Archivi tag: pillole di cultura

Pillole di cultura: Sant’Antuono

a cura del prof. Luigi Casale

Buongiorno! Oggi 17 gennaio, la liturgia fa memoria di S. Antonio Abate (napoletano: “Sant’Antuono”) da non confondere con S. Antonio da Padova (napoletano: “Sant’Antonio”). La diversa pronuncia del nome indica la diversa origine e la diversa epoca di formazione dell’uso del nome. Ma più semplicemente indica il comportamento “economicistico” del parlante, che di fronte a due soggetti con lo stesso nome, crea due segni del codice (due parole diverse) per distinguere le due realtà designate originariamente con la stessa parola.
“S. Antuono”, eremita e fondatore del monachesimo orientale, secondo la tradizione è protettore degli animali e protettore del (e dal) fuoco. In alcuni centri oggi è la giornata dei falò (come a Castellammare il giorno dell’Immacolata).
Con questa data in altri tempi si faceva iniziare il periodo del Carnevale.
La iconografia popolare lo rappresenta in mezzo, tra un piccolo maiale e un fuocherello acceso.
Quando in presenza del fuoco il vento ci porta folate di fumo ad offuscarci gli occhi, si prega S. Antuono, con l’espressione propiziatrice: “Fumm’allà e purciello a’ccà, fumm’allà e purciell’accà, fumm’allà e purciell’accà”.

“Luiggi”.

 

 

 

Pillole di cultura: Sciauràta

a cura del prof. Luigi Casale

Conosco un detto antico che non ho mai sentito altrove, se non in casa; e solo da mia madre. Probabilmente nel quartiere dove ho vissuto mia madre doveva essere un’estranea. Certamente era portatrice di un’altra cultura e di una diversa sensibilità. Eppure l’estrazione sociale e le condizioni economiche della sua famiglia d’origine (e della nostra) erano omogenee a quelle della maggior parte delle famiglie che ci abitavano attorno. Mia madre, quando qualcuno si intrometteva nella vita di un’altra persona o cercava in tutti i modi di “migliorarla” – in genere, quando uno di noi fratelli, premuroso, voleva a tutti i costi. per fin di bene naturalmente, che gli altri facessero quello che lui consigliava, o meglio, “voleva” – diceva così: “Pensierosa, pensa a te, ca a sciaurata ci sta chi ci pensa”. Allora, sembrava che lo spirito della filosofia alla base del detto fosse il disinteresse per la sorte degli altri, l’abbandono al loro destino dei meno intraprendenti o poco dotati. Ma a ripensarci oggi mi sembra che la saggezza di questa espressione stia piuttosto nella fiducia negli altri, nel riconoscimento di una libertà di fare esperienza anche se sbagliando, e nella confidenza verso la provvidenzialità della natura stessa. Questa parola “sciaurata”, però, fuori dal contesto in cui la usava mia madre, era abbastanza usata sia in famiglia che fuori. Oggi meno. Eppure, se ben ricordo, essa compariva nella canzone “scalinatella”* cantata da Roberto Murolo o Fausto Cigliano. Usata da entrambi con tanta grazia.
Perciò c’è da dire che a proposito di questa parola: sciaurata (o sciauratella), pur esistendo identica anche nella lingua italiana, in napoletano essa ha un significato (o una connotazione, cioè un modo di usarla) completamente diverso. Non vi è rimasto niente di catastrofico e di irreparabile proveniente dal significato di “sciagura”, alla base degli aggettivi sciagurato (italiano) e sciauratə (napoletano). Non vorrei sbagliarmi, ma a casa nostra l’appellativo veniva appioppato con atteggiamento bonario, e significava un misto tra, disordinato, sregolato, sfaccendato. Da cui il detto: “Pensierosa pensa a te, ca a sciaurata ci sta chi ci pensa”. L’unica particolarità era che l’aggettivo era più spesso riservato alle donne.
La parola “sciagurato”, e la corrispondente voce napoletana “sciaurato”, nella loro forma originaria sono formate dalla preposizione “ex” più l’aggettivo latino “auguratus”. Dove la preposizione ex (che generalmente ha un valore di provenienza o di allontanamento) qui assume un valore privativo: quindi “privo di buona sorte”; mentre e in napoletano è “piuttosto sprovveduto”.

Note:

* SCALINATELLA
Roberto Murolo/Enzo Bonagura/Luigi Cioffi

Scalinatèlla,

longa, longa, longa, longa
Strettulélla
strettulélla,
addó’ sta chella
‘nnammuratèlla?

Nun spónta ancora…
zuc, zuc, zuc, zuc:
zucculillo
zucculillo,
pe’ ‘sta viarèlla
scarrupatèlla!

Addó’ mme ne vogl’í, t”o ddico…e crídeme…
addó’ se ne pò ghí chi è stanco ‘e chiágnere?!

Scalinatèlla
saglie ‘ncielo
o scinne a mare
cercammélla
trovammélla,
pòrtame a chella
sciaguratèlla!

Chella s’è ‘nnammurata ‘e nu pittore
ca pitta Capre e parla furastiero…
e i’ porto ‘mpiétto nu dulore ‘e core
e sento che mm’accide stu penziero!

Scalinatèlla,
longa, longa, longa, longa
Strettulélla
strettulélla,
addó’ sta chella
‘nnammuratèlla?

Nun spónta ancora…
zuc, zuc, zuc, zuc:
zucculillo
zucculillo,
pe’ ‘sta viarèlla
scarrupatèlla!

Addó’ mme ne vogl’í, t”o ddico…e crídeme…
addó’ se ne pò ghí chi è stanco ‘e chiágnere?!

Scalinatèlla
saglie ‘ncielo
o scinne a mare
cercammélla
trovammélla,
pòrtame a chella
sciaguratèlla!

Pillole di Cultura : Sciavecarìe

a cura del prof. Luigi Casale

Sciavecarìa nel nostro lessico famigliare indica qualche cosa da mangiare, o da spizzicare, che leva l’appetito, o meglio che non nutre sufficientemente e di conseguenza non fa tanto bene alla salute. Almeno così ho imparato a percepire la parola e quindi anche ad usarla, in quanto con questo significato la usavano i miei. Specialmente quando con essa indicavano tutti quei prodotti che si vendevano sulle bancarelle, o davanti alle scuole o durante le feste di paese, che non erano né dolci, né frutta, né merendine, e che dalle nostre parti si chiamavano comunemente “‘u spasso”. Senza sapere se con questo termine si volesse indicare “lo sfizio” che esse procuravano gustandole oppure “il passeggio” che accompagnavano e favorivano con il loro consumo.
Una sua analisi più completa o più dettagliata che ne isoli e ne chiarisca i tratti semantici, ci porterebbe ad una comparazione di tutte le accezioni attestate, oltre che ad un controllo delle possibili metafore nei vari registri di lingua o nei singoli contesti, e semantici e lessicali. Operazione per la quale sarebbe indispensabile la più ampia documentazione delle testimonianze, sia della tradizione orale che delle fonti letterarie, attestanti la presenza di questo vocabolo.
Ma mi limiterò invece alla lingua viva e alla pratica comunicativa attenta e consapevole nel ristretto ambito familiare dell’idioletto prodotto dal nostro gruppo sociale nella realtà socio-economica del territorio nel particolare momento storico: una regione marittima dove è rimasta viva la memoria della pesca con la sciabica.
La sciabica era un tipo di rete che veniva usata per la pesca a strascico praticata da terra. I pescatori (gli sciabicotti) dalla riva, o stando con i piedi in acqua fino alle ginocchia, trascinavano verso terra – afferrandone le due estremità – la rete (napoletano: ‘a sciaveca), dopo averla lanciata – a mano in un ampio cerchio – in mare. Ma sciabica era detta anche la barchetta, qualora la utilizzassero, usata per distendere la rete anziché lanciarla a mano. O la stessa intera azione di pesca.
E sciabica era anche il pescato raccolto ad ogni operazione.
Allora possiamo tranquillamente desumere che sciavicherìa sia tutto quanto abbia a che fare con questo tipo di attività marinaresca.
Ora ritornando alla portata semantica di sciavecaria, così come l’ho descritta a partire dall’uso che se ne fa nella nostra parlata, se ne comprende bene la pertinenza proprio in riferimento alla sciabica e alla sua pratica come attività produttiva. Quindi il suo significato è conseguenza del significato di sciabica. Cioè un tipo di pescato assortito non di pregio, né per quantità né per qualità. E da qui, attraverso la metafora, anche il significato da noi attribuito alla parola.
Quanto poi alla sua origine la si fa derivare dell’arabo, con o senza la mediazione della lingua spagnola.
Più probabilmente però la parola è entrata nella lingua italiana (toscana) attraverso il siciliano.

L.C

Pillole di Cultura : Scivolamento di significato e trasparenza linguistica

a cura del prof. Luigi Casale

Etimologia delle parole:
Barbaro = che parla un’altra lingua (diversa dalla lingua greca)
Cafone = che parla male una lingua (in Italia meridionale)
Fariseo = appartenente ad un determinato gruppo politico-dottrinale (in Giudea)
Gentile = appartenente a famiglia con diritto di cittadinanza (a Roma)
Idiota = che non partecipa alla vita pubblica (ad Atene)
Imbecille = debole, malato, in-fermo, che si appoggia al bastone (a Roma)
Ipocrita = attore (in Grecia)
Mambrucco = che parla in tedesco (in mezzo a chi parla l’italiano)
Nero = dalla pelle scura (dovrebbe valere come scuro, bianco, rosa, rosso, o giallo)
Pagano = abitante di un pagus (villaggio)
Patrizio = appartenente a famiglia senatoria (i patres a Roma sono i senatori)
Rivale = che abita sulla riva di un fiume
Schiavo = Slavo
Servo = che conserva (servare)
Urbano = che vive in città (urbs)
Vicino = abitante di un vicus (villaggio)
Villano = che vive in una fattoria agricola (villa)
Zingaro = tzigano, gitano, (o forse egiziano ?)

Molte di queste parole le ho già trattate in un articolo a parte, oppure richiamate incidentalmente parlando di altre. Nell’uno e nell’altro caso ho cercato di far vedere come esse dal loro significato vero, quello originario, sono passate a significare altre cose: e così, con questo significato negativo (raramente positivo) oggi noi generalmente le percepiamo. Una connotazione che deriva proprio dal nostro modo di usare queste determinate parole.
Conoscere tutte – o quasi – le accezioni (significati, modi d’uso,) di una parola e saperne ricostruire l’etimologia (la storia del significato fino a un certo punto, che convenzionalmente chiamiamo “origine”), questa capacità o questo processo, l’ho definito “trasparenza linguistica”, come fanno gli autori. E la modifica nel tempo del significato della parola, seguendo gli stessi autori, l’ho chiamata “scivolamento di significato”.
Nei passaggi più espliciti delle mie argomentazioni ho cercato anche di far vedere, dove possibile, le probabili cause alla base di questi fenomeni: interferenze linguistiche, affinità fonologiche, analogie, metafore, deformazioni, banalizzazione, ecc. …
Nelle parole dell’elenco che presento oggi – e chi sa quante altre ce ne saranno ancora! – a determinare lo scivolamento di significato ha giocato il pregiudizio sociologico di origine egocentrico. Cioè quella diffidenza innata per l’altro: l’estraneo, il diverso; diffidenza e sospetto che nascono dalla paura e dall’errato concetto che ognuno di noi ha di sé stesso. La presunta superiorità, frutto di ignoranza e di arretratezza: la cattiveria.
A questo punto, sconfortati da questi comportamenti umani, ma confortati proprio da questi esempi di conoscenza, possiamo anche concludere che la trasparenza linguistica, il corretto uso della lingua, la conquista della conoscenza, la ricerca e lo sforzo di capire, non sono più un lusso o la prerogativa di dotti e acculturati, ma il senso di responsabilità dell’uomo libero*. E come tali ci trovano impegnati nella loro diffusione per parteciparle questa forma di consapevolezza ad una più larga base sociale.
“Chi ha orecchi da intendere intenda!” (Citazione non mia).

* La libertà come diritto della persona nasce con noi, e come tale va rispettata. Ma essa si
concretizza pienamente solo attraverso un lungo e travagliato processo di crescita umana e civile che non conosce né sosta né termine. Ha solo come meta e obiettivo la libertà.
(Questa citazione può essere considerata mia).

L.C.

Pillole di cultura: Semplice

a cura del prof. Luigi Casale

“Semplice” non è “facile”. E il suo contrario non è “difficile”.
Prendiamo ad esempio la terminologia grammaticale. Quando distinguiamo i tempi del verbo, una prima classificazione è quella tra tempi semplici e tempi composti. Presente, Imperfetto, Passato remoto, Futuro semplice (tempi semplici), da una parte. Passato prossimo, Trapassato prossimo, Trapassato remoto, Futuro anteriore: tempi composti, dall’altra. Così, anche nella rappresentazione grafica. In questa maniera si evidenziano, alla vista, tutti quei meccanismi generativi che sono alla base dell’analogia. Implicitamente si mostrano, a chi sa usare la logica, quelle che poi saranno esplicitate come “regole grammaticali”.
Un discorso etimologico e di approfondimento semantico meriterebbero, non solo la parola “semplice” oggetto di questo articolo, ma anche tutti i termini del linguaggio tecnico della grammatica italiana, in particolare – perché li stiamo nominando adesso – quelli che designano i modi dei tempi del verbo. Ma vedrete che ci ritorneremo.
Allora possiamo dire che i tempi semplici sono quelli la cui voce è formata da un’unica parola; mentre i tempi composti sono quelli le cui voci sono formate da più di una parola (due). A rigore dovremmo dire che i tempi definiti semplici contemplano voci verbali morfologicamente strutturate:cioè una sola parola in cui gli elementi morfologici siano codificati in suffissi temporali e desinenze personali, singolari e plurali; attaccati alla radice. In conclusione: una sola parola con tutte le etichette necessarie a caratterizzarla come voce verbale. I tempi composti invece poiché non si prestano a questa possibilità, hanno bisogno di utilizzare la voce del verbo (essere, avere, venire) detto ausiliare, in quanto aiuta la coniugazione del primo verbo, a scapito della loro originaria carica semantica (cioè non significano più “essere”, “avere” oppure “venire”). Diventano in effetti degli elementi morfologici. Tuttavia resta il fatto che questi tempi presentano voci verbali formate da due parole. Mentre i tempi composti dovrebbero essere chiamati perifrastici.
Però …. C’è sempre un però. Se però prendiamo in esame la diàtesi passiva (esclusiva dei verbi transitivi), pur continuando a mantenere – i tempi – il nome di semplici o composti, constatiamo che i tempi semplici sono formati da due parole (voce del verbo essere + participio passato. Es. : “era visto”) e i tempi composti hanno tre parole (voce composta di “essere” + participio passato. Es. : era stato visto). Ancora una volta notiamo la convenzionalità nell’uso del segno linguistico. Tanto più trattandosi di termini tecnici di una disciplina. Una corretta terminologia scientifica dovrebbe suggerire le definizioni di tempi che presentano voci “morfologicamente strutturate” (una sola parola) e tempi che presentano voci ”perifrastiche”; cioè formate da due o più parole.
Da tutto questo parlare siamo arrivati, in maniera empirica, a spiegare che “semplice” originariamente significa “formato” da un solo elemento, e che “composto” significa “formato da più di un elemento”. Ma sempre risalendo alle origini, più che “composto” (compositum = messo insieme, assemblato), l’opposto di “semplice” è “complesso”.
Quindi – a rigore – “semplice” si contrappone a “complesso”. E fra l’uno e l’altro ci corrono : “duplice”, “triplice”, “quadruplice”, ecc. (numerali moltiplicativi).
Pertanto “semplice” più che di “facile” è sinonimo di “elementare”.
Latino: sim-plex / du-plex / tri-plex / quadru-plex / quintu-plex, fino a com-plex.
Il tutto viene dalla radice indeuropea “sem” e dall’elemento suffissale “plex”.
La radice “sem” è alla base delle parole latine solus (uno solo), semel (una sola volta), e del numerale greco eís, mía, én (uno, una), che ha già perduto la s iniziale, e corrisponde, come si vede, al latino unus, una, unum (uno, una).
L’elemento “plex” viene da plico (piego) e significherebbe – all’origine – piega (avvolgimento). Quindi: una volta, due volte – vedete bene che anche in italiano c’è “il piegare”, espresso dalla parola “volta” – tre volte, ecc., fino a “complesso” (più pieghe). Da complesso viene anche “complice” (piegato, abbracciato insieme: quindi associato alla stessa sorte, allo stesso destino) e “amplesso” (ambi = di qua e di là, tutt’intorno + plex = avvolto [abbracciato]).