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Pillole di cultura: Paraustiello

a cura del prof. Luigi Casale

“Addò vai a parà cu ‘sti paraustielli ?!”

La spiegazione di questa frase potrebbe essere più semplice di quanto si possa pensare. Paraustiello dovrebbe essere il diminutivo del calco napoletano della parola paragone (paraòne, paravone), come da gallo viene ‘u “uallo” o ‘u “vallo”.
Da paragone, il napoletano “paravone”; e da questo, “paravustiello” o “paraustiello”.
Parare lo si usa come “parare una trappola” (a buon intenditor, poche parole…), “parare una rete”.
Qui c’è niente da aggiungere. E’ una parola latina rimasta tale e quale nell’uso della lingua napoletana; e corrisponde all’italiano “preparare”.
L’italiano ha selezionato la forma col prefisso al posto di quella radicale del napoletano.

Pillole di cultura: Parrucchiano

a cura del prof. Luigi Casale

C’è un detto che dice: “…trasire int”a coppola d”o parrucchiano”. Oppure l’altro che è quasi una barzelletta se non proprio una scena.
– “Zi’ pre’! ‘O cappiello va stuorto.”
– “Accussì hadda i’.”

* * *

“Trasire int”a coppola d”o parrucchiano” significa – fuori metafora – addentrarsi troppo in questioni che non ci riguardano e che comunque non sono di nostra competenza. E che l’altro (‘o parrucchiano) non gradisce partecipare.
Notiamo che – fatto salvo lo spirito della “facezia” – l’espressione è banalizzata al livello popolano. Perché nessuno, se non un popolano, avrebbe chiamato coppola il copricapo del reverendo o del monsignore. E pensare che ce ne sono di diversi tipi! Già questo, cioè conoscere il rispettivo nome appropriato, richiederebbe una certa specializzazione.
Il secondo detto, sempre parlando di copricapi e di religiosi, completa il quadro e la dice lunga sulla percezione della differenza sociale e culturale tra il clero e il popolo. Nonché sulla autorevolezza delle rispettive convinzioni. Ma, di questo il “popolo” si rende conto, se è capace di esprimere questa percezione con i “paraustielli” che abbiamo presentato.
Ma a noi oggi interessa la parola “parrucchiano”. In napoletano è il titolare della parrocchia, cioè il parroco. Nella lingua italiana, però, parrocchiano è l’amministrato, il residente della parrocchia che vive la dimensione comunitaria propria della chiesa cattolica. Il fedele insomma. Il credente che nella Chiesa si riconosce.
In italiano quindi c’è il parroco e ci sono i parrocchiani. In napoletano, invece, … tinimmo ‘o parrucchiano e po’ ci stammo nuje: i cristiani.
Parrocchia, parroco, parrocchiano, hanno per radice la parola greca oikía (οικία) che significa casa. [Vedi anche i lemmi Economia ed Ecologia].
“Parrocchia” in effetti è la trasformazione e l’adattamento alla lingua italiana dell’espressione greca/ellenistica: parà oikías (παρά οικίας = presso le case). La parola, divenuta appannaggio della cristianità, all’origine indicava una realtà di villaggio. E solo la presenza di “un’assemblea del circondario”, cioè la comunità cristiana – diremmo oggi: di quartiere – ha fatto sì che l’espressione εκκλησία παρά οικίας corrispondesse alla “chiesa vicina (o intorno) alle case”. Vale a dire la parrocchia (εκκλησία = assemblea, convocazione). Lo stesso significato ha anche la parola “sinagoga” (riunione, convocazione). Nella parola chiesa si fa perno sul “chiamare dentro”; con la parola sinagoga invece si insiste su “far venire insieme”.
[In qualche regione è chiamata “pieve”, assumendo il nome dal popolo (latino: plebs = plebe, cioè popolo)].
In tutti i casi la parola è andata ad indicare in seguito anche la costruzione, la chiesa di mattoni, la sinagoga, la pieve, intorno alla quale si addensavano le case.
Tralascio, in quanto compito degli storici, tutti gli aspetti storico-giuridici, organizzativi e gerarchici, di queste istituzioni, che pure hanno qualche differenza tra di loro. Solo voglio evidenziare un fatto che per quanto di natura psicologica interessa ancora il linguista. E, per conseguenza, potrebbe incuriosire anche il lettore di queste pagine/pillole. Gli studiosi di psicolinguistica (o di sociolinguistica) sostengono che la sfera lessicale (è l’insieme di tutte le parole che per significato ruotano intorno ad un argomento: per dirla in maniera semplice) della religione (del mistero, del sacramento, della fede) nel processo di evoluzione, mantiene le parole identiche a se stesse più a lungo. La stessa cosa succede per la sfera della soggettività (cioè, dell’intimo della persona: dell’io).
Che la cosa sia evidente fra i cristiani, ce ne rendiamo conto. Ma se facciamo caso, adesso che sempre più siamo a contatto con altre religioni e ci interessiamo ad esse, notiamo che le parole – come dire? – tipiche, storiche, fondamentali, caratteristiche, della loro vita spirituale quasi mai vengono adattate alla nuova lingua.

Pillole di cultura: Patente

a cura del prof. Luigi Casale

Forse non a tutti è manifesto [è “patente”] che la parola “patente” sia un participio presente. Il fatto di averla usata sempre come un sostantivo femminile (la patente) ci distoglie da un’analisi corretta. Sono diversi i participi presenti, passati al rango di nomi sostantivi: cantante, studente (che sia trattato come sostantivo lo dimostra il fatto che la lingua ne ha creato il corrispondente femminile: studentessa; cosa che non succede con cantante), amante, montante, ecc.; altri sono diventati aggettivi, e come tali trasformatisi in seguito in nome proprio: presente, costante (Costante), prestante, vagante, ecc.; ce ne sono poi di quelli che interpretiamo perfino come preposizione; vedi, per esempio, mediante, non-ostante. Fra tutti questi, alcuni – come patente e presente – trovano difficoltà ad essere ricondotti ad una forma di infinito. Infatti, il verbo di cui patente è participio, non esiste più. Era un verbo impersonale (cioè che già al tempo dei Romani aveva sono le terze persone singolari; come oggi è il verbo piovere) E “patet” il cui infinito presente era “patère”, significava “appare, é evidente, è manifesto”. Perciò, oggi, “patente” (participio) significa: che è evidente, che è palese, che è manifesto, che appare. Mentre la forma sostantivata (al femminile) “la patente” è un documento che rende manifesto un fatto. Nel caso di quella automobilistica – quella più frequentemente indicata con questo nome e che i francesi chiamano “permesso di condurre” – attesta che alla persona che ne è titolare è stata riconosciuta la capacità di guidare un mezzo meccanico di locomozione. Però oggi, anche se non tanto spesso, si sente ancora dire: “la cosa è patente”. Cioè: il fatto è evidente, è manifesto, appare chiaramente. Il contrario di “patente” è “latente”. Vale a dire: che non si vede, che è nascosto. Forse riconosciamo con maggiore familiarità la parola “latitante”, participio di un verbo (latitare) ancora vivo nella lingua italiana, derivato dalla forma intensiva del radicale (“latet, latère”, opposto a “patet, patère”), anch’esso impersonale. Di questi verbi intensivi o iterativi, abbiamo avuto modo, da qualche parte, di parlare già. Ricordate la coppia: capio/capto? Ora, possiamo aggiungere anche cano/canto (cantare). Per dire che in molti casi, nel passaggio dal latino all’italiano, il verbo radicale si è estinto, mentre la forma col suffisso si è conservata.

Pillole di cultura: Pisone

a cura del prof. Luigi Casale

“U Pəsónə”. Precisiamo che la “e” capovolta (ə) è la rappresentazione grafica, la trascrizione (il grafema) di una vocale caratteristica della lingua napoletana. Si tratta di quel fonema che – se noi chiamiamo “colore” la differenza tra le vocali: a , e , i , o , u , della lingua italiana – dovremmo dire (nel caso nostro) “senza colore”. Per capirci: è quella vocale, finale di parola, che i napoletani non pronunciano a meno che non sia accentata. Così si dice abitualmente. Ma non è esatto. In effetti essa non cade, perché i napoletani la pronunciano bene. Semplicemente la producono senza il “colore”: diventa cioè una “vocale indistinta”. È una ulteriore vocale che nella lingua italiana manca.
Ma perché mi fate sprecare tante parole se – napoletani o no – conoscete il modo di parlare dei napoletani? … allora, … ci siamo capiti?
Detto questo, e considerato però che la tastiera del PC non la prevede, nelle finali continueremo ad indicare la vocale della corrispondente parola italiana. Mentre nel mezzo delle parole la indicheremo con una e, così ognuno la produrrà come “naturalmente” la sa pronunciare. Da napoletano.
In sede scientifica, quando sarà il momento, ricorreremo ai sistemi grafici convenzionali.
Quindi, oggi parliamo di “pesone”. Se vi dicessi, in maniera sbrigativa che pesone è un grande peso, per quanto io dica una banalità, pur sbagliando nel metodo, in sostanza direi una cosa giusta. Perché, essendo “u pesone” la rata mensile (pattuita) che paghiamo al padrone di casa per occupare – si dice locare – l’appartamento in cui viviamo …. Chi mai sarà disposto a negare che esso non costituisca un “pe-so-ne”, cioè un grande peso? Ma ci arriveremo!
“U pesone” è l’equivalente della parola italiana pigione. Parola femminile: “la pigione”. Se qualche volta la diciamo al maschile è solo perché siamo influenzati dal nostro parlare napoletano.
Pigione è la trasformazione medievale, arrivata nella lingua italiana, della parola latina pensionem, da cui viene anche l’altra parola italiana (senza trasformazione, questa volta!): pensione. Sia nel senso di vitalizio che percepisce chi ha svolto delle prestazioni lavorative, sia nel senso di corrispettivo che dobbiamo pagare a chi giornalmente ci offre vitto e alloggio (“Stare a pensione”: o presso esercizi pubblici o presso famiglie private). Da qui viene anche il nome stesso degli alberghi più modesti: la pensione. ( “Stella maris”, “Casa serena”, “La lucciola”, ecc.).
Pensio/pensionem, all’origine, è la pesata (dal verbo latino: pendo = pesare), ma, poiché il pensum è la quantità di lavoro quotidiano, il compito assegnato (metaforicamente: il peso), pensio/pensionem è anche la quota di danaro che in cambio dev’essere corrisposta a chi fa quel lavoro, cioè la rata giornaliera. Il lettore perspicace si rende conto che quello che all’inizio sembrava uno scherzo, quasi una provocazione, poi si è rivelata una verità. Cioè che pisone è collegato – risalendo alle sue più antiche origini – proprio al gravame di un peso.
Ma, per quanto ce ne rendiamo conto, non dobbiamo meravigliarcene più di tanto, perché, come spesso abbiamo detto ogni qualvolta abbiamo parlato di lingua opaca o trasparente, ogni parola, o per effetto della metafora, o per conseguenza delle avvenute mutazioni socio-economiche, passando nelle successive fasi della sua utilizzazione comunicativa, cambia – a volte anche profondamente – il suo significato. La stessa dialettica socio-economica, poi, fa in modo che la parola continui a trasformarsi e a passare da un’area di significato all’altra. Solo per restare in questo ambito della vita e dell’abitare, possiamo considerare che “piso” è la parola spagnola per dire appartamento, e che “pisolino” è il riposo pomeridiano.
Ma se ci spostiamo da quest’area, troviamo che parole della stessa sfera lessicale, cioè sempre collegate agli etimi: pendo (pesare), pensum (peso), pensio (pesata), vanno a coprire altre aree semantiche, anche abbastanza lontane da quella di partenza.
Per fare un esempio. Pendo e *pondo – le differenzia una semplice variazione apofonica – hanno la medesima radice, così pure pensum e pondus.
Allora, partendo da questi etimi, consideriamo che cosa vanno a significare le parole: pensare o ponderare! Che proprio da essi derivano. (Intelligenti pauca = Per la persona intelligente, poche parole).

Pillole di cultura: Pneumatico

a cura del prof. Luigi Casale

Pneumatico (“il pneumatico”: sostantivo) è la ruota dell’auto, della bici, ecc.; non la ruota compatta, di legno o di metallo, o cerchiata da anello di ferro oppur di gomma, ma la ruota che si gonfia, detta anche camera d’aria. Infatti l’aggettivo pneumatico significa proprio “gonfiabile”. È pneumatico, perciò, qualche cosa di gonfiabile, fosse anche un palloncino. (La particella “pneuma…” è anche il prefisso per indicare tutto ciò che riguarda i polmoni). La parola “pneumatico” è l’adattamento italiano dell’aggettivo greco pneumatikóV (pneumaticòs = che riguarda lo spirito, il soffio). Si tratta di una parola dotta – concetto già illustrato altre volte in questa rassegna – cioè di una parola recuperata dalle lingue classiche, scelta per chiamare, denotare, definire, una nuova realtà (in questo caso un nuovo prodotto industriale, frutto di una invenzione: la ruota gonfiabile) sottraendo la parola al suo, ipotetico o reale, processo di trasformazione evolutivo. Cioè, a tutte le modificazioni che nel corso del tempo si fossero eventualmente applicate alla storia del vocabolo. Pneuma (pneuma = spirito) è soffio e spirito; e la lingua italiana per queste realtà (referenti) ha le due parole or ora citate: soffio, spirito. E pnew (pnéo = io soffio) è il verbo da cui deriva il sostantivo pneuma. Ma tra i nomi di derivazione latina o di derivazione greca, nella lingua italiana si sono conservate altre parole che significano: soffio, vento, spirito, anima, soffio vitale, respiro, ecc., o ad esse collegate. Eccole: pnew (soffiare), pneuma (soffio, spirito), pneumwn (che diventa anche pleumwn : polmone); anemoV (vento); spiro (io soffio), spiritus (brezza, soffio, spirito); animus (mente, spirito, coscienza), anima (soffio, vento, principio vitale), animal (vivente). E aggiungerei anche pleura (pleura).

L.C.