alcune nozioni di latino che già ho avuto modo di presentare in analoghe situazioni. Il verbo fàcere al presente è “facio” (=io faccio), al perfetto è “feci” (=ho fatto), e al participio perfetto è “factum” (=fatto). Notiamo la trasformazione della vocale. Il verbo “facere” cambia la vocale radicale [la “a” di fac] non solo all’interno della sua coniugazione, ma anche quando crea verbi derivati, composti cioè col prefisso preposizionale.
A seconda della preposizione che si aggiunge come preverbio (cum=con; ad=verso; de=da [sottrazione]; e=da [provenienza]; in=verso l’interno; per=per [intensificazione]; sub=sotto; ecc,) o dell’avverbio, abbiamo i verbi: cum+facio (conficio, confeci, confectum), ad+facio (afficio, affeci, affectum), de+facio, (deficio, defeci, defectum), e+facio (efficio, effeci, effectum), in-facio (inficio, infeci, infectum), per-facio (perficio, perfeci, perfectum), sub+facio (sufficio, suffeci, sufficere); e – se il preverbio è un avverbio – i verbi bene+facio (benefacio, benefeci, benefactum), male+facio (malefacio, malefeci, malefactum). Come si vede, in essi la “a” di facio si è trasformata in “i” oppure in “e”. Questo fenomeno fonetico, tipico delle lingue indeuropee, altrove l’abbiamo chiamato apofonia, o gradazione vocalica, o Umlaut.
[Vedete, cari amici delle scuole medie, quante parole della lingua italiana trovano origine nel verbo fare, a cui difficilmente pensiamo! Affetto, confetto, difetto, effetto, infetto, perfetto, deficiente, efficiente, sufficiente, inficiare, superficie, maleficio, beneficio, opificio, panificio, ecc. ecc. Così anche confezione e confettura. Ognuna di queste parole meriterebbe un’analisi semantica particolareggiata. A voi il compito di provarvici.]
Confetto, confettificio e confettura fanno parte della famiglia. Quindi, confetto essenzialmente significa “fatto”, “preparato con diversi ingredienti”, anche se poi va a significare il prodotto finito, in questo caso i confetti. La stessa cosa vale per confettificio e confettura.

Pillole di cultura: Messa

a cura del prof. Luigi Casale

Andare di palo in frasca alla scoperta delle parole, è quello che di solito facciamo in questo spazio virtuale del Libero Ricercatore: tra detti e motti cerchiamo parole comuni e parole dotte.

Il titolo dell’intervento di oggi ci propone la parola “messa”. Se la leggiamo, nella sua strutturazione italiana, come participio del verbo “mettere” significa: “appoggiata”, “adagiata”, “depositata”, “conservata”, a seconda dell’oggetto, del contesto comunicativo, dell’avverbio con cui l’accompagniamo. “Ho messo l’orologio”; “ho messo da parte un piccolo risparmio”; “mettere tutto in ordine”; “mettere in evidenza”; e così via. Ma se la leggiamo come sostantivo, cioè con un articolo davanti: “la messa”, allora essa significa tutt’altra cosa. Significa: “celebrazione eucaristica”; assemblea domenicale dei cattolici intorno all’altare. La santa Messa, insomma. “Dire la messa”; “partecipare alla messa”; “la messa della mezzanotte di Natale”; “una messa solenne”; ecc. … Mentre, nel primo caso “messa” è uguale a “deposta” oppure semplicemente “posta”. Tutto quello che può significare, insomma, il verbo “mettere”: come abbiamo detto.

Per chi ricorda quel po’ di latino scolastico che ancora manteniamo nella mente, è evidente che il verbo italiano “mettere” – dal punto di vista del significante – è la naturale trasformazione del verbo latino “mittere” (paradigma: mitto, misi, missum, mittere). Da “missum” (supino) deriva il participio “missus”; al femminile “missa”. Solo che nei duemila anni trascorsi dal tempo di Cesare e Cicerone fino ad oggi, il “mittere” dei latini ha cambiato significato, mentre cambiava la forma fonica. All’origine “mittere” era mandare. Qualche cosa di diverso del nostro “mettere” (che gli antichi Romani dicevano “pònere”). Anche se, con un piccolo ulteriore sforzo di comprensione (intuizioni, deduzioni, e controdeduzioni) potremmo facilmente riconoscere una certa affinità semantica tra i due significati d’uso: cosa che ci può fare immaginare la causa di questo scivolamento di significato.

Se “mittere” significa mandare – vedi le parole italiane che da questo verbo si sono formate, come: missione, missiva, mittente, messo [comunale], commesso, commissione – perché mai la messa (cerimonia religiosa dei cristiani) si chiama così? Intanto mi preme ricordare che la maggior parte delle parole significative del linguaggio della religione cristiana sono parole greche o latine, mai modificate nel corso dei secoli, oltre alle pochissime di derivazione ebraica. Si sa anche che geograficamente le origini del cristianesimo sono nel medio-oriente, poi in Grecia, e in seguito a Roma, in un’epoca in cui la cultura è caratterizzata da un fenomeno che gli studiosi chiamano “ellenismo” in conseguenza del fatto che in tutto il mondo conosciuto (ecumène = terra abitata) si diffonde la parlata greca, fino a quando lo stesso mondo non sarà conquistato da Roma; e allora insieme al greco si parlerà anche il latino: un bilinguismo diffuso, con preferenza del greco in oriente e del latino in occidente. Chi pratica il culto cattolico e va a messa, sa che alla fine della celebrazione liturgica, il celebrante saluta i fedeli con questa espressione: Andate, la messa è finita! Questa è la traduzione della formula finale latina: “Ite, missa est”, che fin dall’antichità si è conservata intatta nella forma, avendone mutato il significato. In quanto, effettivamente, la traduzione letterale di “ite missa est” è “andate, è stata mandata”. Infatti “missa est” è la terza persona singolare del perfetto (corrispondente al nostro passato prossimo) della diàtesi passiva (la forma passiva della coniugazione del verbo) di “mìttere”. Cioè: E’ stata mandata. Essendo “missa” un femminile. Ma qual è il soggetto del mandare? Qual è la cosa che è stata mandata? Qui rimangono incertezze anche tra gli storici. Certamente è l’ostia consacrata, l’eucaristia, che “era mandata” alla fine della celebrazione della commemorazione liturgica; e la comunicazione all’assemblea da parte del celebrante dell’avvenuto invio dell’ostia, indicava appunto la conclusione del rito; una specie di saluto di commiato, quasi a dire: “Arrivederci alla prossima riunione”.

Secondo questa interpretazione, due sono le ipotesi: o l’eucaristia, consacrata nelle catacombe o in una casa privata, era inviata ai cristiani nelle carceri e alle persone che per sicurezza personale non si dichiaravano apertamente come cristiani; oppure – in epoca posteriore – essa veniva mandata attraverso i diaconi alle comunità periferiche che non avendo la presenza del presbitero (= anziano: il sacerdote consacrato, da cui la parola: “prete”) non potevano celebrare l’Eucaristia.

Un’altra interpretazione è quella secondo la quale ad essere mandata era, in generale, l’offerta sacrificale (in latino “hostia” = la vittima). In questo caso “Ite, missa est” era un vero saluto per dire “la funzione è finita”, letteralmente: L’offerta del sacrificio è stata inviata al cielo, alla divinità, a Dio. E allora la formula potrebbe valere anche per il sacrificio pagano, in cui la vittima (hostia) era un animale.

Da qui probabilmente la spiegazione della traduzione moderna, molto approssimativa, ma che dà un senso al saluto: “Andate (la vittima) è stata mandata (offerta)” , e di conseguenza “Andate il rito è terminato”.

Ite missa est.

L.C.