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Il San Catello di Viviani

a cura di Enzo Cesarano

“Oggi l’opera teatrale di Raffaele Viviani è considerata come l’unica affermazione realistica moderna”, con queste parole il critico Paolo Ricci, concluse la recensione altamente elogiativa, della sua opera “Padroni di Barche”, scritta nel 1937, lavoro dove l’azione nell’opera non ha valore figurativo, ma s’infrange come le onde del mare sugli scogli, nella realtà dei personaggi, i quali vanno a rappresentare la realtà generale di allora.
La trama di “Padroni di Barche” è ambientata a Castellammare di Stabia (città in cui l’autore è nato nel 1888) e il luogo prescelto è il porto, al quale si aggrappa il piccolo mondo dei protagonisti del dramma.

San Catello in processione (per gentile concessione della prof.ssa Maria Lucia Cervone)

San Catello in processione (per gentile concessione della prof.ssa Maria Lucia Cervone)

Evidenti sono i riferimenti alla città come le famose sorgenti d’acqua e i cantieri navali. Un particolare importante all’interno del lavoro teatrale, è il riferimento alla processione di San Catello, patrono della città. Nel primo atto dell’opera viene descritto il coro della processione che passa per le vie del porto dove, in un crescendo di intensità si arriva alla supplica di “Catiello Sansone”, uno dei personaggi principali, che rivolgendosi al santo, prega per ottenere la grazia per tutta quella povera gente che ogni anno ripete la processione portando per le strade di Castellammare la statua del patrono.
È un canto antico, come antica è la gestualità e i ritmi della processione che ripetendosi ciclicamente scandisce gli anni. È un inno che al primo ascolto può sembrare “aspro e duro”, sofferto e per alcuni versi struggente, che tutti noi stabiesi dovremmo conoscere e apprezzare:

“Catiello, campane a suna’:
jesce ‘o Sante pe’ tutt’a città!
‘A festa, ca ogne anno se fa,
tutt’a ggente s’‘o vene a pria’! 

Ogneduno lle vene a cerca’
chelli grazie, ca ‘o Sante c’‘e ffa’:
‘a fatica ca n’ha dda manca’:
previdenza, salute e magna’!

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Il vero Raffaele Viviani

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Raffaele Viviani

Raffaele Viviani

Caro Maurizio ho letto il simpatico scritto del Signor Corrado di Martino sul falso Raffaele Viviani. Ebbene io ho conosciuto di persona il vero Viviani, il cui padre era amico di mio nonno, Luigi Suarato e lui stesso, Raffaele, amico di mia mamma, quasi coetanei.

Per quei casi della vita che ti portano a vivere lontano dalla tua città, io giovanotto lasciai Castellammare con i miei genitori moltissimi anni fa. Finita l’ultima guerra mondiale nel 1945 la vita incominciava a riprendere il suo ritmo nella normalità ed anche gli spettacoli teatrali quindi incominciavano a svolgersi regolarmente. Le varie compagnie teatrali ripresero i loro giri artistici portando gli spettacoli nelle varie città italiane.
Non ricordo bene se fosse il 1946 o 1947, a Torino dove vivevo con la mia famiglia, venne per una recita la compagnia del “vero” Raffaele Viviani. Appena mia mamma lo seppe volle che io l’accompagnassi a teatro per vedere il suo amico d’infanzia. Naturalmente l’accontentai e finita la commedia ci facemmo accompagnare nel camerino del commendatore.
Un uomo come me di più di 85 anni di avvenimenti ne ha vissuti; di momenti belli e brutti, tristi e gioiosi, allegri e malinconici ne ha passati, ma il ricordo di quell’incontro mi è rimasto indelebilmente stampato nel cuore e nel cervello per l’intensità delle emozioni che mi procurò.
Per capire quanto sto per descrivere bisogna sapere che da qualche anno Raffaele Viviani soffriva di una malattia che di li a poco lo avrebbe portato alla tomba e che mia mamma non lo vedeva da molti anni. Appena uno di fronte all’altro, negli occhi dell’uno e dell’altra, e sul volto dell’artista appena struccato e su quello di una donna matura lessi chiaramente quale emozioni e quali commozioni si erano impadroniti dei due in quel momento. Lui in piedi, al fondo di quel locale non molto ampio, fermo con le braccia aperte che preludeva ad un commosso abbraccio disse: “Gemmetè, comme si ancora bella! Comme staje?” E l’abbraccio che ne seguì è uno dei ricordi più belle e cari della mia vita. Prima, perché quel complimento che poteva apparire galante, ma che era espresso con sincera affettuosità, era rivolto a mia mamma. E poi perché in quel momento facevo la conoscenza di un grande artista. Un artista che (studiandolo più approfonditamente negli anni seguenti) ha sempre ben rappresentato la vita e l’anima di quel meraviglioso popolo dei disperati, dei poveri, dei lavoratori manuali, di muratori, di pescatori, di zingari e saltimbanchi; in poche parole, dei reietti dalla società. Ma non voglio dilungarmi sulla grandezza dell’artista e del poeta.
Voglio solo ricordare il grande nostro concittadino e quindi ringraziare il Signor Di Martino che me ne ha dato l’occasione. Quello era il “vero” RAFFAELE VIVIANI che ho conosciuto io.

                                                          Gigi Nocera

Lo pseudo Viviani, l'uomo con i baffi nella foto

Un giorno incontrai Raffaele Viviani

Un giorno incontrai Raffaele Viviani

di Corrado Di Martino

Lo pseudo Viviani, l'uomo con i baffi nella foto

Lo pseudo Viviani, l’uomo con i baffi nella foto

Era una di quelle mattine di metà mese, ed ero già in strada a giocare. La sera precedente aveva piovuto che Dio la mandava. Ero fermo, in quella mattina di primo autunno, a rimirare il riflesso del mio vicolo (Vico Salvati [n.d.a.]) in una pozzanghera d’acqua piovana, smosso dai sassolini che ad arte vi lanciavo dentro; quando tuonò il preavviso di una vicinissima tempesta più perniciosa di quella da poche ore passata: “Carmeli’ ‘o porto ije a scola, mo’ vedimmo si nun ‘nce va!” A quel tempo mio padre lavorava fuori, in Sicilia, e quindi come nelle migliori tradizioni era lo zio uterino ad accollarsi le fatiche dell’educazione del figlio della sorella (figlio al singolare, non perché questi fosse figlio unico, ma perché era l’unico che abbisognava di un attento “educatore” personale).
Zio Catello, era il maggiore dei fratelli di mia madre, celibe per scelta (non vi racconto di quando, parlando del ventennio e del fatto che chi non contraeva matrimonio era sotto-posto a una particolare pressione fiscale, lui e il nonno si scambiavano ancora feroci invettive), tubista alla Navalmeccanica, ex attore di avanspettacolo, a lui si devono tutti i miei incontri con i comici più popolari al tempo in città da Enzo Santomauro a Ciccio Vascuotto ed altri ancora. Era alto, aveva mani robuste, occhi verdi e profondi e su di essi un’ombra triste, come di chi non ha avuto tutto quel che meritava dalla vita. Credeva profondamente in me, anche se ancora piccolo e selvatico, e faceva di tutto per dare le stesse sicurezze anche a me medesimo.
Jamme bbelle, ja’! Già aiere nun he juto a scola, e che facimme n’ato tubbista?
In una di quelle mattine di metà ottobre che tradiscono l’autunno, talmente dolci e temperate sono, quando tutto: il paesaggio, i colori delle piante, gli odori, il mare… il mare!!, ti invitano a fare altro: zio Catello mi accompagnava a scuola. L’acceso dibattito su quanto fosse dura la vita dello studente, consumava i cubetti di porfido che ci dividevano dal “Seminario” (era la vecchia denominazione della scuola elementare istituita all’interno dell’Osservatorio Meteorologico di piazza Municipio). Io mi dimenavo e strillavo, e lui giù scuzzuttune, carocchie e chianette. Mentre lo scontro impari (impari: poiché in grinta e aggressività sovrastavo il malcapitato parente) proseguiva, incontrammo un suo amico: “Rafe’ – gli disse mio zio – nun vo’ ji’ a scola, contace ‘o fatte, ‘e quanne guaglione he capito pecché ‘nce s’ha dda ji!” Raffaele era un uomo sulla trentina, alto quanto lui, castano, con baffi da gentiluomo inglese (quello coi baffi nella foto che segue, se qualcuno ne conosce le generalità mi farebbe piacere conoscerle).

Austero, simpaticamente severo, mi chiese: “Lo sai chi sono io??
Ed io un paio di strattoni a zio Catello, per prenderlo di sorpresa, ma sapendo con chi aveva a che fare, il mastino non abbassava la guardia.
L’uomo continuò: “Sono Raffaele Viviani” ed iniziò a declamare dei versi affascinanti, musicali, ipnotici: “…a dudece anne, a tridece, tanta piezz’‘e stucchiune ca niente maje capévamo pecché sempe guagliune!. […]ma, a dudece anne, a tridece, cu ‘a famma e cu ‘o ccapi’, dicette: nun po’ essere: ‘sta vita ha da ferni’. Pigliaje ‘nu sillabario: Rafele mio, fa’ tu! E me mettette a correre cu’ A, E, I, O, U.
I due si salutarono, ed io frastornato più che placato, con lo zio mi infilai nell’immenso androne del Seminario.
Zio Catello, da tempo non c’è più, il suo amico Raffaele, di cui non ho mai conosciuto il vero nome, l’ho incontrato spesso, durante tutto l’arco della mia vita… è venuto a vedermi a teatro… avrei potuto fermarlo, parlargli, chiedergli… non sarebbe stata la stessa cosa, non più un incontro magico, non più Raffaele Viviani. Quante persone, credete, oggi, possano dire come me di aver incontrato Rafaele Viviani?
La sera precedente aveva piovuto che Dio la mandava, una pozzanghera solitaria rifletteva tutto il mio vicolo.