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Pillole di cultura: Terremoto

a cura del prof. Luigi Casale

C’è poco da dire su “terremoto”, perché la sua etimologia è facile. Ma ci vuole il latino. Come in tante altre situazioni linguistiche e non. Ditelo ai giovani della scuola media che devono scegliere l’indirizzo scolastico per continuare il percorso di formazione umana!
La parola nasce dalla espressione “terrae motus” o “terrae motum” (meglio: accusativo; infatti la consonante finale “m” è stata la prima delle consonanti finali di parole ad essere oscurata nel corso del tempo; “a cadere”, come si dice). Ma c’è anche l’ablativo “terrae motu” che – naturalmente, cioè già per sua natura – non ha una consonante finale.
Allora, facilmente, si capisce la trasformazione di terrae-motu(m) in terremoto. Movimento della terra, moto della terra, scossa della terra. Si intende che motus è il sostantivo derivato dal verbo “moveo/movi/motum/movère” (muovere, agitare, scuotere). Quello che i greci chiamavano “seisma” (scuotimento, scossa): dal verbo “seio” (scuoto, agito, crollo).

L.C.

 

 

 

Pillole di cultura: Effigiata

a cura del prof. Luigi Casale

Della lingua napoletana, le poche parole ancora originali, quelle cioè antiche e ancora usate solo in ristretti ambiti sociologici oppure nel ricordo degli ultraottantenni, e che non trovano riscontro nella parlata toscana, abbiamo già visto come esse derivino direttamente o dal latino o dal greco.
Il fatto di avere una discendenza nobile è chiaro segno che sono nate in ambito culturale elitario. Per lo stesso motivo, una volta diffuse, e – modificate – banalizzate nelle parlate locali, esse hanno acquistato il rango di parole dotte perdendo del tutto la loro trasparenza.
Una di queste è “l’effigiata”(l’ho scritta e l’ho letta secondo la lingua italiana).

Non conosco la statistica delle parole più usate, ma pare tuttavia evidente che in condizioni normali la parola “effigiata” (a meno che non sia ricondotta ad una terminologia tecnica) non dev’essere tra le più utilizzate dal parlante comune. Al punto da farla sembrare una “parola dotta”, cioè una parola che interrompendo il suo processo evolutivo, sia stata in seguito recuperata e rimessa in circolazione da parlanti acculturati, nella forma più antica, quella originaria. Nel caso di effigie la forma più antica è la parola latina “effigiem” dal verbo effingo (e+fingo = simulo), che significa immagine, riproduzione, finzione.
Ricordiamo il principio secondo cui “l’arte è finzione”, in quanto riproduzione del reale. Infatti ne è un’immagine.
Ora questa parola, dotta finché vogliamo, è molto diffusa nella parlata napoletana; ma proprio perché se ne è perduto il senso, essa si è rassegnata a divenire una “parola opaca”. Chi la usa, sa di che cosa intende parlare, ma non è in grado di coglierne il vero senso.
Si sente dire: “‘Na bbona ‘ffigiata!” (Una buona sorte). Oppure: “Aggia jucà a ‘ffiggiata”.
E questa è per noi l’effigiata: il gioco del lotto. I novanta numeri della “smorfia” dei quali si scommette l’uscita fortuita, dell’uno o dell’altro, secondo un ordine prestabilito, sia da soli che in combinazioni tra loro.

Allora c’è una ruota che gira la quale fa muovere la cesta (‘a panara) con i 90 numeri, e qualcuno ne estrae progressivamente una serie di 5. Vince chi ne indovina uno o più, a seconda che abbia scommesso sull’ordine di uscita o sulla loro compresenza nella cinquina. L’estratto, l’ambo, il terno, la quaterna, e finalmente la cinquina. Il premio si calcola mediante dei coefficienti per i quali va moltiplicata lo posta giocata.
Questo è il discorso tecnico sul gioco del lotto. Ma per illustrarne l’aspetto culturale della tradizione napoletana, mi rifaccio alla citazione di un mio omonimo. Scrive infatti Gennaro Casale in un articolo sulla commedia “Non ti pago” di Eduardo De Filippo: “Il gioco del lotto […] diffusamente conosciuto, […] a Napoli […] permea la società nel profondo […]. Il popolo napoletano ha un legame privilegiato con tutto ció che trascende il sensibile […]. Il napoletano vive anche con chi non è fisicamente presente: lo percepisce perché ne riconosce la voce negli accidenti, nei fenomeni, nei numeri.”

Ecco la magia dei numeri e il loro potere. Il legame col mondo ultraterreno, fantastico e immaginario, che convive – ma soprattutto interagisce, influenzandolo – col mondo reale e con la vita di ogni giorno. E così tutto diventa numero, tutto è esprimibile e riconducibile in un numero (dei novanta della smorfia).
Ed eccoci arrivati ad un altro nome dell’effigiata: la smorfia. Il libro dei numeri dove ad ogni numero corrisponde un’immagine, la rappresentazione di un oggetto, di un’idea, di un sentimento, di una condizione, fantasiosamente riprodotto in un disegno (effigie).
La smorfia, o che sia la deformazione del volto umano nel ghigno di chi soffre o di chi ci deride, il mascherone della commedia antica (se ipotizziamo la sua derivazione da “morfé” = forma), o che sia l’insieme di tutte le rappresentazioni del reale al fine di ricavarne il numero magico corrispondente, nel caso che la parola (anch’essa “dotta”, anch’essa “banalizzata”, anch’essa “opaca”) sia fatta derivare da Morfeo, nome mitologico del sonno e di conseguenza del sogno (i Romani avevano una sola parola per indicare il sonno e il sogno).
E il sogno, nella coscienza popolare è l’area di contatto tra i due mondi, quello di quà e quello di là. Il posto dove si concretizzano le immagini mentali e dove di conseguenza si sostanziano i numeri.

L.C.

Pillole di cultura: Effimero

a cura del prof. Luigi Casale

Effimero significa “di breve durata”, che dura un giorno.
La sua origine è in una espressione della lingua greca: ̉εφ’ημέραν (leggi: ef’emèran) = “per un solo giorno”. Effimero, quindi – etimologicamente parlando – dovrebbe significare: della durata di un giorno.
Altre parole della stessa origine sono efèmera (insetto la cui vita dura un giorno), effemeride o efemeride (libro delle registrazioni giornaliere; rubrica giornalistica a cadenza quotidiana; e via discorrendo), emeroteca sezione di una biblioteca dove si raccolgono e si custodiscono le pubblicazioni quotidiane; e – per estensione – anche tutte le altre pubblicazioni a stampa (periodiche).
Ricordiamo il saluto augurale dei greci: kalimèra (buon giorno), parola che nella forma Calimera o Calimero è presente anche nella lingua italiana come toponimo o appellativo.
La parola effimero, dunque, per significato è vicina agli aggettivi giornaliero (“che vale un giorno solo” oppure “che si verifica ogni giorno”) e quotidiano (dal latino “cotidie” (= ogni giorno), a sua volta da “quot diebus” (= per tutti i giorni, cioè “che si ripete ogni giorno”), e al sostantivo diario (dal latino “diarium” – proveniente da “dies” = giorno – che significava razione giornaliera, quota di denaro, di materiale, o d’altro che doveva bastare un giorno).
Diarium, poi, ha la stessa formazione di “salarium” = razione di sale, che si dava ai soldati.

Pillole di cultura: “Egregio”: Detto e non- detto

a cura del prof. Luigi Casale

“Egregio Signore!” Ma che sarà mai questo “egregio” con cui tante volte mi hanno chiamato e continuano a chiamarmi nella corrispondenza e nella comunicazione formale?
Mi fa ricordare la risposta di un personaggio delle barzellette giovanili (napoletane), il quale una mattina essendo stato apostrofato dal suo compariello con l’appellativo di “aitante”, così gli rispose: “Aità (Gaetano!), si aitante è ‘na cosa bbona, aitant’a te e aitante pur’a me. Ma si aitante è ‘na cosa malamente, hai tant’i chilli pàccari …. Hai capito, Aità?”
Ora “egregio” risulta che sia la trasformazione di una espressione latina che suona più o meno così: “E grege”, e che letteralmente significa: “uscito dal gregge”. Sul piano del significato corrisponde perciò al più moderno “distinto”.
Quindi nella metafora di “egregio” è sottinteso che una persona per essere distinta (ma non capisco perché mai si dovrebbe essere distinti) deve uscire fuori dal gregge. Praticamente deve essere un pecorone, o almeno esserlo stato.
Stessa considerazione per l’aggettivo “esimio” (dal verbo eximere). Esso vale sempre come “distinto”, perché esentato da certi obblighi, perciò privilegiato, eccellente.
Conclusione: accettate con bonaria tolleranza quando qualcuno vi chiama egregio oppure esimio. Ma se vedete che mentre vi dà il benvenuto accenna a un sorriso sornione e allusivo, allora potete anche voi, in segno di umiltà, riconoscere la vostra “ignoranza” e ricambiargli il complimento, rispondendogli: “Scusate l’ignoranza! Non so se la mia arriva alla vostra. Ma che significa egregio?”. E sarà ripagato.

Pillole di cultura: Espedito

a cura del prof. Luigi Casale

Espedito, Irene, Filomena, Felice e altri sono nomi – come tante volte in altre occasioni ho avuto modo di dire – derivati da aggettivi o participi. La nostra tradizione cristiana ne ha fatto dei santi. Creandone poi la leggenda che è divenuta storia. Attenzione ! Il mio non vuol essere un discorso disfattista per negare la validità di una tradizione bene incardinata nella cultura di un popolo. In questo caso la civiltà cristiana. Basti considerare che quasi tutti i nomi all’origine, in quanto “appellativi”, indicavano una qualità dell’uomo, o un’aspirazione ideale, o un motto augurale, se non una condizione oggettiva. Ad esempio che cosa può significare il nome Primo, o Secondo, o Sesto, o Decimo? E Spurio e Postumo? Se non la condizione di nascita del neonato? Questi nomi se diffusi dall’uso sono applicati ad altre persone individuandole; e se costui è di qualche importanza sono passati alla storia diventando modello per tante famiglie nella scelta del nome da dare ai propri discendenti. Pensate che in qualche famiglia si trova il nome Cane o Mastino.
Nella cristianità delle origini i “santi” erano i proseliti del messaggio evangelico, i seguaci della nuova religione, i convertiti, i cristiani appunto. Essi poi attraverso una vita coerente e santa, diventano fedeli, nel senso di confidenti in Dio e nel senso che hanno mantenuto l’impegno fino all’ultimo giorno della loro vita o con una morte santa o con la prova del martirio. Così la Chiesa delle origini li rappresenta nella preghiera della celebrazione liturgica. E nel caso in cui si riesca a individuarne e a conservarne la tomba, essa diventa oggetto di devozione e meta di pellegrinaggi. Si dà la creazione del “santuario” (utilizzando un termine già in uso presso i Romani), specialmente se il santo è il fondatore di una chiesa o il suo primo vescovo (cattedra), del quale il corpo si conservava sotto l’altare maggiore.
Si sa pure che le catacombe erano i cimiteri dei cristiani che col culto della custodia del corpo mortale intendevano esaltare due valori: quello della santità del corpo, e quello dell’immortalità della persona.
Quindi – e così torniamo ai nomi – intorno al corpo dei morti: i santi, si sviluppa il culto della memoria, cosicché i loro nomi si diffondono.
Tuttavia di alcuni santi, di cui pur si sono trovati i corpi (le ossa) e di cui si ha anche notizia della devozione presso i primi cristiani, per mancanza di altri documenti, non è stato possibile tracciare un profilo biografico, se non stabilirne il periodo della morte e l’origine della devozione stessa. Ora questi santi erano chiamati con qualche parola o espressione trovata nella epigrafe della lapide tombale (da qualcuno creduto o nome di persona o soprannome).
Quindi non è esatto dire che certi santi non esistono perché non sono mai esistiti; ma piuttosto che essi certamente sono esistiti – prova ne è la tomba ritrovata e la devozione attestata già al periodo della loro morte – e che di essi non si è sicuri che quello sia il vero nome (cioè quello con cui sono stati chiamati quando erano vivi). Si tratta perciò, se proprio lo si vuole conoscere, il vero nome, di approfondire gli studi e la ricerca.
Così Gennaro (Ianuarius) è aggettivo collegato al dio romano Giano, Agostino (Augustinus) è il diminutivo di Augustus, l’appellativo che dal 27 a.C. fu assegnato agli imperatori romani, Felice e Pio (Felix, Pius) altri titoli assegnati agli imperatori a partire da una certa data. Mentre Espedito (exspeditus) probabilmente viene da una espressione che si incideva sulla tomba per indicare la data di morte (spedito al cielo); e così Irene (in pace); o Filomena (amata). Per fermarci a quelli che ci sono più familiari. Ma ve ne sono tanti e tanti.

L.C.