( a cura di Antonio Cimmino )
Varato a Castellammare di Stabia il 2 dicembre 1824, era costituito da uno scafo in legno con carena ramata, che permettevano un dislocamento di 3.530 tonnellate. Il vascello possedeva tre ponti e l’armamento marinaresco era formato da tre alberi a vele quadre (trinchetto, maestra, mezzana) e bompresso a prora. L’artiglieria era sistemata in due batterie coperte e una scoperta, ed era formata da: 63 cannoni a canna liscia da 24 libbre, 4 obici Paixhans da 80 libbre a canna liscia, 4 obici da 30 libbre a canna liscia e 16 carronate da 24 libbre a canna liscia. Il vascello Vesuvio fu radiato nel 1862, all’indomani dell’Unità d’Italia.
Notizie e curiosità:
Il Vesuvio inaugurò, l’avantiscalo in muratura fatto costruire nel cantiere di Castellammare da Ferdinando I, tra il 1822 ed il 1824. L’opera fu progettata e diretta dal Capitano del Genio Idraulico Giuseppe Mugnai. Tale sistema permise di effettuare i vari all’interno del porto e non verso il mare aperto come avveniva precedentemente. Per la mancanza di un avantiscalo in muratura, l’arsenale di Napoli non poteva costruire navi di tonnellaggio maggiore perché lo scalo era rivolto all’interno della darsena.
L’opera di ingegneria idraulica fu molto complessa in quanto durante i lavori di scavo a mare, si incontrarono diverse sorgenti di acqua minerale che ancor oggi sono presenti lungo la linea che arriva fino alle Terme dello Scrajo.
“Il 2 dicembre 1824 fu varata nel cantiere di Castellammare il nuovo Real Vascello di linea “Vesuvio”. L’operazione del varo si compì in tre minuti agevolata dalla Avan Cala permanente, opera dell’indefesso lavoro di due anni eseguito sotto la direzione del Capitano del Genio idraulico D. Giuseppe Mugnai. Quest’opera consisteva ad aprire con le mine sott’acqua un tratto di massi calcarei si 100 piedi di lunghezza mineralmente dalla natura cementati e col batardeaux e l’azione di trombe (riordinata a molteplici mezzi d’arte) vincere con le più aspre fatiche le sorgenti minerali del sito”.
L’avantiscalo era dunque lungo quasi 33,5 metri dato che il “piede”napoletano, usato sin dal XII secolo, era di 0,3349 metri; nel Regno delle Due Sicilie si usava anche il piede francese o piede regio di Parigi che valeva 0,324864 metri. Salzano quando scrisse che per i lavori dell’avantiscalo si utilizzava il “batardeaux” si riferiva a quelle strutture formate da paratoie poste a monte ed a valle del sito e corredate di pompe per lo svuotamento dell’acqua dal sito stesso per consentire di lavorare all’asciutto.
Per quanto concerne le operazioni di varo, venerdì 3 dicembre 1824, dal Giornale del Regno delle Due Sicilie, si legge:
“Ieri alle 10 della mattina fu varato nel Cantiere di Castellammare il nuovo Real Vascello di linea il «Vesuvio». L’operazione eseguita alla presenza delle LL.AA.RR. il Duca di Calabria ed il Principe di Salerno non poteva riuscire più felice. In men di mezz’ora tutti i lavori preparatori vennero terminati, ed il Vascello fu varato in tre minuti incirca fra gli applausi de’ circostanti, ed al suono festevole della banda della real Marina”.
I cannoni Paixhans furono inventati nel 1823 in Francia dall’ufficiale di artiglieria Henri-Joseph Paixhans. Con tali armi si utilizzarono proiettili esplosivi sparati con traiettoria lineare. I Paixhans si rivelarono maggiormente micidiali rispetto a quelli tradizionali che lanciavano palle di cannone inerti, facilmente assorbili dalle murate in legno (in caso di falle, si usavano speciali tappi di emergenza perché i danni erano localizzati). Oltre a provocare scempio tra gli uomini, i colpi Paixhans provocavano facili incendi a fasciame e sul ponte di coperta perché abbinavano potenza e velocità (data dalla traiettoria lineare). L’esplosione dei proiettili, corredati da una specie di spoletta, avveniva un attimo dopo che erano stati lanciati, proprio quando si erano conficcati nel legno dello scafo. Successivamente furono usati proiettili tronco-conici che incontravano minore resistenza nell’aria e erano maggiormente precisi.
Da ricordare che gli obici già erano utilizzati da tempo nelle battaglie campali, avevano una gittata di circa 1500 metri rispetto a quelli navali ( 400-500 metri) ed una traiettoria parabolica.
Le carronate erano cannoni a canna corta e con bocca svasata (calibro all’uscita) maggiore di quello interno per ridurre gli effetti della vampata sui marinai addetti e sulle sartie. Qualche volta erano sistemate su affusto (carretta) con ruote anteriori più grandi rispetto a quelle posteriori per ottenere un alzo di tiro di circa 30° – 40° per sparare anche sulle coffe degli alberi. Progettate dagli ingegneri militari Melville e Gasconade, le carronate presero il nome dalla fabbrica scozzese che le produsse intorno al 1770 e cioè la Carron Company of Falkirk. Esse, rispetto ai cannoni lunghi erano più leggere (da 1/3 ad ¼ in meno), occupavano meno spazio, impegnavano meno uomini. Spesso venivano montate su affusti a slitta invece che su carrette, che scivolavano su un piano inclinato rivolto verso l’alto per permettere, dopo il tiro e relativo rinculo, di ritornare alla posizione iniziale. Venivano collegate all’affusto mediante un grosso perno centrale che permetteva alle carronate di ruotare (brandeggiare) anche di fianco, in modo da poter colpire anche eventuali nemici che, dopo l’abbordaggio, avessero invaso i ponti scoperti. Le carronate non sostituivano i cannoni, ma li affiancavano nei combattimenti ravvicinati “pennone contro pennone” per la loro versatilità.
I punti più vulnerabili nelle battaglie navali restavano le alberature. Un vascello disalberato era un pontone immobile o in balia delle correnti e, spesso si caricavano i cannoni con due palle unite tra loro da una catena per meglio colpire il sistema velico della nave. In batteria la vita dei cannonieri e dei serventi era pericolosissima quanto quelli della Fanteria di Marina che doveva andare all’arrembaggio. I ponti di batteria, dopo lo sparo di una bordata, erano invasi da fumo acre e denso che rendeva difficile la respirazione. I sei-otto addetti ad ogni cannone, dovevano districarsi tra cime, bozzelli, ganci e carrucole per caricare, in sincronia, tutti i pezzi ed essere pronti a far fuoco.
Note di architettura navale:
Le aperture a murata (dette cannoniere) dalle quali fuoriuscivano le bocche da fuoco delle batterie coperte, avevano portelli di chiusura incernierati nella parte superiore e in navigazione, specie con mare in burrasca, venivano chiusi ermeticamente e fissati alla murata con cime legate ad anelli (golfari) ed anche con cordoni calafatati.
Le cannoniere sistemate sul ponte di coperta (batterie scoperte) avevano portelli mobili che scorrevano in un’apposita riquadratura rinforzata.
Nel quadro di Coblanch (che riporta un profilo dell’unità non abbastanza realistico), si notano chiaramente le costole (ordinate) che fuoriescono dal ponte di coperta e ancora prive di fasciame. In tutte e due i quadri raffiguranti il varo, si distinguono le aperture (cannoniere) dei due ponti batteria coperte.
Come ben si evince dalla stampa raffigurante il Vesuvio nel bacino di raddobbo, la poppa era quadra; solo qualche anno dopo, si utilizzò la poppa rotondeggiante più robusta, ideata dall’ingegnere navale inglese Robert Sepping.
Molti vascelli dell’epoca, oltre alle vele quadre, erano caratterizzati dalla cosiddetta “randa alla mezzana” avevano, cioè una vela trapezoidale (aurica) sul pennone più basso dell’albero di mezzana (la vela aurica la si può notare nel quadro che raffigura il Vesuvio in navigazione).
Nel quadro che rappresenta il Vesuvio, visto di prora, nel bacino di raddobbo di Napoli, si notano le “gru di capone” che servivano per salpare le ancore. Erano grosse travi che sporgevano dalla murata e alle cui estremità, in una scalanatura, vi era una puleggia in cui scorreva una cima accoppiata ad un bozzello con un grosso uncino per il recupero e l’imbracaggio delle ancore. Con le navi in ferro questo sistema fu sostituito da fori a murate (occhi di cubia) dai quali passavano le catene delle ancore collegate ad un verricello.
Sintesi dell’attività operativa:
Dopo pochi mesi dall’entrata in servizio, nel settembre del 1825 al comando del Capitano di Vascello de Blasi, si recò a Tangeri ed a Tripoli per un’azione dimostrativa contro la pirateria che ancora imperversava nel Mediterraneo.
Negli anni successivi effettuò diverse missioni nel Tirreno trasportando truppe da Napoli a Palermo e sia in crociera di istruzione per gli aspiranti Guardia Marina.
A marzo del 1834 stazionò per tre mesi nel cantiere di Castellammare per i necessari e ciclici lavori di carenatura con il sistema dell’inclinazione dello scafo prima a sinistra e poi a dritta, sia per sostituire qualche lamiera di rame e sia per altri lavori di calafataggio.
Il 1° luglio 1843, al comando di una intera squadra navale il Vesuvio salpò per il Brasile. A bordo aveva Teresa Cristina Maria Borbone, figlia di Francesco I che andava ad incontrare il marito, sposato per procura, Don Pedro II d’Alcanatar Braganca, Imperatore del Brasile. Fu la prima volta che una intera divisione navale, effettuò l’attraversamento dell’Atlantico sino al Sud America, navigando in convoglio, un primato su tutte le marine dell’epoca.
La divisione napoletana era composta anche dalle fregate Partenope, Amalia e Regina Isabella. Sul Vesuvio era imbarcato come primo ufficiale il Capitano di Fregata don Filippo Pucci; sull’Amalia prese imbarco come Tenente di Vascello il principe Luigi di Borbone, fratello del sovrano. A ricevere la giovane imperatrice era venuta a Napoli una divisione brasiliana agli ordini del Contrammiraglio Teodoro di Beaurepaire.
Dalle pagine della relazione di viaggio, redatta dal brigadiere Raffaele de Cosa, comandante della squadra napoletana, si legge:
“ …Sul cadere del 1° luglio, vicino al tramonto la divisione dei Reali Legni da guerra data al mio comando e che componevasi da questo Reale Vascello “il Vesuvio” e dalle Reali fregate “Partenope”, “Isabella”ed “Amalia”…dava alla vela dalla rada di Napoli per corteggiare a Rio de Janeiro, capitale dell’impero del Brasile, l’Imperatrice sposa ed anche per far vedere per la prima volta la nostra Reale Bandiera ed una parte della Marina da guerra in un porto d’America dell’altro emisfero… S. M. il Re dispose quel movimento con un segnale dalla corvetta “Cristina”, ove trattenevasi, ordine che fu immediatamente eseguito… La notte, nelle vicinanze di Nostra Signora di Piedigrotta, non mancai salutare quel Santuario con nove colpi di cannone in unione degli altri Legni della mia divisione, che tenni in panna sino al primo giorno seguente, per attendere la divisione brasiliana, che potei verso le ore p.m. raggiungere nelle vicinanze della costa di Sorrento. Effettuata questa prima operazione, dirigemmo con deboli venti dall’E.N.E. a sortire dal golfo. Eravamo sul far della sera che sorgeva chiarissima al traverso dell’isola di Capri, qui gli equipaggi porsero alle nostre terre l’addio dello sperato ritorno e di buon animo avventuraronsi al rischio di una lunga navigazione affatto nuova per essi”.
Il 15 agosto al passaggio dell’equatore le navi si trovarono in grosse difficoltà, il vento era cessato e il mare agitato provocava un forte rollio reso pericoloso da peso delle artigliere. Il Tenente di Vascello Onofrio Spasiano ufficiale al dettaglio del Vesuvio, così riportò nel suo diario l’avvenimento:
“…gravitanti sulle murate che facean descrivere agli alberi degli archi e producevano un battito continuato delle vele sugli alberi medesimi e un tale scricchiolare delle partizioni interne, da impedire ogni riposo…”
Nella notte tra il 17 e 18 Agosto fu finalmente oltrepassato l’equatore e il Comandante de Cosa festeggiò il primo ingresso delle navi napoletane nell’emisfero australe.Al tramonto del 3 Settembre, dopo sessantacinque giorni di viaggio, le due divisioni dettero fondo alle ancore nella baia di Rio de Janeiro, accolte dalle salve di tutti i forti e delle navi da guerra presenti nel porto. Le navi napoletane si trattennero a Rio circa un mese e mezzo per i festeggiamenti in onore della giovane sposa e i necessari rifornimenti di viveri ed acqua.
Il 15 Ottobre ebbe inizio il viaggio di ritorno e finalmente alla sera di domenica 24 Dicembre 1843 raggiunse Napoli dove il viaggio ebbe termine. La divisione napoletana era rimasta assente dalla patria cinque mesi e venticinque giorni dei quali centoquaranta trascorsi in navigazione.
Nel mese di ottobre del 1844, per la riparazione di una falla riscontrata a proravia, invece del tradizionale abbattimento della carena cioè l’inclinazione dello scafo con la sistemazione di pesi a murata per far fuoriuscire dal pelo libero dell’acqua la parte di dritta (come si vede in una cartolina che riprende, al centro, un vascello inclinato a dritta all’Acqua della Madonna), il Vesuvio fu portato nel cantiere di Castellammare. Qui venne tirato a secco sullo scalo di alaggio per la sola parte dello scafo interessato dalla falla e, poi riparato. L’abbattimento della carena per le operazioni di raddobbo o di riparazioni, per le navi con un determinato periodo di servizio e con ossature invecchiate, poteva causare danni alle strutture e un inarcamento della chiglia.
Nel mese di gennaio 1848, la nave al comando del Capitano di Vascello Giorgio Miloro, partecipò, assieme alle altre unità, alla repressione dei moti scoppiati in Sicilia. I palermitani scacciarono Ferdinando II e restaurarono la Costituzione del 1812 sull’onda di una rivoluzione tesa alla separazione da Napoli e all’avversione ai Borbone (questi sentimenti aiutarono, dopo 12 anni, i Mille di Garibaldi a conquistare con faciltà la Sicilia).
Il 14 agosto 1852, il Vesuvio al comando del Capitano di Vascello Chrétien, fu la prima nave da guerra ad inaugurare il nuovo bacino di raddobbo fatto costruire da Ferdinando II nella darsena di Napoli. Oggi tale struttura è monumento nazionale (due quadri rappresentano l’avvenimento dipingendo il Vesuvio visto di poppa e visto di prora).
All’atto dell’entrata di Garibaldi a Napoli la nave si trovava in disarmo nella darsena e, in considerazione delle sue condizioni, si decise, il 17 gennaio 1861, di non iscriverlo nel naviglio da guerra del Regno d’Italia.
Rimorchiato dal vascello Tancredi (altra nave costruita a Castellammare) a Pozzuoli, il 1° febbraio 1862 il Vesuvio fu messo all’asta per 155.000 lire. L’asta pubblica andò deserta e fu riportato nel porto di Castellammare di Stabia dal quale, il 3 gennaio 1865, lo scafo privo di armamento marinaresco, fu rimorchiato di nuovo a Pozzuoli e qui demolito.Note:
Le informazioni contenute nella presente scheda sono tratte da: Radogna L., op. cit., pagg. 297-302; Grasso A., Il cantiere navale di Castellammare di Stabia, in ilportaledelsud.org, dic. 2004 – www.ilportaledelsud.org/castellammare.htm; Radogna L. Storia della Marina Militare delle Due Sicilie (1734-1860), ed. Mursia, 1978; Formicola A. – Romano C., L’industria navale di Ferdinando II di Borbone, ed. F. Fiorentino, Salerno, s.d., pag.53; Santi-Mazzani G., La Marina e le armi navali, vol.II, Mondadori, pagg. 242-243, 254; AA.VV., Piaxhans Gun in www.wordiq.com/definition/Paixhans-Hanri e www.experiencefestival.com/paixhans_gun; AA.VV. Carronate &Cannoni, in www.euromodel-ship.com/carronate_cannoni.html Montalto M., La Marina delle Due Sicilie, ed, il giglio, Napoli, 2007, pagg. 28-30; Salzano A., La Marina borbonica, Storia critica, politica e marineria, Napoli, 1924, in monaud.ilcannocchiale.it/2010/09/…/castellammare4.html; Sala A., Trafalgar, in www.amicisanmartino.it/Trafalgarehtm; Bragozzi L., Il legno sul mare – Architettura navale, in www.magellano-org/public/magellano/articoli/311/311pdf
Per approfondimenti scrivere a: cimanto57@libero.it