Archivi tag: scala raffaele

Luigi Alfano (politico stabiese)

Luigi Alfano, politico stabiese, comunista e sindacalista

articolo del dott. Raffaele Scala

Nasce a Castellammare di Stabia il 6 agosto 1922, primo di quattro figli, da Oreste e Maria Esposito. Suo padre, capo personale presso la distilleria Gaslini era un militante socialista, consigliere comunale a Gragnano nel secondo dopoguerra. Passato al PCI negli anni ‘50 sarà eletto Segretario della sezione comunista, Ruggero Grieco.
Il giovane Luigi, subito dopo la licenza media inferiore abbandonerà gli studi e farà diversi lavori prima di essere assunto, nel marzo 1939 dall’AVIS come apprendista meccanico, con una paga oraria di 80 centesimi. Diventerà poi operaio specializzato come fresatore meccanico. Chiamato alle armi nel giugno 1942 sarà arruolato negli avieri prestando servizio in diverse città come Napoli, Pisa, Roma e Milano dove lo colse l’armistizio. Tornato a casa con mezzi di fortuna, si rifugiò in penisola sorrentina per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi. Iscrittosi al PCI nel marzo 1944 presso la sezione Spartaco, una delle tre esistenti a Castellammare1, rientra in fabbrica nell’agosto di quell’anno.

Ro37 bis all'AVIS

Ro37 bis all’AVIS di Castellammare di Stabia

L’AVIS era in quella fase militarizzata e gestita da ufficiali inglesi della RAF, la potente Royal Air Force che, di fatto, diresse la fabbrica fino alla primavera del 1946, quando le forze di liberazione lasciarono la città restituendo la fabbrica ai legittimi proprietari. L’AVIS era stata requisita dalla RAF perché la fabbrica, fin dal 1935 proprietà del gruppo Caproni, era una delle principali aziende aeronautiche italiane, specializzata nella costruzione di parti d’aeroplani (dalla fusoliera alle ruote, fino alle parti di ricambio). Continua a leggere

  1. Le altre due erano la sezione Fontana di via Brin e un’altra situata a Scanzano. La sezione Spartaco era quella centrale e si trovava al Corso Garibaldi;

Alle origini del movimento operaio di Castellammare di Stabia

CAPITOLO TERZO

TRA SCIOPERI E POLITICA A CASTELLAMMARE DI STABIA

1. Il Movimento operaio nel circondario di Castellammare di Stabia agli inizi del 1900.

Il 1° marzo 1901 si costituì la Camera del Lavoro di Torre Annunziata, la più potente organizzazione economica dei lavoratori della provincia, destinata da subito a conquistare le pagine di tutti i giornali d’Italia con i poderosi scioperi dei suoi pastai e mugnai. Era stata preceduta dal lavoro capillare del gruppo dirigente della sezione socialista eletto nell’agosto 1900 e che aveva portato alla costituzione di un’Associazione Educazione e Previdenza fra i lavoratori con lo scopo di istruire e educare “la molta trascurata classe operaia di qui”, [1] poi le continue, febbrili riunioni fino al febbraio successivo con Edoardo Sola, infaticabile tessitore per consentire il funzionamento della Camera del Lavoro nel giro di pochi mesi, ma già il 26 di quel mese nella vasta sala dell’istituto Parini, concessa gratuitamente dal municipio, ci fu un imponente assemblea aperta con una relazione di Cataldo D’Oria, segretario provvisorio della commissione eletta appositamente dalla sezione per lavorare alla fondazione della nuova organizzazione operaia. La riunione pubblica di tutta la classe lavoratrice di Torre Annunziata approvò lo statuto regolamento e votò la nomina di una Commissione Esecutiva di otto membri, con segretario l’incontenibile e ambizioso Edoardo Sola, da durare in carica fino a giugno quando si sarebbero effettuate le elezioni generali. Ma i piani dell’ambizioso pittore saltarono perché, a sorpresa ci fu l’elezione di Alcibiade Morano, un 32enne militante socialista di vecchia data, originario di Nola ma da anni residente a Torre. Pochi mesi dopo, in un caldo bollente luglio, fu proclamato il primo sciopero generale. Dieci giorni di astensione dal lavoro da parte dei mugnai, pastai e di tutte le altre categorie del settore per misurare da subito la propria forza. Nella Torre Annunziata dei 14 molini e 57 pastifici dove erano addetti almeno 3mila persone, ma circa 10mila quelli che di questo lavoro vivevano, accadde dunque il miracolo di un risveglio di classe senza precedenti nella pur turbolenta e industriosa provincia napoletana, non altrimenti si poteva spiegare l’incrociare delle braccia di 2.500 operai disciplinatamente organizzati nelle diverse leghe e capaci da subito di un simile vittorioso braccio di ferro con un padronato allibito e spaventato. Gli aumenti ottenuti si potevano definire risibili: tra i 15 e i 25 centesimi d’aumento, ma la portata morale della vittoria fu enorme perché portò quell’indispensabile iniezione di fiducia nelle proprie forze e capacità di lotta da indurre nei mesi successivi ad allargare gli orizzonti aumentando in maniera esponenziale la capacità contrattuale. Nel giro di qualche anno la Camera del Lavoro di Torre Annunziata sarà riconosciuta come una delle più potenti del Mezzogiorno dopo quella del capoluogo campano.
Mentre perfino la placida Sorrento trovava tempo e forza per costituire nel luglio del 1900 una Lega di resistenza di operai muratori denominata, I figli del lavoro, anche Gragnano operaia fece timidamente sentire la sua voce: nella piccola cittadina situata lungo il dorsale dei Monti Lattari, prima ancora che a Torre Annunziata, si era sviluppato dapprima un forte polo artigianale dell’arte bianca con un centinaio di piccoli opifici a conduzione familiare, le cui origini risalivano al XVII secolo, fino a garantire all’inizio del 1900 il lavoro all’intera popolazione, quando la trasformazione industriale si era andata ormai completando e poteva ormai vantare oltre 70 molini e pastifici. La produzione di pasta gragnanese, già famosa in tutto il Regno di Napoli, aveva trovato ulteriore sviluppo all’indomani dell’unificazione allargando i confini delle sue esportazioni. La costruzione della tratta ferroviaria, inaugurata il 12 maggio 1885, e in grado di collegare la piccola cittadina con Napoli e Caserta, facilitò a dismisura il movimento merci e il commercio dei già celebri maccaroni nei ricchi mercati delle città del Nord Italia e poi in tutto il mondo, non a caso proprio a Gragnano si trovava il pastificio di Alfonso Garofalo considerato all’inizio del 1900 “ uno dei più grossi al mondo con una produzione giornaliera di circa 400 quintali.”. [2]
Il primo sciopero si registra nell’agosto del 1901 proprio nel pastificio di Alfonso Garofalo – e non poteva essere diversamente – quando 25 operai su 339, costretti ad un orario di lavoro in alcuni casi superiore alle 15 ore e ad un salario giornaliero medio di due lire, ampiamente inferiore a quello praticato nel settore, decisero di chiedere un aumento, forse sull’onda del successo conseguito dai compagni della vicina Torre Annunziata. Dopo sette giorni strapparono un aumento di 25 centesimi e tale fu l’entusiasmo per questa prima clamorosa e forse inaspettata vittoria da costituire una Lega di resistenza cui aderirono inizialmente soltanto 28 pastai, ma allargandosi ben presto ad altri lavoratori dello stesso opificio e degli altri molini e pastifici fino a formare diverse leghe di categoria. La Lega di resistenza della Garofalo, la più combattiva, proclamò una seconda agitazione il 13 aprile 1902 rivendicando stavolta miglioramenti più complessivi per uscire dalle spaventose condizioni nelle quali si trovavano. Vediamo come Raffaele Gaeta descrive la situazione dei lavoratori di questa fabbrica in un articolo scritto per l’Avanti!

Se vi è una causa giusta e santa è proprio quella dei lavoranti pastai e mugnai dello stabilimento di Alfonso Garofalo. Questo signore sottopone i suoi operai a tale sistema di sfruttamento che di simili non sono conosciuti nell’industria che egli esercita. Innanzi tutto fin dal marzo 1898, data della legge sugli infortuni, i premi di assicurazione sono stati pagati dai lavoratori ed ammontano, per confessione dello stesso Garofalo, a circa seimila lire annue, cosicché da allora fin’oggi ben 16mila lire egli ha sottratto ai suoi operai. L’orario poi è addirittura infame perché entrano tutti i giorni alle sei della mattina ed escono dalle nove alle 10 di sera, il sabato e gli altri giorni che precedono i festivi entrano alle sei di mattina ed escono alle 11,30 di sera; tutte le domeniche poi e tutti i festivi non sono remunerate mentre sono obbligati a lavorare dalle sette del mattino fino alle 12, 13, 14, 15, 16, 17 secondo i vari reparti. Né basta, dappodichè ricevono una parte non indifferente della mercede in pasta, pagandola al prezzo che vuole il Garofano e non possono nemmeno scegliere una specie di pasta diversa o più a buon mercato. Tutti indistintamente poi, compresi i fuochisti e macchinisti, sono obbligati a sostituire i facchini per il trasporto delle casse di pasta, senza avere diritto ad alcuna mercede straordinaria…E non la finirei più, se volessi qui enumerare tutti i soprusi che si fanno subire ai lavoratori dello stabilimento Garofano. Ebbene, non si crederebbe, essi sono stati così modesti da limitare le loro richieste a queste: pagamento dei premi d’assicurazione a carico del Garofano, orario di 12 ore, pagamento in denaro della mercede, esonero dei lavori di facchinaggio e lavoro festivo remunerato (…).

In realtà lo sciopero era nato mentre i diversi segretari di lega stavano discutendo con l’imprenditore il memoriale con le richieste avanzate e già era stato raggiunto l’accordo su alcuni punti quando nella stessa giornata si verificò un diverbio fra lo stesso industriale ed il caporale di una squadra di operai sui ritmi di lavoro. Il capo operaio si rifiutò di eseguire l’ordine ricevuto, seguito dagli altri compagni di lavoro, provocando la rottura definitiva anche sul fronte sindacale.
Furono necessari 22 giorni di sciopero per riuscire a piegare il più importante industriale della cittadina dei Monti Lattari, nonostante l’intimidatoria presenza dei soldati e le provocazioni dell’imprenditore giunto a convincere gli altri fabbricanti di pasta a licenziare i propri operai per rendere più gravi le condizioni della nascente Lega pastai. Il 6 maggio la tenacia degli operai ebbe finalmente la meglio e vinsero ottenendo una riduzione dell’orario di lavoro, l’esenzione delle quote settimanali dell’assicurazione obbligatoria e il pagamento del salario in denaro invece ce in pasta.
La vittoria riportata dalla Lega di resistenza andava oltre ogni più rosea previsione, soprattutto se si considerano le oggettive difficoltà dettate dalla sfida lanciata al più forte industriale del settore e uno degli uomini più potenti della zona: Garofalo non era solo un imprenditore, era anche il sindaco della cittadina e consigliere provinciale, eletto l’8 luglio 1900 a seguito della scomparsa del suo celebre concittadino, il deputato Tommaso Sorrentino. Si tornerà ad incrociare le braccia nel 1903, quando 50 operai su 363 dipendenti della Garofalo entreranno in agitazione per ottenere un’ulteriore riduzione dell’orario di lavoro. Stavolta, però, non furono sufficienti 18 giorni di agguerrita resistenza per vincere il braccio di ferro contro il coriaceo don Alfonso. Miglior fortuna ebbe invece la vertenza di 30 carrettieri ai quali fu sufficiente scioperare due giorni per ottenere il sospirato aumento salariale. [3]
Nuovi scioperi degli operai pastai di Gragnano si avranno nell’agosto del 1905, ancora nello stabilimento di Alfonso Garofalo, per protestare contro il licenziamento di 24 operai e poi il 15 settembre del 1906 quando ad incrociare le braccia, chiedendo un aumento di salario, furono i lavoratori di ben 13 molini e pastifici. Quattro giorni di sciopero per un aumento di pochi centesimi dovette provocare una qualche crisi nella pur sempre debole Borsa del Lavoro fino a provocare il suo definitivo scioglimento. Non si spiega altrimenti l’annuncio, due anni dopo, della nascita di una Lega pastai sull’Emancipazione di Torre Annunziata, accompagnata dal lamento per “la mancanza di qualcuno in grado di dirigerla” e la richiesta alla Federazione Campana Sannita di inviare ogni settimana un dirigente per tenere conferenze ai lavoratori. La Camera del Lavoro a Gragnano diventerà infine realtà concreta nel giugno 1909, quando sarà fondata con Segretario Generale il ferroviere, originario di Ottaviano, Luigi Perillo.

2. Gli scioperi della Cattori nel 1902- 1903 e la nascita della prima Lega.
A Castellammare gli ultimi scioperi si erano persi nella notte dei tempi e mai interessarono gli operai dell’industria. La nascita della sezione del PSI, nel luglio del 1900 prima e nel gennaio 1901 dopo, con il costituirsi di un forte nucleo di socialisti sembrò finalmente avviare il cambiamento. A rompere il lungo digiuno fu la nascita di una lega di falegnami nell’estate del 1902 alla cui guida furono chiamati Raffaele Gaeta e Vincenzo De Rosa. Questi falegnami erano operai della ditta di Michelangelo Cattori, un ex capitano di marina che aveva rilevato nel marzo 1899 l’ex Impresa Industriale di Costruzioni Metalliche, un’azienda sorta nel 1870, passata dal suo fondatore, il francese Charles Finet, all’ingegnere Alfredo Cottrau, suo primo direttore e vero ideatore di questa brillante e coraggiosa iniziativa industriale ed infine rilevata da Francesco Kossuth nel gennaio 1888. Ancora nel 1890 quest’opificio contava 800 addetti poi la crisi, la liquidazione e la chiusura definitiva.
Ad innescare il conflitto fu il tentativo da parte di Cattori, nella seconda metà d’agosto, di imporre un cottimo ritenuto dagli operai poco favorevole. Al rifiuto degli 80 falegnami, aderenti alla neo costituita Lega – sui circa 600 dipendenti componenti l’organico aziendale – l’ex capitano di marina rispose con la brutalità e l’arroganza che gli veniva dalla sua antica professione dove la disobbedienza dei sottoposti non era concepita, mettendo fuori tutti gli 80 dissidenti. La lega intervenne chiamando alla trattativa, per una più facile mediazione, il Sottoprefetto Giovanni Battista Massara e il commissario di pubblica sicurezza, Antonio Scrocco. Naturalmente Michelangelo Cattori voleva trattare ma non ad armi pari: si disse, infatti, disponibile a far rientrare tutti i lavoratori e successivamente a trattare con gli operai sulla tariffa di cottimo all’origine della vertenza. Raffaele Gaeta e Vincenzo De Rosa intuirono come questa condizione avrebbe diminuito la capacità di condizionamento della Lega e insistettero invece per chiudere da subito l’intera questione e comunque prima di riprendere il lavoro da parte delle maestranze. Il dialogo si spense sul nascere e Cattori pose la condizione di imporre 50 centesimi di multa per ogni giorno di sciopero effettuato dagli operai.
La mancanza di solidarietà da parte degli altri compagni della fabbrica, la più importante della città, dopo i cantieri navali, l’inesperienza degli scioperanti e di chi li guidava, la scarsa capacità di resistenza, la stessa particolare durezza dell’imprenditore abituato al comando ferreo e alla rigida disciplina militare, portò la lega falegnami diritti verso la sconfitta, dopo cinque giorni d’infuocata ma inutile protesta. L’unica intesa raggiunta fu quella di evitare anche la beffa della multa, chiarita dall’ex capitano come

(…) quella condizione che per ciascun giorno d’assenza essi pagassero in favore della Cassa di Mutuo Soccorso delle officine, una multa di 50 centesimi sulle rispettive loro paghe era per una pura ragione di disciplina (…).

Così il 26 agosto il primo disperato tentativo di alzare la testa si chiuse con una pesante sconfitta e lo sciopero cessò con la multa condonata e gli 80 operai scioperanti costretti a rientrare a gruppi, in tre tappe, tra il 26 e il 28 agosto. La Lega dei falegnami così com’era nata si dissolse in un battibaleno. Ci riprovarono un anno dopo, il 4 luglio 1903, stanchi per quel salario troppo basso e per quelle disposizioni regolamentari troppo rigide che rendevano la loro fabbrica più simile ad una caserma se non ad un vero e proprio penitenziario, accompagnati ora da una nuova e più matura consapevolezza. Questa volta a scioperare furono in 308 sui 369 dipendenti ancora alle dipendenze della Cattori e il motivo stavolta era dettato dal fatto che 150 di questi avevano deciso, nei primi giorni di giugno, di costituire una nuova e più forte Lega metallurgica, iscritta alla Federazione nazionale dei metallurgici e di aderire alla Camera del Lavoro di Torre Annunziata, guidata da uomini esperti e forgiati dalle lotte di due tempestosi anni. La ritorsione padronale arrivò ugualmente immediata e bruciante con il licenziamento dei quattro organizzatori. Il segretario della Lega dei metalmeccanici torresi, Michele Manzo, un sindacalista per molti anni protagonista delle lotte operaie di Torre Annunziata, ricorse all’arbitrato delle autorità tutorie che diede torto all’imprenditore. Costretto a riassumerli, Michelangelo Cattori, “(…) sempre vissuto nell’ambiente militare ed abituato a trattare i dipendenti a colpi di frusta (…)”, ne licenziò allora altri sette, colpevoli di essere stati eletti nel direttivo della costituita Lega cittadina dei metalmeccanici, primo nucleo di una nascente Camera del Lavoro sostenuta dal deputato repubblicano, Rodolfo Rispoli.

3. Lotta Civile, organo della sezione del PSI e prima Camera del Lavoro
Il licenziamento dei sette avvenne nel modo più brutale, ecco come lo descrisse l’organo socialista, La propaganda, in una cronaca da Castellammare, nel suo numero del 2 luglio 1903:

(…) una sera della settimana scorsa sul finire del lavoro, un bravo vecchio, con due figliuoli, che per 17 anni mai hanno dato cagione a biasimo alcuno, e quattro altri compagni, sono stati fermati all’uscita da un certo signore contabile, col quale andremo a fare un po’ di conti, è stato imposto a nome del padrone, di non ripresentarsi più al lavoro. Gli operai quasi non credendo a questa stupida imposizione, ne domandarono la causa. Fu risposto che tale era la volontà del padrone. Allora questi protestarono e rifiutarono di ricevere la paga per i giorni di lavoro fatto (…)
La Commissione operaia tentò una prima mediazione per far rientrare i nuovi licenziamenti, ma la risposta non poteva essere più cinica: sì alla riassunzione a patto di sciogliere la Lega da poco costituita. La replica operaia non fu meno dura. Riunitosi la sera del 3 luglio nei locali della loro Lega, ben presto trasformata, per volontà dei socialisti e del nucleo repubblicano, in nascente Camera del Lavoro, dopo una lunga discussione con la presenza del deputato repubblicano, Rodolfo Rispoli, si votò e su 238 presenti soltanto uno si oppose allo sciopero e questo cominciò ad oltranza. I giorni e le settimane passarono con la fabbrica presidiata giorno e notte per contrastare i tentativi d’alcuni crumiri di riprendere in ogni modo il lavoro. Il 6 luglio in 42 rientrarono al lavoro nonostante squadre di operai scioperanti sorvegliassero la strada che portava alla fabbrica per contrastare l’ingresso dei crumiri. L’inevitabile aumento della tensione portò il giorno dopo all’arresto dell’operaio Salvatore D’Orsi e alla denuncia contro altri tre, Catello Zullo, Filippo Alfano e Gaetano Morra con l’accusa di attentato alla libertà del lavoro perché questi avevano impedito, con le minacce, l’ingresso in fabbrica di due loro compagni, Pasquale Bonifacio e Giovanni Romano. Nel gennaio 1904, D’Orsi e Zullo furono condannati dal pretore ad otto e sei giorni di carcere più una multa di 83 e 66 lire mentre gli altri due se la cavarono perché non fu dimostrata la loro colpevolezza.
Intanto un primo incontro tra il nuovo sottoprefetto, l’avellinese Giuseppe Masi (1862-1942) e lo stesso Michelangelo Cattori, deciso a non riassumere i sette operai licenziati colpevoli di essere “disturbatori dell’ordine e del lavoro”, si rivelò completamente inutile. Per tentare di dare soluzione al problema, l’ex capitano di marina fece venire da Roma il deputato Federico Colajanni a trattare per suo conto con il Rispoli che invece rappresentava gli interessi dei lavoratori. Ma diversi incontri tra loro e con lo stesso sottoprefetto non portarono a sbloccare il risultato. A tentare di rompere il fronte ci pensò allora lo stesso Cattori affiggendo un manifesto per la città. Di seguito riportiamo una sintesi ripresa dal quotidiano napoletano, Roma, giornale vicino ai repubblicani, allora partito dell’estrema sinistra:

(…) in cui dopo aver lamentato i sacrifici fatti per rialzare le sorti dello stabilimento metallurgico, dichiara che se per giovedì nove corrente, non si presentano spontaneamente al lavoro tanti operai da poter consentire un utile funzionamento delle officine e dei macchinari, sarà costretto, suo malgrado, a chiudere le officine e tornarsene a Roma a meditare quale avvenire può essere riservato alle nostre bellissime ed infelici province del mezzogiorno (…)

Il 9 luglio venne senza che nulla accadesse, nonostante frenetici incontri tra gli intermediari e così, fedele alla parola data, il capitano Michelangelo Cattori chiuse lo stabilimento e se ne andò. Nella lunga vertenza non mancarono il sostegno economico della Camera del Lavoro di Torre Annunziata con oltre 2mila lire di sottoscrizione, della lega dei panettieri e della nascente Lega cooperativa dei coloni il cui presidente era Vincenzo de Rosa, comizi pubblici con Vito Lafemine, Alfonso de Martino e lo stesso Rodolfo Rispoli, ordini del giorno di solidarietà morale ed economica del comitato degli arsenalotti e tentativi di mediazione da parte del sindaco Alfonso Fusco e del sottoprefetto. Falliti i diversi tentativi del deputato del collegio, Rodolfo Rispoli, la sezione socialista uscì con un’edizione straordinaria del suo nuovo quindicinale, Lotta Civile – il cui primo numero era uscito il 12 aprile di quello stesso anno ed aveva come direttore l’avvocato Raffaele Gaeta – invitando i lavoratori delle fabbriche di Castellammare a sostenere finanziariamente i compagni in lotta. Lo stesso Gaeta, scrivendo sull’Avanti! il 19 luglio sullo sciopero, chiedeva l’intervento della federazione nazionale dei metallurgici affinché inviasse sul posto un suo rappresentante “per incoraggiare gli scioperanti”.
Intanto il sostegno economico chiesto da Lotta Civile non si fece attendere: alla gara di solidarietà per i compagni in lotta parteciparono, oltre agli operai delle fabbriche Cirio, Regio Cantiere, Officine Catello Coppola, Cantiere mercantile, ecc, anche lo stesso Rispoli, Pietro Carrese (1875 – 1949) – figlio di Vincenzo, l’operaio del Regio Cantiere già incontrato tra i fondatori della Sezione della Prima Internazionale nell’ormai lontano 1869 – e gli altri socialisti della sezione. Ancora la domenica sera del 26 luglio, ad oltre un mese dallo sciopero, la Camera del Lavoro di Torre Annunziata convocava il suo consiglio direttivo con la partecipazione di Raffaele Gaeta, Vincenzo De Rosa, Andrea Luise e altri della sezione socialista di Castellammare per definire ulteriori iniziative a sostegno dello sciopero dei metallurgici stabiesi. Alla riunione parteciparono anche i due repubblicani, Rodolfo Rispoli e Salvatore Fatta (1870 – 1940). [4] Le leghe decisero di deliberare mezza giornata di lavoro a favore degli scioperanti
Lotta Civile, organo quindicinale socialista del circondario, porterà avanti alcune importanti campagne moralizzatrici contro i monarchici, il clero cittadino e contro “(…) la mai abbastanza deplorata razza Fusco! Alfonso Fusco deputato, Alfonso Fusco consigliere provinciale, Alfonso Fusco consigliere alla Camera di Commercio, Catello Fusco, sindaco, Ernesto Fusco assessore comunale (e in seguito sindaco nel 1908, mentre nel 1909 naufragò nella sconfitta il suo tentativo di diventare parlamentare candidandosi nel collegio d’Amalfi), Nicola Fusco consigliere comunale, Gerardo Fusco concessionario dello stabilimento delle acque minerali, Pasquale Fusco appaltatore dei dazii ecc..”, com’ebbe a scrivere, La Propaganda , il 13 febbraio 1903, commentando la vittoria alle amministrative del partito dei Fusco. Il periodico uscirà a fasi alterne, vendendo circa 400 copie a numero, senza comunque riuscire a sopravvivere al suo primo anno di vita, travolto dalla stessa crisi che portò, nel corso del 1904, alla chiusura della sezione socialista.
Quando ebbe inizio la durissima vertenza dei metalmeccanici stabiesi, Catello Langella era a Roma, ma tra il 17 e il 26 luglio si trovava a Castellammare e naturalmente in quei pochi giorni non perse l’occasione di riprendere il suo posto di propagandista socialista a sostegno della lotta operaia. Sarà di nuovo a Roma quando l’ex capitano di marina sarà costretto suo malgrado ad alzare bandiera bianca facendo rientrare tutti i lavoratori. Il 7 agosto, il segretario della Lega metallurgica, Giuseppe Spalletta, aveva convocato l’assemblea generale dei lavoratori per discutere le condizioni per la cessazione delle ostilità. Dal lungo e tempestoso dibattito emerse un memoriale consegnato nelle mani del sindaco Alfonso Fusco, impegnatosi a consegnarlo direttamente nelle mani di Michelangelo Cattori. Le trattative fra le opposte delegazioni durarono ancora diversi giorni, ma alla fine il terribile antico ufficiale diventato imprenditore che “…aveva attinto la sua temerità e la sua cocciutaggine nel ricordo dei tentativi di scioperi fatti negli anni scorsi dai suoi operai, finiti miseramente…”, fu ora costretto a cedere alle condizioni imposte dai lavoratori. Prima di arrendersi non si era, però, risparmiato un’ennesima sprezzante risposta, fatta pervenire per iscritto al sindaco, con il quale era rimasto in continuo contatto per tutta la durata della lunga ed estenuante vertenza da quando, il 9 luglio, aveva abbandonato la Città delle Acque per rifugiarsi a Montecatini Alto, dove aveva preso alloggio presso il Grand’Hotel Appennino.
Nonostante la vittoria, gli operai uscirono spossati da quei due tremendi mesi di braccio di ferro e, da quando c’è dato sapere, la Lega – e con essa l’embrione di Camera del Lavoro appena abbozzata – non sopravvisse più di tanto al punto da sciogliersi nel giro di pochi mesi, facendo sì che tutto tornasse nell’anonimato più assoluto. Seguirono alcuni anni di sbandamento e solo sporadiche, isolate vertenze sembravano rompere il silenzio del debole movimento operaio, come lo sciopero dei vetturini dell’agosto 1906, proclamato dalla loro lega e le cui ragioni furono raccolte in un memoriale firmato dal Segretario Vincenzo Donnarumma.

4. Vincenzo Carrese e il vescovo Vincenzo Maria Sarnelli
Di Vincenzo Carrese, padre di Pietro e uno dei protagonisti della nascita della sezione stabiese della Prima Internazionale nel 1869, non si era più sentito parlare fino a quando non lo incontreremo di nuovo negli anni Ottanta quando, dimentico dei suoi trascorsi rivoluzionari, se mai lo era stato, divenne socio della Società Artistica ed Operaia di Mutuo Soccorso, associazione cattolica nata per contrastare le idee socialiste tra gli operai. In questa veste rimase coinvolto, suo malgrado, in una furibonda lite giudiziaria tra Catello Fusco e il vescovo della diocesi stabiese, Vincenzo Maria Sarnelli (1835 – 1898).
Sconfitto nelle politiche del 1882 dove pure si era piazzato al quarto posto dietro i primi tre eletti nella IV circoscrizione [5] e nelle amministrative del 1884, Catello Fusco si convinse che la causa delle sue disgrazie elettorali erano le ingerenze dei cattolici organizzati dall’alto prelato e dal suo fido, monsignor Giuseppe Palmigiano. Pubblicò, quindi, nell’84 un opuscolo in cui tendeva a dimostrare come i risultati positivi di una cura magnetica fatta dal Sarnelli su un giovane chierico, Paolo Conte, affetto da isteria ereditaria, fossero da ritenersi opera diabolica. Non contento (…) simulò ai danni del Conte minacce, lettere anonime ed aggressioni, delle quali riuscì a far incriminare il Palmigiano quale mandante ed alcuni operai, membri della Società come esecutori (…).
Gli operai, tutti dipendenti del Regio Cantiere, Tobia Valanzano, Francesco Mollo e Vincenzo Carrese, quest’ultimo (…) un disgraziato fanatico, che l’enorme cretinismo clericale spingeva, forse fino ad un eccesso grave, di cui non seppe prevedere le conseguenze, dimenticando la sua posizione sociale e la sua numerosa famiglia(..).cieco strumento di un partito retrogrado condannato dall’attuale ordine di cose (…)

come ebbe a scrivere Francesco Girace in un suo articolo su L’Amico del Popolo del 29 novembre 1885, quando ancora era legato al carro del suo benefattore, Catello Fusco – finirono in carcere, per avere aggredito e minacciato Paolo Conte, insieme al povero sacerdote ritenuto il mandante. Ne seguì un regolare processo penale durante il quale, il giovane Conte in rottura con Catello Fusco – suo padrino al matrimonio, nel dicembre 1885, con la ricchissima, fantomatica diciottenne, Gemma Bonou, nozze che suscitarono scalpore al punto da travalicare i confini locali, arrivando sulle pagine di diversi giornali napoletani tra i quali il Corriere del mattino e il Roma per la dote di cinque milioni ed ottocentomila lire portate dalla ragazza allo sposo fortunato – fece emergere l’inganno perpetrato ai danni dei quattro, provocando così, il 27 giugno 1889, in Corte d’Appello, la sua stessa condanna, colpevole di calunnia e truffa e l’assoluzione per tutti gli altri.
Su questo processo, “.. che à tanto sconvolta l’opinione pubblica nella nostra città”, Francesco Girace intervenne con diversi articoli su L’Amico del Popolo, nel frattempo trasformatosi in giornale d’opposizione al suo antico padrino. Il direttore del periodico domenicale, in un articolo che occupò l’intera prima pagina del 3 marzo 1889, intitolato “Birbante no; Babbeo si!…”, ricordando la sentenza emessa dalla 6° sezione del Tribunale di Napoli il 26 febbraio, con la condanna di Paolo Conte, pur con il beneficio delle circostanze attenuanti, a 18 mesi di carcere per due reati di calunnia e a due di carcere e trecento lire di multa per il reato di truffa, non si capacitava di come invece Catello Fusco fosse riuscito a cavarsela. E affrontò allora la questione con acida ironia. Dunque

Il querelante non è un birbante, no, perché uomo di cuore, ma è un babbeo(….). L’intelligenza del dott. Fusco, con la sentenza del 26 febbraio, è discesa molto al di sotto di quella di Paolo Conte, che l’avrebbe menato pel naso grossolanamente per oltre un anno di seguito. Ora chi è in Castellammare che non conosce l’idiotismo supino di Paolo Conte?Quindi il querelante non sarebbe diventato un babbeo, come tutti, forse, siamo soggetti a diventare per un giorno almeno nella vita, di fronte ad intelligenze molto superiori; ma di quei babbei dal cervello d’oca, di cui neanche in Val D’Aosta è possibile trovare l’equipollenza (…) ma non c’è che fare: il Tribunale volle così, e così sia!Il querelante à reclamato, a tutti i costi, una patente d’imbecillità dal Tribunale e questo glie l’ ha data autentica e formale con la sentenza del 26 febbraio ultimo(..).la verità (…).ce la dirà la Corte d’Appello.

La Corte d’Appello invece confermò seppure solo parzialmente la sentenza precedente assolvendo il 27 giugno, l’ex chierico Paolo Conte dal reato di truffa per non provata reità e riducendogli la pena da 18 a sei mesi per il reato di calunnia.
Nato a Castellammare nel 1839, Catello Fusco fu insieme al fratello Casimiro il capostipite di un potente clan che avrebbe dominato la vita politica e sociale della cittadina stabiese per oltre quarant’anni. Medico chirurgo, grande cultore dell’ipnotismo, stimato dal ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli (1830 – 1916), anch’egli medico, al punto da nominarlo commendatore, fu il primo in Italia ad iniziare la cura delle malattie nervose con l’ipnotismo.

Nel 1887 – scriveva Il Mattino all’indomani della sua morte – in Roma fece riavere con l’ipnotismo la vista alla signorina Angè, cieca da due anni, e tutta la stampa italiana se ne occupò. Era benemerito per il colera del 1884.

Da questa vicenda giudiziaria ne uscì fortemente scosso al punto da far temere un suo suicidio a quanti gli furono accanto, tale fu lo sconforto da cui fu preso per molto tempo. Rientrato nel turbinio della vita politica divenne poi sindaco di Castellammare nel 1890, nel 1890-92 e nel 1896-97 e “.. della sua amministrazione resta un vero monumento aere perenius: l’acquedotto..”. Direttore del locale e antichissimo ospedale San Leonardo, uomo di grande carisma, arrivato a godere di una popolarità immensa, rimase logorato dalla dura lotta politica e municipale, nella quale da sempre si era calato per il raggiungimento del potere, nel feroce scontro, tutto interno alla famiglia, contro il rampante e ambizioso nipote Alfonso e dalla tante invidie causate dai suoi pur numerosi successi professionali, procurandogli, anche questi, non pochi nemici. Alla fine, forse, non seppe accettare il suo anticipato declino politico e nella notte di mercoledì 29 giugno 1904, a 65 anni, si uccise con un colpo di rivoltella, lasciando come suo ultimo messaggio una frase sibillina ma anche chiara del suo travaglio umano e politico. “Stanco di lottare con la perfidia degli uomini e la crudeltà del fato”.
L’ultimo mortale colpo lo aveva subito con la pubblicazione, il 25 gennaio 1903, della cosiddetta Inchiesta Monarca, dal nome del funzionario della Sottoprefettura di Castellammare cui nel 1902 era stato affidato l’incarico di indagare sugli ultimi dieci anni di vita amministrativa della città. Un’inchiesta impietosa dalla quale Catello Fusco non ne uscì bene come meglio vedremo nel successivo paragrafo.

5. Le elezioni amministrative del 1° febbraio 1903 e l’Inchiesta Monarca
Il 1903 si era aperto con la pubblicazione della relazione d’inchiesta sulle amministrazioni comunali di Castellammare, dal 1890 al 1902, eseguita da Adolfo Monarca. Segretario di questa Sottoprefettura, il funzionario fu inizialmente incaricato dal Prefetto di assumere nel marzo 1902 la funzione di Regio Commissario Straordinario, ma nel successivo agosto, con regio decreto, gli fu affidata la delicata funzione di indagare sulle attività svolte dalle Giunte che si erano succedute in città in quegli anni. Pubblicata con ampi stralci il 25 gennaio dal Roma, la relazione mise a nudo le incapacità, gli imbrogli, le clientele, la corruzione di un’intera classe dirigente che aveva dissanguato le casse comunali con inutili sperperi e infinite cause giudiziarie. In particolare la relazione, conosciuta coma l’inchiesta Monarca, mise in luce la tragica vicenda dello stabilimento delle acque minerali dimostrando

come per quante migliaia di lire si siano spese per la sua conservazione e pel suo miglioramento, esso si presenta sempre in uno stato d’impossibilità a funzionare per lo scopo cui è destinato e che per quante concessioni si siano fatte nessuna è mai terminata senza una causa giudiziaria; affrontò un intero capitolo sulla cosiddetta “Lite cogli eredi Vanacore”, nata con il grandioso progetto della trasformazione di Castellammare vagheggiato dalle passate amministrazioni e naufragato “nell’annosa vertenza giudiziaria cogli eredi Vanacore, rilevando gli arbitrii dal lato amministrativo e le illegalità perpetrate in un affare così lungo e disastroso.

Il disastro, iniziato nel 1871 con una delibera d’acquisto d’alcune aree di proprietà dei fratelli Taddeo e Giuseppe Vanacore non concretizzate, fu all’origine di una vertenza che provocò errori su errori da parte dei diversi sindaci succedutosi e una causa giudiziaria durata oltre cinquant’anni. Il problema, come ricorda Benito Antonio Caccioppoli nel suo, Terme e acque minerali dai romani ai nostri giorni, edito da Eidos nel 1995 e cui si rimanda per ulteriori interessanti particolari, troverà la sua definitiva soluzione soltanto nei primi mesi del 1924, quando sarà stipulato il contratto di compra vendita tra il Comune e gli eredi Vanacore per la residua proprietà. Al momento della pubblicazione dell’inchiesta alcuni sindaci erano ormai defunti come il padre di Alfonso, Casimiro Fusco, primo cittadino nel 1877 e il medico Nicola Scherillo (1873, 1877, 1878 e 1886) ma altri come il notaio Giovanni Greco (1882, 1887 e 1895) e Catello Fusco (1890, 1892 e 1896) erano ancora attivi. Quest’ultimo, a sua difesa, rilasciò una lunga intervista al giornale locale, Pro Stabia, [6] nel suo numero del 30 gennaio, ma ne ignoriamo il contenuto. Altri capitoli incresciosi della mala amministrazione furono la tenuta della Reggia di Quisisana, acquistata dal demanio di stato il 10 luglio 1879 e rimasta vittima e preda di private speculazioni favorite “dall’insania degli amministratori comunali del tempo” e lo sperpero di pubblico denaro. Lo scandalo fu enorme. Disperatamente quanti ne furono coinvolti tentarono di difendersi, cercando ognuno una sua giustificazione; alcuni si ritirarono dalla vita politica, altri senza scrupoli si candidarono nuovamente come se nulla fosse, provocando nuove confusioni e agitazioni in un crescendo sempre più alto man mano che si avvicinava la data fatidica delle elezioni.
In queste elezioni generali amministrative del 1903 si confrontarono diverse coalizioni: da quella ormai consolidata di Alfonso Fusco padre padrone della politica stabiese a quella facente capo al cavalier Tommaso Cuomo, sindaco uscente eletto nel dicembre 1898, dopo le dimissioni di Paolo Avitabile. In entrambe le liste apparivano nomi delle passate amministrazioni coinvolti nello scandalo scaturito dalla pubblicazione dell’inchiesta. La terza coalizione si richiamava al patto d’alleanza del Comitato dei Partiti Popolari sotto la presidenza del medico Carlo Salvadore e composta “(…) dai partiti popolari e dalla parte più eletta di tutte le classi della cittadinanza (…)”. nel quale confluivano le diverse opposizioni, variabili nel tempo, allo strapotere del clan Fusco ed aveva in quest’occasione come maggiori esponenti, Nicola Amitrano, Antonio Acanfora e il professore Umberto Limarzi. I socialisti partecipavano a questa lista con cinque candidature e i repubblicani con una.
L’affluenza alle urne fu notevole, ben 1708 votanti su 2534 elettori e stravinse, com’era nelle previsioni, nonostante l’inchiesta Monarca e lo scalpore suscitato nella cittadinanza, la lista capitanata da Alfonso Fusco umiliando quella del pur agguerrito Tommaso Cuomo, rimasto fuori del consiglio comunale. La terza lista, completa di trentadue nomi, portò nel parlamentino locale l’intera quota di minoranza con il socialista Alfonso De Martino, presidente del locale Comitato Arsenalotti, il repubblicano Michele D’Auria e cinque democratici. L’ottavo consigliere d’opposizione fu appannaggio di un candidato della passata amministrazione presentatosi con una lista composta dal suo solo nome, una prassi questa abbastanza diffusa a quei tempi, “a dimostrare”, come scriveva un giornalista del Roma il 1° febbraio in quella occasione, “la vanitas vanitatum di uomini e cose.”.
La presenza socialista in consiglio comunale poteva essere più cospicua, tale era la simpatia suscitata da quella strana lista di Centro sinistra nell’elettorato, perché tutto lasciava credere che ad avercela fatta fosse anche il professore Pietro Carrese. La consapevolezza del torto subito lo portò ad impugnare le elezioni, chiedendone l’annullamento. Il futuro sindaco socialista presentò un dossier ricco di fatti e testimoni tesi a dimostrare come quelle elezioni erano state inquinate da molte illegalità e da una corruzione adoperata su vastissima scala

(…) oltre 250 voti furono pagati con compensi varianti dalle quattro lire sino ai cinquanta centesimi. Furono all’uopo arruolati gli elettori più bisognosi e più ignoranti…A costoro, la scheda che essi deponevano nelle mani del Presidente senza leggerla neppure, veniva data lungo le scale del comizio o nelle adiacenze di essa, ed anche nella stessa sala per la votazione, ed erano accompagnati da un agente del Fusco che non li perdeva individualmente di vista, sino alla consegna della scheda al presidente del seggio (…).

Su tutti i fatti Pietro Carrese citava i nomi di numerosi testimoni, a partire da quello di Raffaele Gaeta, e segnalava come l’avvocato Vincenzo de Rosa, su questi stessi fatti, avesse fatto denuncia al Sottoprefetto e al commissario di pubblica sicurezza.
A rimanere escluso dal nuovo consiglio comunale fu anche Nicola Scognamiglio, non più socialista dopo la grande paura seguita ai fatti del maggio ‘98 ma non per questo meno democratico e candidato nel Partito Nuovo. Inutilmente ricorse il 2 marzo ricordando come quei “(…) 492 voti non rispondono alla realtà dello scrutinio, specie per quelli della prima sezione (…)”. I due professori sconfitti non avevano fatto i conti con il Re di Castellammare” e i suoi fuschiani in giro per la città “(…) con una borsa piena di monete di bronzo mediante la quale acquistare i voti degli elettori (…)”. Inutilmente da Napoli La Propaganda inveiva contro l’indifferenza e l’apatia dell’elettorato stabiese, sorda di fronte all’ennesimo scandalo di cui essa stessa si era fatta protagonista con quel suo voto qualunquista e clientelare, vanificando l’Inchiesta Monarca:

I vittoriosi fuschiani cantano e suonano tutto il giorno una canzone che celebra la loro vittoria, frutto dell’estrema ignoranza e della più depravata immoralità d’alcune centinaia d’elettori. Basta, infatti, dare uno sguardo all’Inchiesta Monarca per restare terrorizzati dalle prodezze amministrative compiute dai deplorati Fusco, e dall’ignoranza ed immoralità di coloro che li rieleggono e ne cantano la vittoria (…).

Ma come se questo non bastasse, poco più di un mese dopo, nel numero del 22 marzo, il settimanale socialista si ritrovò a denunciare l’indegna campagna acquisti degli avversari più temibili dell’opposizione da parte della maggioranza:
(…) ha municipalizzato gli avversari più eminenti (…) E’ questione di generosità verso i vinti (..) e poi che importa? Mosca, Gaeta, Greco e C. non sono (…) .sovversivi!
L’eterogenea coalizione si era prontamente sfaldata sotto i colpi della campagna acquisti della maggioranza offrendo all’ingegnere Domenico Mosca, neo eletto consigliere comunale dell’opposizione, un incarico nell’ufficio tecnico municipale, mentre agli avvocati Nicola Greco e Catello Gaeta – futuri sindaci della città nel 1912 e nel 1914 – l’ufficio legale, mostrando in questo modo quanto scarsa era la coerenza e la coesione delle improvvisate forze riunite nel Comitato dei partiti popolari, nucleo del futuro Partito Democratico vincitore delle elezioni amministrative nel luglio del 1914. Quando l’anno successivo, l’11 settembre 1904, ci furono le elezioni amministrative parziali, fu Andrea Luise a credere di avercela fatta. Un errore nel conteggio dei voti attribuiti (819 invece dei 799 effettivi) gli consentì di entrare il 1° ottobre nell’aula consiliare facendo di lui il terzo consigliere socialista nella storia della città, ma fu solo una breve illusione. Il tempo di un ricorso, della sua verifica e pochi mesi dopo, il 25 aprile 1905 Andrea Luise fu costretto a cedere il posto a chi ne aveva legittimo diritto. Non prima però di essere riuscito a creare un parapiglia gigantesco durante una seduta straordinaria del consiglio comunale tenutosi il 12 gennaio 1905 quando cominciò a chiedere con insistenza di prendere la parola, sistematicamente negatagli dal sindaco. Stando ad una versione del Mattino, nella cronaca del giorno dopo, ad un certo momento dopo le reiterate richieste del “socialistoide consigliere Luise”, alcuni della maggioranza gli si avvicinarono chiedendogli di smetterla con quell’inutile insistenza e di aspettare fino a quando il sindaco gli avrebbe concesso la parola.

E così tra uno scambio di parole dall’una e dall’altra parte si è addivenuto a un tafferuglio indiavolato: è corsa qualche bastonata, i ceffoni non sono mancati e quello che è deplorevole in sommo grado si è che dal pubblico un noto socialista ha dato di piglio ad un calamaio e l’ ha scagliato con tutta la furia all’indirizzo del sindaco. In sua vece ha colpito l’impiegato comunale Gaetano Celotto (…) [7] il parapiglia è durato ancora per un po’ finché la minoranza è stata costretta dalle proteste vibrate della maggioranza ad allontanarsi. Rientrata la calma (…) i componenti l’opposizione insieme ai sette od otto socialisti locali impersonati nei più noti spostati del paese si sono recati innanzi al Regio Cantiere ad attendere l’uscita delle maestranze incitandole ad una pubblica ribellione (…).

Secondo la versione della Propaganda a lanciare “i calamai” furono invece “noti camorristi della maggioranza ai consiglieri dell’opposizione.”. Quale fosse la verità non sappiamo, ma di sicuro quanto accaduto era in ogni caso l’indice di una sofferenza provocata da un’amministrazione andata in difficoltà fin dal primo momento. Non a caso questioni d’ordine pubblico ci furono fin dalla prima convocazione del neoeletto consiglio comunale, il 1° ottobre 1904, così come problemi di tenuta vennero fuori poi, a seguito di un’inchiesta avviata dal pretore sull’ammanco di 9mila lire nell’amministrazione daziaria cui seguì l’arresto dell’assessore Francesco Amabile il 30 settembre 1905 e la contemporanea apertura di un’altra inchiesta sull’andamento dell’intera amministrazione disposta dal prefetto Emilio Caracciolo (1835-1914).
Circolarono ben presto notizie di un imminente scioglimento del Consiglio comunale, ma troppe potenti erano le amicizie di Alfonso Fusco perché questo avvenisse e in ogni caso il commendatore non mancò in quel periodo di moltiplicare le clientele, nel caso in cui questo fosse comunque avvenuto, come abbiamo già avuto modo di vedere nel caso del maestro Giuseppe Tessitore. Le elezioni parziali dell’11 settembre 1904 si rivelarono, nonostante tutto, importanti: Alfonso Fusco avvertì per la prima volta il freddo della sconfitta nelle amministrative ad opera di un partito attorno a cui si raccoglievano tutte le opposizioni e di cui facevano parte anche gli odiati socialisti. Questo Partito Nuovo, già in campo nelle amministrative del 1900 e del 1903, raddoppiò i suoi seggi passando a 16, mentre quelli della maggioranza si riducevano a 24, sintomo di un malessere ogni giorno più esteso nell’elettorato e che montava contro un’amministrazione rivelatasi palesemente corrotta e incapace di governare. Forti anche dell’appoggio del deputato repubblicano, Rispoli e del consigliere provinciale, l’ingegnere Antonio Vanacore, l’opposizione era riuscita a portare in consiglio comunale undici dei dodici nomi della lista, lasciando a piedi soltanto l’operaio socialista Giosuè Penna nonostante le sue 797 preferenze. Non a caso, come si è già accennato, il 1° ottobre, nella prima seduta del rinnovato consiglio comunale, una folla scatenata accalcata nelle tribune fischiò sonoramente e continuamente il sindaco e la sua maggioranza obbligando la forza pubblica ad intervenire per disperdere quanti protestavano.
Ad esasperare gli animi, favorendo il futuro rovesciamento del governo locale, furono anche le scandalose elezioni politiche parziali del 5 novembre 1904, con la contrapposizione tra il repubblicano Rispoli e il ministeriale Aubry, cariche di violenza, intimidazioni e plateali clientele. La stessa autorevole candidatura di un uomo come il Sottosegretario alla Marina Augusto Aubry, fece subito intendere quale importanza dava il Governo a quelle elezioni: bisognava ad ogni costo eliminare quell’anomalia rappresentata da un repubblicano in un collegio considerato da sempre appannaggio dei monarchici. E per essere certi della vittoria si passò subito alle maniere forti sciogliendo d’autorità l’amministrazione comunale di Gragnano eletta soltanto il 5 luglio. Scriveva, non senza imbarazzo, il 23 ottobre, il fedele Mattino:

per togliere in questo momento di scatenarsi di passioni elettorali, dalle mani di una minuscola fazione, sedicenti sovversivi, l’arma del potere, di cui vantarsi padrona al cospetto degli ingenui elettori, sovrapponendoli all’autorità indiscussa dello stesso capo cittadino testé con unanime consenso eletto. Nessuna offesa quindi, nessuna sopraffazione al paese sebbene il provvedimento governativo deve interpretarsi come atto ad impedire che sopraffazioni avvengano…,

Contemporaneamente il Roma attaccava senza mezzi termini il Sottoprefetto, Giuseppe Masi, di grave complicità in quell’atto palesemente illegale e teso unicamente a favorire la cordata di notabili facente capo all’imprenditore Alfonso Garofalo, favorevole all’Aubry e destinata a succedere all’amministrazione uscente nelle successive elezioni.

(…) Le violenze si susseguono alle violenze, le intimidazioni e le lusinghe da parte dei fautori della candidatura ministeriale ormai non si contano più le aggressioni a sostenitori del Rispoli continuano: ieri è stata la volta di un noto industriale di Gragnano, il signor Sebastiano Faiella aggredito proditoriamente da cinque o sei figuri e scampato solo pel suo coraggio, dalle mani di costoro.,

denunciavano inutilmente ancora il Roma il 29 ottobre e il settimanale repubblicano, 1799 nel suo numero del 2-3 novembre. Di fronte a tanta violenza con l’aperta, spregiudicata scesa in campo della camorra locale, Rodolfo Rispoli non se la sentì di continuare mettendo in pericolo l’incolumità dei suoi sostenitori, così alla vigilia delle elezioni fece affiggere un manifesto in cui annunciava il ritiro della sua candidatura, lasciando campo libero all’avversario. Su 4.097 elettori andarono a votare 2547 e di questi 2369 andarono al Sottosegretario alla Marina, mentre in 142, rifiutando l’astensionismo, irriducibilmente vollero in ogni modo testimoniare il voto contrario a tanta arroganza.[8].
Contro tale vergognoso atteggiamento fu fatta una particolareggiata relazione contenente fatti e misfatti e inviata alla Giunta delle elezioni ricorrendo contro l’elezione di Aubry ma le conclusioni, cui questa giunse non furono meno scandalose: “..in sostanza”, relazionò l’onorevole Marco Rocco,

“Le accuse mosse all’elezione dell’On. Aubry sono o inventate o artificiose o grandemente esagerate, che le nullità denunciate o non sussistono oppure non sono tali da poter infirmare il risultato delle votazioni…il fatto stesso del ritiro del Rispoli e dei suoi fautori dalla lotta e altresì i precedenti elettorali politici del collegio di Castellammare dimostrarono che l’elezione dell’On. Aubry rappresenta la volontà seria del corpo elettorale. Epperciò a grandissima maggioranza ha deliberato di proporvi la convalidazione della elezione dell’On. Aubry nel collegio di Castellammare di Stabia.”.

Ma se le conclusioni, rese pubbliche l’8 aprile 1905, suscitarono scalpore, non meno scandalosa apparve la remissività con la quale queste furono accolte dalla rappresentanza dell’Estrema in parlamento, suscitando l’indignazione dell’intera stampa democratica e di sinistra: ordini del giorno di protesta, contro la remissività del gruppo repubblicano alla Camera, si ebbero da parte della sezione repubblicana di Napoli trovando amplificazione sul Giorno, Il Pungolo, il Roma, L’Italia del Popolo e La Propaganda.

6. Il primo governo di Centro sinistra nel 1906 e l’assessore socialista Raffaele Gaeta
Non sappiamo come Catello Langella trascorse questi anni, anche se il sottoprefetto ci racconta, nella scheda oggi conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato, che viveva con due suoi fratelli, di cui uno era sacerdote e l’altro ricevitore del lotto. Disoccupato, probabilmente un precario professore di lezioni private, viveva a loro carico, in attesa di tempi migliori. Questo tempo sembrò arrivare nel 1907, quando il 19 giugno i venti operai della ditta di Andrea Salese, tutti iscritti alla Lega degli scartatori di cenci e aderenti alla Borsa del Lavoro di Napoli, entrarono in sciopero. Pochi giorni prima al Salese era pervenuto un memoriale da parte della Borsa del Lavoro nel quale si chiedeva un aumento di salario e una riduzione dell’orario di lavoro. Si concedevano all’imprenditore due giorni di tempo per dare una risposta, trascorsi i quali sarebbe stato proclamato lo sciopero.
Indispettito dal modo in cui gli era pervenuta la richiesta, l’imprenditore decise di non prendere in considerazione quel memoriale, provocando la reazione operaia. Nella stessa giornata incrociavano le braccia i falegnami della Società Americana, specializzata nel montaggio dei carri ferroviari, chiedendo anch’essi un aumento di paga. Ma mentre la vertenza dell’American Car And Fondry Company si componeva positivamente nella stessa giornata, molto più complicata si presentava quella degli scartatori di cenci, protrattasi attraverso alterne vicende, tra alti e bassi, per tutta l’estate e conclusosi, non sappiamo come, soltanto il 1° settembre. Il 17 luglio, intanto, anche la Società dei panettieri aveva minacciando lo sciopero generale della categoria attraverso una lettera del suo Presidente, Vincenzo Barone, scritta al sindaco Antonino Del Gaudio.
Il Presidente della Lega di miglioramento – associazione composta dai proprietari delle botteghe – rivendicava l’aumento del prezzo del pane giustificandolo con una perdita giornaliera, secondo lui ormai insostenibile, di almeno sei lire, tra costi e ricavi, su 4 quintali di produzione giornaliera per 16 ore di lavoro. Il 20 la lettera era girata al Sottoprefetto accompagnata da una nota dello stesso sindaco in cui riconosceva le giuste rivendicazioni esposte dai proprietari panettieri. Pochi giorni dopo il funzionario di governo, Vittorio Peri, poteva tranquillamente rispondere al sindaco di avere ottenuto il componimento della vertenza senza sconquassi di sorta.
Sul finire di quell’estate era sorta anche un’Unione di miglioramento fra muratori ed affini, rinforzando un tessuto organizzativo già forte di una lega degli arsenalotti con oltre 200 iscritti, una lega gallettai, una lega dazieri con 90 iscritti e una lega di miglioramento fra i vetturini. Quest’ultima era sorta nel maggio del 1906 e contava la quasi totalità della categoria con i suoi 200 aderenti. Una situazione complessivamente favorevole, rafforzata anche dall’eco della lotta dei pastai della vicina Torre Annunziata condotta per tutto il mese d’agosto da Maldera, fecero intuire a Catello Langella come ormai fosse giunto il momento di mettersi alla guida di questo fermento indirizzandolo verso un’organizzazione più complessa e articolata, quale appunto poteva essere una Camera del Lavoro, per superare e vincere il ricordo amaro della breve esperienza vissuta nel 1903, quando nel breve volgere di un’estate si consumò la vicenda degli operai dell’azienda di Michelangelo Cattori, con il sogno infranto della struttura sindacale appena sorta e distrutta.
Che il tempo fosse maturo era dato anche dalla vittoria socialista – seppure in condominio con le altre forze, democratico – liberali, coalizzate nel Comitato dei Partiti Popolari, ora definito Partito Nuovo, ora Partito Democratico o più semplicemente Cartello delle opposizioni e sintetizzato in un’unica lista elettorale – alle ultime elezioni amministrative del luglio 1906, quando ben cinque consiglieri comunali socialisti furono eletti per la prima volta, tutti insieme, nella storia di questa città: due avvocati, Raffaele Gaeta e Alfonso De Martino, quest’ultimo confermato dai suoi elettori di sinistra per il buon lavoro svolto nella prima parte della consiliatura, due professori, Andrea Luise e Pietro Carrese, e il commerciante Agnello Amalfi coronando una lunga battaglia iniziata nel 1900 e continuata nel 1903 quando parteciparono alla tornata elettorale del 1° febbraio riportando una prima importante parziale vittoria con l’elezione del De Martino.
L’agognata vittoria dell’estate 1906 arrivò in una fase di crisi per il partito, ormai dissolto pochi anni dopo la sua costituzione a causa di una forte emigrazione che aveva interessato anche Castellammare. Una vittoria per certi versi storica ma completamente ignorata perfino dagli storici locali, nonostante abbia, molto probabilmente, pochi precedenti nella storia politica del Mezzogiorno. Un trionfo costruito giorno per giorno, dopo la cocente delusione delle amministrative del 1903, la cui successiva tappa aveva prodotto primi evidenti risultati nelle elezioni parziali del settembre 1904. Un lavoro quotidiano delle forze democratiche sicuramente facilitato, ancora una volta, dagli scandali a ripetizione che avevano accompagnato l’amministrazione di Alfonso Fusco, tenendola sempre sul filo di una crisi permanente pur senza mai precipitare nello scioglimento anticipato. Ma laddove non era intervenuta la mano della legge a fermare anzitempo l’agonia del clan Fusco, fu l’esasperazione della cittadinanza a trovare nell’urna una concreta e rapida soluzione dando la vittoria all’opposizione nelle elezioni parziali del 22 luglio 1906 riuscendo così a rovesciare la maggioranza.

(…) Non c’è un provvedimento preso da essa che non sia un tornaconto o un favoritismo..”, scriveva La Propaganda il 7 febbraio 1904 e ancora martellava il 7 aprile: “Il capobanda della nostra camorristica amministrazione comunale non ha più a quale santo fare voti pur di mantenersi sul suo seggio presidenziale, conquistato con la forza della corruzione e di promesse inconfessabili e preparare un ambiente favorevole al predestinato candidato politico ministeriale di tutti i colori ed umori (…).

Una campagna micidiale e continua, sostenuta anche dal Roma con articoli puntuali sulle malefatte della giunta Fusco, consentì alla fine di portare, per la prima volta al governo di una delle più importanti città non capoluogo del sud, una coalizione di democratici con i socialisti protagonisti. Appena fu certa la vittoria dell’opposizione, una folla di oltre mille persone attraversò in corteo le vie della città raggiungendo Piazza Ferrovia dov’era l’abitazione di Alfonso Fusco, ma trovò ad aspettarla la forza pubblica impedendole di dimostrare contro il decaduto sindaco. Guidati dagli ex deputati, il liberale, Eduardo Magliani, il repubblicano Rodolfo Rispoli e dal rieletto consigliere provinciale, Antonio Vanacore, il corteo deviò allora verso la villa comunale dove i tre improvvisarono un comizio prima di sciogliersi.
Lo stupore per questa vittoria, ma soprattutto lo scandalo, fu tale che i benpensanti corsero subito ai ripari ricorrendo a tutte le armi, dal boicottaggio all’ostruzionismo, per rendere complicata la vita di quell’anomalo governo cittadino, come lucidamente e drammaticamente lo stesso Raffaele Gaeta denuncerà nell’aula consiliare, come più avanti vedremo, rassegnando le dimissioni sue e del compagno dalla Giunta. E così come il Roma aveva sostenuta la campagna dei progressisti nel lungo cammino verso la vittoria elettorale, Il Mattino apertamente schierato con i clerico moderati, cominciò ad attaccare la nuova Giunta fin dal suo insediamento, il 9 agosto, accusando il neo sindaco di aver scelto gli assessori in maniera infelice e poi “di dar prova di favoritismo e di soverchieria”. Superò ogni limite di partigianeria nella cronaca del 2 ottobre, quando, dando conto delle visite fatte dai diversi notabili locali al deputato Augusto Aubry, ospite a Castellammare di Tobia Vollono, ricordò come questo fosse stato fatto anche dal sindaco accompagnato da alcuni assessori,

“Mancavano”, precisò a questo punto il quotidiano diretto da Scarfoglio, “i due assessori socialisti, Gaeta e De Martino e ciò si spiega ma quello che non si spiega è l’ibridismo in cui si trovano il sindaco e gli altri monarchici che sono nella Giunta, i quali comprendono che l’attuale situazione amministrativa è tutta a scapito della loro dignità ed a beneficio dei socialisti e socialistoidi. I cosiddetti popolari, si capisce bene, mercè il potere amministrativo tendono a crearsi una base elettorale. Ma a che cosa tendono il sindaco e la Giunta ? A tenere il sacco a fare il comodino di questa gente che si trova al potere per una vera combinazione come si trovò al parlamento il repubblicano Rodolfo Rispoli.”.

Nella prima seduta del 9 agosto, in cui fu eletto il medico Tommaso Olivieri sindaco della città, l’avvocato Raffaele Gaeta, anima dei socialisti stabiesi, si ritrovò ad essere uno dei sei assessori effettivi eletti, mentre il notaio Alfonso De Martino fu eletto assessore supplente. [9] Tra i primi atti assunti dai socialisti, nella successiva seduta del 10 settembre, ci fu la presentazione di una “Proposta di una commissione consiliare d’inchiesta sugli atti della precedente amministrazione”, scatenando un putiferio in consiglio comunale con un dibattito acceso e senza esclusioni di colpi. Inutilmente due consiglieri dell’opposizione, Domenico Rega e Eduardo De Lutijs tentarono di opporsi e quando tutto sembrava perduto escogitarono un ordine del giorno con il quale s’invitava il Prefetto a nominare un funzionario che facesse chiarezza sugli atti della passata amministrazione. Ma il tentativo fallì e alla fine fu votata la commissione richiesta dai socialisti e composta dai consiglieri Nicola Amitrano, Francesco Girace, Giuseppe Gaeta, Letterino Conte e Pietro Carrese.
L’opposizione tentò di rifarsi il 7 dicembre, quando fu convocata una seduta straordinaria per ratificare una deliberazione d’urgenza adottata dalla precedente giunta il 27 luglio, con la quale si era deliberato la costituzione di parte civile del comune e la nomina di un avvocato difensore per recuperare il danno patito, contro l’assessore Francesco Amabile, delegato all’azienda daziaria, sul quale pendeva un pro cedimento penale per furto e truffa. Favorevole all’approvazione della delibera si dichiarò Raffaele Salvati sostenendola con la necessità di curare gli interessi vitali del comune. La risposta di Cesare Pontecorvo fu immediata e sprezzante chiarendo come quella delibera avesse l’unico scopo di trasformare il sindaco Alfonso Fusco da imputato a parte lesa. A chiarezza della gravità dei fatti di cui si discuteva intervenne allora Raffaele Gaeta, sottolineando che si stava discutendo di un ammanco di cassa del dazio di ben 10mila lire, di come l’ex sindaco fosse perfettamente a conoscenza di quanto stava accadendo e cioè dell’irregolarità dei versamenti alla tesoreria comunale delle somme riscosse dall’amministrazione daziaria e questo nonostante fosse stato avvertito per lettera dallo stesso tesoriere. Quando poi lo scandalo divenne pubblico e si aprirono due inchieste, una amministrativa e l’altra giudiziaria, non solo il Fusco non avvertì l’esigenza di dimettersi ma si diede da fare mobilitando tutte le sue conoscenze politiche e istituzionali per evitare lo scioglimento del consiglio municipale e, dal pro cedimento penale che si aprì, riuscì ad ottenere l’assoluzione per insufficienza di prove. Gaeta volle precisare che non vi era nessun intento persecutorio nei confronti del Fusco ricordando come invece

(…) l’Amministrazione avrebbe potuto fare istanza per la riapertura del pro cedimento penale a carico del Fusco fornendola giudice istruttore elementi nuovi di colpevolezza ma non ha creduto di fare ciò per allontanare dai suoi atti ogni sospetto di persecuzione personale. Ed ha preferito di proporre al consiglio Comunale che si istituisca giudizio contro il commendatore Fusco per farlo dichiarare responsabile civile dell’ammanco (…).

Messa ai voti la proposta Gaeta fu approvata con 20 voti contro 10. Si astennero Alfonso Fusco e il consigliere di maggioranza, Vincenzo Somma. L’esperienza in Giunta non durò molto, il 28 giugno 1907, Raffaele Gaeta e Alfonso De Martino rassegnarono le proprie dimissioni da assessori, ricostruendo in una lettera i motivi di quel gesto:

Quando nelle elezioni parziali amministrative del 22 luglio 1906 ottenne la vittoria sul partito Fusco, la coalizione alla quale avevano partecipato con slancio ed entusiasmo i partiti popolari, si volle il nostro concorso nell’Amministrazione Comunale e noi lo prestammo nei limiti delle nostre modeste energie, fino a che le elezioni politiche del 17 febbraio 1907 non sopraggiunsero, con gli inevitabili dissensi a creare una specie d’incompatibilità fra i rappresentanti dei partiti coalizzati a rimanere nella stessa giunta. Noi allora decidemmo di presentare e presentammo le nostre dimissioni; e se a questo soltanto si fosse limitata la crisi amministrativa, forse l’amministrazione comunale non si sarebbe trovata nelle attuali condizioni. Difatti si dimise il sindaco, Dottor Tommaso Olivieri e con lui vollero dimettersi gli altri assessori; e si volle di nuovo, per il rifiuto reciso, già in precedenza manifestato dal sindaco di pigliar parte ad un’amministrazione novella, ricomporre la Giunta con il concorso dei popolari per evitare i danni di un’amministrazione straordinaria. E lo prestammo anche questa volta. Se non che, ricostituita l’Amministrazione, il contegno dell’autorità politica, che, se fino a quel tempo non era stato benevolo, nemmeno si poteva dire ostile, cominciò ad assumere i caratteri della più aperta ostilità in odio, evidentemente, alla nostra presenza nella giunta, tanto da degenerare talvolta nella più aperta partigianeria.
Questo contegno dell’Autorità non potrebbe da sé solo in durc i a lasciare la carica di assessori, essendo noi usati a sostenere lotte anche più aspre con l’Autorità, che non sia quella che attualmente si muove, senza alcun fondamento di giustizia, e solo per mire politiche, all’Amministrazione. Ma la nostra presenza nell’Amministrazione non può più oltre continuare, sia per le condizioni peculiari in cui ritrova l’Amministrazione, che non consentono un atteggiamento di battaglia, sia perché intendiamo di mantenerci fermi nel proposito manifestato, di non dare cioè l’opera nostra pretesti a rappresaglia a danno del comune. E si aggiunga che per le medesime ragioni, e sopra tutto per l’ostruzionismo premeditato del governo, si rende impossibile spiegare qualsiasi attività in senso schiettamente democratico negli atti amministrativi; mentre di fronte a questo che è il nostro convincimento, stanno da una parte, il pregiudizio, per non dire altro, dei così detti benpensanti che la parte popolare, sfrutti il potere amministrativo a vantaggio del suo partito; laddove l’esperienza quotidiana persuade noi e dà la prova agli altri del contrario.
Per tutte le anzidette ragioni dobbiamo rassegnare, come rassegniamo, le nostre dimissioni da assessori. Esse non devono significare apertura d’ostilità, teniamo invece a dichiarare che l’appoggio della parte popolare continuerà fino a che non sorga una novella coalizione che permetta alla parte costituzionale del consiglio comunale di formare una giunta tutta di un pezzo, che non abbia bisogno del nostro voto per mantenersi al potere; e ciò in omaggio a quella sincerità politica ed amministrativa, di cui da tutti si parla, ma che giammai si pone in pratica. Che se la parte popolare fosse chiamata a concorrere ad impedire il risorgere di uomini e di metodi, che insieme combattemmo, il suo allontanamento dal potere esecutivo non sarà di ostacolo al compimento del suo dovere. [10]

La rottura era avvenuta sulle elezioni suppletive del 17 febbraio, dove a scontrarsi erano stati nuovamente Rodolfo Rispoli e Augusto Aubry, a seguito della decadenza di quest’ultimo per incompatibilità tra la sua carica di sottosegretario alla Marina e la nomina a Vice ammiraglio. Ancora una volta brogli e violenze l’avevano fatta da padroni: “La lotta è combattuta dal governo con le stesse armi e gli stessi metodi di violenza e corruzione del 1904..” scriveva l’Avanti! l’11 febbraio 1907 e raccontava di come il Sottoprefetto, in violazione della legge, si era fatto consegnare la lista degli elettori dal sindaco sollevando le proteste della commissione comunale per la lista elettorale

“ (… Allora si richiese la lista al Sottoprefetto, ed egli invece della lista rimandò un elenco informe di nomi alcuni dei quali aggiunti, altri cancellati con inchiostro rosso. Di ciò fu fatto verbale alle autorità giudiziarie. A Gragnano si preparano nuovamente le gesta del 1904. Il Governo ha tenuto sospeso fino ad oggi la riduzione delle tariffe ferroviarie per concederle oggi a titolo di esperimento alla vigilia delle elezioni e farla figurare come una speciale grazia dell’Aubry”.

Sull’argomento l’Avanti! vi ritornerà il 24 febbraio raccontando di come a Gragnano i partiti del candidato governativo si fossero impadroniti di due seggi utilizzandoli a loro uso e consumo

“ (… ) e mentre risulta, e si potrebbe provare, che non più di 450 furono i votanti, dall’urna vennero fuori oltre 750 voti. Da nostre informazioni particolari poi apprendiamo che la votazione di quel comune fu di 281 voti all’avvocato Rispoli e 164 a Aubry e che essendosi per ciò sgomentati i componenti dei due seggi, si permisero la pastetta più indegna. I rispoliani furono all’uopo esclusi manu militare ed abbandonati dagli agenti della forza pubblica alle ire dei partigiani del candidato del governo. L’urna fu così gonfiata da un numero inverosimile di schede aubriane, essendone state gia preparate molte centinaia in precedenza (…)”.

A provocare una prima crisi all’interno della coalizione di Centro sinistra era stata l’iniziativa assunta da Raffaele Palladino e da altri consiglieri della maggioranza di dar luogo, l’11 febbraio, ad una riunione presso l’hotel Rojal a sostegno della candidatura di Aubry. La nascita di un secondo comitato elettorale, dopo quello di Alfonso Fusco che aveva proclamato la candidatura del vice ammiraglio e la plateale presenza del sindaco, due giorni dopo, accompagnato dall’intera Giunta “da cui mancavano soltanto i due sovversivi”, alla stazione ferroviaria ad attendere l’arrivo dell’Aubry, accompagnandolo, insieme ad una folla plaudente, fino all’Hotel Stabia, portò alle dimissioni dalla Giunta dei due assessori socialisti. Alle dimissioni per protesta dei due socialisti seguirono quelle del sindaco e degli altri assessori, ma mentre quelle di Gaeta e di De Martino rientrarono, Tommaso Olivieri le confermò, portando all’elezione di un nuovo sindaco, Antonino Del Gaudio, il 9 aprile. In questo frangente la maggioranza dovette anche fronteggiare le diverse manovre messe in atto da Alfonso Fusco e dai suoi uomini tese a riconquistare la poltrona di primo cittadino, attraverso un’accurata campagna acquisti di consiglieri della maggioranza. 19 voti a favore contro 14 astenuti, davano il senso dello scontro aspro registrato tra le due coalizioni. A queste condizioni era difficile sopravvivere e, infatti, fin dalla prima metà di luglio si cominciò a parlare di scioglimento del consiglio comunale. Il decreto reale arrivò puntuale e preciso il 25 agosto e il 3 settembre il commissario prefettizio, Vittorio Colli prese possesso del suo ufficio governando con decisione e abilità la città fino alle nuove elezioni amministrative del 1° marzo 1908, quando i socialisti porteranno in aula il solo Alfonso De Martino.
Anni dopo, nel febbraio 1918, Catello Langella, da tempo non più socialista, ricorderà in un articolo del suo quindicinale, Il Risveglio di Stabia, “l’amministrazione Gaeta.”. Tale fu l’impronta lasciata dall’assessore Raffaele Gaeta in quei pochi mesi in cui si tentò un modo nuovo di amministrare improntato sulla trasparenza degli atti; in particolare il giornalista rievocherà “la famosa inchiesta promossa dall’amministrazione Gaeta contro quella precedente.”. [11]

7. Le polemiche da sinistra di Vito Lucatuorto contro la Giunta di Centro sinistra
Eppure, nonostante la novità assoluta rappresentata da quella Giunta nel panorama politico stabiese, completamente soggiogato al clero e spesso degenerato in un malaffare fatto di camorra e di clientele, i cinque socialisti furono soli nella loro battaglia, abbandonati dagli stessi compagni con i quali entrarono in attrito perché non condividevano il metodo – una lista di forze eterogenee – che li aveva portati in consiglio comunale e, quindi, in Giunta. “Un ibrido minestrone di popolari, socialisti e di massoni senza che vi sia la sezione ufficiale”, aveva scritto sprezzantemente un anonimo cronista sul settimanale socialista La Propaganda , allineato sulle posizioni del sindacalismo rivoluzionario e già sulla strada della rottura con il PSI di Filippo Turati.

Questo modo di presentarsi alle elezioni era stato utilizzato, con alterna fortuna, fin dal 1900, il solo possibile se si volevano raggiungere alcuni traguardi, se si voleva conquistare quel minimo di visibilità necessario in un ambiente refrattario al socialismo, alle sue idee, alla gente che le rappresentava. Bisognava scegliere se mantenersi duri e puri, soli in un ogni battaglia, facendo testimonianza della propria diversità fino allo scontro finale rappresentato dalla rivoluzione socialista per la conquista del “sole dell’avvenire”, oppure sporcarsi le mani, scendere in campo scegliendo delle alleanze con le quali si potevano condividere alcune cose, poche forse, ma quanto bastava per tentare di sconfiggere quelli che sembravano invincibili, quelli che detenevano il potere da sempre, i clerico monarchici. Un potere raramente usato al servizio della collettività come dimostrano i troppi eccessivi scioglimenti del consiglio comunale di Castellammare e le numerose inchieste, spesso insabbiate, sugli atti amministrativi di questa città. Un metodo che aveva consentito, per esempio, di portare il democratico Antonio Vanacore in consiglio provinciale l’8 giugno 1902 e confermandolo nelle elezioni del 22 luglio 1906, il repubblicano Rodolfo Rispoli in Parlamento in quelle tenutesi, il 15 giugno 1902 – una vittoria salutata dalla Propaganda come “l’inizio di un salutare risveglio morale per questo popolo che ha sete di libertà e d’indipendenza economica” – e il socialista Alfonso De Martino, con il repubblicano Michele D’Auria, in consiglio comunale il 1° febbraio 1903. Per De Martino ci fu anche la prova del nove, ampiamente superata, delle elezioni amministrative parziali del settembre 1904.
Non meno importanti le ragioni rivendicate dalla parte opposta, fondate non tanto e non solo sulla purezza dei propri ideali, quanto sulla necessità di uscire dall’elitarismo – il socialismo meridionale era un affare che sembrava riguardasse unicamente avvocati e professori – di dare vita ad una organizzazione che rompesse con il passato. La vita della sezione, volendo riprendere quanto scritto da Michele Fatica a proposito dell’esperienza napoletana in quello stesso periodo, nel suo efficace e sempre attuale, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli, durante quasi tutto il decennio giolittiano era stata poca cosa, non tanto per l’incapacità del proletariato a dare vita a grandi lotte rivendicative e politiche ma perché l’attività dei dirigenti si esauriva nell’organizzazione di blocchi elettorali con i partiti cosiddetti affini, di circoli di propaganda per questo o quel candidato molto spesso neppure iscritto al partito, oppure nel migliore dei casi, in iniziative assistenziali e umanitarie nelle quali si ritrovavano uomini d’ogni tendenza e d’ogni fede e unicamente legati da idee progressiste genericamente intese che avevano trovato, a Castellammare, la loro sintesi in un Comitato dei Partiti popolari. Ma soprattutto questi volevano liberarsi da un giogo utile soltanto ai loro aleatori alleati, uomini pronti a saltare da un fronte all’altro secondo le convenienze e i rapporti di forza, senza nessun vantaggio per le masse popolari, rendendosi conto come tutto ciò non portasse nessuna ricaduta d’immagine per il Partito, nessun profitto, né consenso effettivo, un partito destinato in ogni caso a rimanere isolato, tenuto a distanza, impossibilitato a far maturare le condizioni di un’effettiva partecipazione al potere.
Certo non era facile per un intellettuale, specialmente se d’origine borghese, essere socialista nel Mezzogiorno e in particolare nelle piccole città dove era arduo aprire varchi di moderna aggregazione civile e politica in ambienti chiusi e tradizionali,

Circondati dalla dura e acrimoniosa ostilità della società dei civili, emarginati in una pesante condizione. In città avrete sempre un gran numero di persone, indifferenti o tolleranti che vi saranno amiche, qualunque sia la vostra fede politica. Non così in paese. Là è un cerchio così ristretto d’interessi che non è possibile colpire uno senza che se ne risentano tutti. E in città, pochi o molti, dei compagni o almeno dei simpatizzanti, vi sosterranno con la loro solidarietà morale. Se da un lato spezzate delle relazioni, dall’altro ne stringete delle altre, e quasi sempre più care al vostro animo. Non così in provincia. Là vi attende l’isolamento.

Dura, lucida analisi di un socialista intellettuale meridionale come Ernesto Cesare Longobardi (1877 – 1943) scritta il 24 settembre 1899 su La Propaganda e ripresa da Francesco Barbagallo nel suo Stato, Parlamento e lotte politico sociali nel Mezzogiorno, ancora di una sconcertante verità, un secolo dopo, in tanti piccoli paesi meridionali dove essere comunisti ha significato e in alcuni casi significa ancora – forse oggi ancora più di ieri – essere guardati con un alone di sospetto.
Vediamo come un anonimo socialista di Castellammare, ma probabilmente Vito Lucatuorto (1880 – 1938), ricostruisce questi primi anni del 1900 vissuti dal socialismo stabiese e come spregiudicatamente liquida la prima amministrazione di “Centro sinistra” della nostra storia, in alcuni articoli apparsi a partire dal 17 febbraio 1907 sul settimanale socialista napoletano, La Propaganda , rispondendo a dei questionari inviati alle sparute forze socialiste del Mezzogiorno dal comitato promotore del Congresso Meridionale Socialista, tenutosi, dopo diversi rinvii, nella Sala Tarsia in Napoli dal 7 al 9 settembre 1907:

Non vi è sezione del Partito, né giornale, né federazione collegiale. La sezione socialista costituitosi nel gennaio 1901 contava una cinquantina di buoni elementi, ma dopo quattro anni, per l’emigrazione di buona parte di essi si sciolse. Organo della sezione fu la Lotta Sociale (in realtà Lotta Civile) del quale si vendevano oltre 400 copie, ma ora è defunto e non è stato più possibile né di costituire la sezione, né di ripubblicare l’organo di partito, data l’indifferenza locale. Non si sono poste mai candidature di partito nelle elezioni politiche, si è sempre appoggiata quella del repubblicano Rodolfo Rispoli.
Nelle elezioni parziali amministrative del 1900 la sezione portò quattro candidati su venti consiglieri da eleggersi e raccolse 400 voti sui 1500 dei borghesi. Nel giugno 1902 con l’appoggio dei socialisti, anzi dei popolari (?) riuscì eletto consigliere provinciale il compagno Antonio Vanacore contro, l’ora defunto, ammiraglio Corsi. Nel 1903 nelle elezioni amministrative, dopo lo scioglimento del consiglio, si posero le candidature di cinque compagni in una lista completa di 32 nomi e cioè un candidato repubblicano, 26 apolitici ma simpatizzanti (?!) per i popolari. Riuscirono sette della lista alleata (?!) fra i quali il repubblicano (550 voti) ed un socialista (600 voti), l’avvocato De Martino. Nelle elezioni amministrative parziali del settembre 1904 la sezione socialista si era già sciolta per l’apatia dei compagni superstiti. Ma gli elettori elessero l’avvocato De Martino con 800 voti, uscente il professor Luise con oltre 700 voti, rimanendo bocciato l’operaio socialista Penna con 600 voti. S’intende che i popolari (?) votavano e facevano votare. Nelle seguenti elezioni provinciali ed amministrative i popolari hanno continuato tale loro giochetto ed i socialisti locali hanno contribuito a far mantenere tuttora tale sistema indecente.
Vi è una lega arsenalotti con 200 soci diretta da compagni e simpatizzanti; la lega vetturini da nolo diretta da un compagno, è costituita da un anno: la lega gallettai, diretta da un altro compagno, è costituita da oltre tre anni; la lega daziari con 90 iscritti con indirizzo popolare (?). In gran parte le migliaia di proletari di Castellammare sono disorganizzati e ciò per l’indolenza dei locali compagni (?).

In un successivo articolo del 22 marzo esprime ancora più chiaramente il suo pensiero sull’amministrazione di “centro sinistra:

L’amministrazione è composta da un ibrido minestrone di popolari, socialisti e di massoni senza che vi sia la sezione ufficiale (!). Però essa amministrazione ha abolito le tasse d’esercizio, rivendite sul bestiame ecc, si è dimostrata molto energica contro l’appaltatore dei dazii, che è stata sfrattata, tutelando gli interessi dei dazieri diffidati dall’appaltatore e dalla camorra dell’ex amministrazione. Ma fino a quando? E’ da augurarsi che sorga un serio e disciplinato partito socialista il quale diriga ancora l’incosciente movimento confusionistico, nonché elettorale, molto elettorale! dei cosiddetti popolari.
E ancora il 22 settembre:
…Non a noi è spiaciuto lo scioglimento dell’amministrazione, noi che abbiamo piacere di misurarci nelle elezioni amministrative per valutare la naturale plebiscitaria protesta cittadina a favore del candidato sovversivo nelle elezioni politiche del febbraio scorso. Però non deve passare sotto silenzio il fatto che Giolitti scioglie un’amministrazione comunale per incapacità amministrativa (leggi elettorali: elezioni politiche febbraio 1907) quando non sciolse due anni innanzi un amministrazione camorrista la quale si macchiò di peculato in persona del vice sindaco cavalier Amabile. Cose d’Italia!”
Infine il 24 maggio 1908:
Da parecchi anni è esistito qui un cosiddetto Comitato dei partiti popolari, sorto in verità un po’ dalla pusillanimità di alcuni di alcuni nostri compagni a cui l’aggettivo socialista metteva un po’ i brividi, un po’ dal facile accomodamento di qualche repubblicano e di parecchi repubblicani vivacchianti fra l’opportunismo dell’ambiente monarchico clericale e una sfrenata ambizione di conquistare i pubblici poteri e soprattutto per fare lo sgabello comodo e sicuro alla candidatura politica repubblicana. La candidatura riuscì vittoriosa nelle elezioni politiche del 1900 e francamente fu un bene per l’educazione civile del nostro popolo e per contrastare alle invadenti forze camorristiche con l’etichetta clericale e governativa. Quella vittoria fu un patto e una promessa. Il patto che finalmente il nostro popolo dimostrava a tutta l’Italia che il nostro collegio non è un feudo da conquistare, la promessa che mercè l’azione armonica attiva ed incessante dei socialisti e dei repubblicani si redimeva la coscienza popolare dalle oppressioni della chiesa e dalle camorre di ogni specie. Ma ahimé, al patto e alle promesse si venne meno. Ognuno passando sugli allori della vittoria conseguita, nulla fece per infondere nella massa dei nostri lavoratori quei sentimenti di redenzione politica ed economica che pur sono tanto necessari per l’organizzazione e la disciplina di tanti oppressi. Nulla, proprio nulla si fece e si fa. Un partito socialista vero e proprio qui non esiste, così come non esiste – nonostante la fantasia ottimista e le energie fiacche dell’On. Rispoli – un partito repubblicano. Ed intanto varie lotte politiche ed amministrative si sono succedute nel corso di pochi anni; e in ogni lotta si è fatto un gran rumore da un partito, quello popolare, per la sua forza (!) sempre vantata. Un partito che non ha mai potuto comporre una lista anche di minoranza a sé e che ha dovuto ricorrere alle più ignobili e meretrici alleanze, ora coi clericali, ora coi monarchici più o meno vagellanti, non poteva essere né vivo né vitale. L’equivoco del popolarismo doveva scomparire tanto più che per esso si sacrificavano le migliori energie di ottimi nostri compagni.
Domenica scorsa, 17 corrente, in un’adunanza dei soci del comitato dei partiti popolari, i socialisti presentarono un ordine del giorno approvato all’unanimità dai presenti, con cui s’invitavano i così detti popolari a rientrare nelle proprie organizzazioni (socialista e repubblicana) dichiarando sciolto il Comitato. Questa risoluzione pone fine ad uno stato di cose troppo increscioso giacché come dirò in altra mia corrispondenza, qui stanno sul tappeto questioni serie ed importanti per l’organizzazione di numerosi operai viventi sotto il giogo di sfruttamento capitalistici inumani. I repubblicani non se ne dolgano. Anzi si persuadano che c’è posto anche per loro nell’esplicamento della propaganda delle loro idee.

L’accusa non risparmiava nessuno di quanti nell’ultimo decennio avevano retto le sorti del socialismo a Castellammare, compresi i capi storici, anzi, probabilmente l’attacco era diretto proprio alle due maggiori personalità del movimento operaio locale, a Catello Langella e Raffaele Gaeta e, in subordine al partito dei consiglieri comunali, i vari Alfonso De Martino, Andrea Luise, Pietro Carrese e quanti altri avevano partecipato, seppure con minore fortuna, alle lusinghe delle lotte elettorali “prostituendosi” con altre formazioni che nulla o poco avevano da spartire con le idee del socialismo. Vito Lucatuorto a tratti addolciva l’attacco furibondo parlando di “timidezza politica”, di generoso altruismo mal ripagato dai “succhioni” approfittatori i quali pur di raggiungere lo scopo prefisso non esitavano a utilizzare ogni mezzo, compreso l’alleanza con forze – quelle socialiste – alfine disprezzate.
Per quanto c’è dato sapere, Catello Langella non rispose, almeno pubblicamente, alle pesanti accuse di “pusillanime”, e di “pigro” che gli erano rivolte, così come non fecero gli altri sui quali gravava la pesante imputazione di quasi tradimento. Ma stranamente cessarono improvvisamente anche le corrispondenze da Castellammare dell’anonimo cronista come se ci fosse stata un’improvvisa rottura con La Propaganda – un giornale diventato il megafono, in pratica unico, di tutte le iniziative delle diverse organizzazioni socialiste sparse per la Campania – per tutta la fase di costituzione e di vita, seppure breve, della Camera del Lavoro tra l’ottobre 1907 e marzo 1908. Nessun resoconto degli scioperi, nessuna corrispondenza, neanche minima di quanto stava accadendo. Il silenzio fu assoluto, come se Castellammare operaia e socialista fosse stata cancellata dal settimanale, ormai organo del sindacalismo rivoluzionario. Dal 22 settembre 1907, quando apparve un articolo sullo scandalo della canapa nel cantiere navale, bisognerà poi attendere il 24 maggio 1908, con la firma di Vito Lucatuorto per una nuova corrispondenza e non una parola, una, su quei sei caldi mesi per il movimento operaio stabiese. In luglio fu citata la commemorazione di Giuseppe Garibaldi sciolta dal delegato di pubblica sicurezza, quando Arnaldo Lucci (1871 – 1945), uno dei fondatori della Propaganda, osservava l’inopportunità della commemorazione dell’eroe dei due mondi da parte delle autorità perché così facendo ne profanavano la memoria. Solo al popolo, secondo l’esponente socialista, spettava ricordare l’uomo che più d’ogni altro si era battuto per l’unificazione dell’Italia. Era troppo perché l’uomo della legge non intervenisse ponendo fine ad un comizio avviato a prendere una brutta piega. In settembre il settimanale socialista richiamò l’adesione al Congresso Socialista meridionale della sezione stabiese con Vito Lucatuorto e il giovane Ignazio Esposito. Poi il silenzio di cui si è detto.
Contemporaneamente, ma forse proprio per questo la rottura con La Propaganda , un’intesa tra le diverse anime dell’organizzazione socialista in quella delicata fase fu, per forza di cose, raggiunta, visto che il partito era stato ricostituito in quella stessa estate del 1907 e addirittura era riuscito a mettere in piedi un’iniziativa editoriale, con l’uscita di un nuovo organo socialista, La Voce del Popolo. Il giornale aveva esordito con una sorta di scoop su un tentato omicidio all’interno della Regia Corderia, facendo emergere un colossale imbroglio ai danni dello stato con il coinvolgimento di alcuni dirigenti, capitecnici, ufficiali della marina e operai della stessa Corderia, in combutta con fornitori di canapa che mandavano materiale di pessima qualità e fatta passare per ottima attraversa una rete di complicità interna allo stabilimento. L’inchiesta avviata dal neonato giornale socialista stabiese – nonostante la reticenza della stessa vittima, l’operaio Luigi Di Palo, rifiutatosi di assoggettarsi all’imbroglio e per questo aggredito e picchiato a sangue da alcuni individui sul lavoro – portò all’apertura di un’indagine da parte delle autorità giudiziarie e ai successivi “..emozionanti arresti praticati in questo Regio Cantiere…”
Meno di due anni dopo, il 17 febbraio 1910 la causa presso l’ottava sezione del tribunale di Napoli contro Carmine Pezzullo, il fornitore di canapa, e altri 17 complici interni al Regio Cantiere, si chiuse con l’assoluzione di tutti gli imputati “per inesistenza del reato”. Il processo prese subito un indirizzo assolutorio e questo cominciò ad essere chiaro fin dall’inizio, il 29 novembre 1908, quando ci si rese conto che il Governo non si presentava parte civile “a mezzo della sua avvocatura erariale per quanto esso sia il più danneggiato.” Inutilmente i deputati socialisti, Eugenio Chiesa (1863 – 1930) e Giacomo Ferri (1860 – 1930) presentavano due interrogazioni parlamentari mentre, l’Avanti! del 1° dicembre 1908 attaccava
“..Qui in Napoli corre insistente la voce di inframmettenze politiche le quali abbiano fatto desistere il ministro incaricato dal costituirsi parte civile in questa causa..”, a difesa, sempre secondo il cronista del quotidiano socialista, dei veri responsabili da ricercarsi “(…) in persone eminenti della locale giunta di ricezione della Regia Marina (…)”
L’unità ritrovata nella sezione socialista stabiese è da considerarsi dunque l’ipotesi più probabile della rottura nei confronti della Propaganda, ormai avviata a diventare organo sindacalista, fuori e contro il PSI, inseguendo il sogno, presto infranto, di Arturo Labriola, leader di un sindacalismo rivoluzionario che nel 1907 “(…) era ormai diventato un fenomeno decisamente minoritario nel quadro del complessivo movimento operaio nazionale (…)” come scrive Alceo Riosa nella sua ricostruzione su Il sindacalismo rivoluzionario in Italia. Probabilmente i socialisti di Castellammare, pur tra le mille divisioni che li attanagliavano, non se la sentirono di lasciare la barca del vecchio partito socialista di Filippo Turati e questo comportò, inevitabilmente, la chiusura – anche se soltanto momentanea – di ogni rapporto con il giornale napoletano.
Che questa sia la giusta risposta, in mancanza di una diversa e più corposa documentazione, è confermata dal fatto di come, in contemporanea con il silenzio avviato dal periodico napoletano sulle locali vicende socialiste e sindacali, parta sul quotidiano nazionale del PSI, una nutrita corrispondenza da Castellammare a firma prima di Vice e successivamente collettivamente come Sezione Socialista. Il primo di questi servizi è del 28 settembre – sei giorni dopo l’uscita dell’ultima cronaca sulla Propaganda – e racconta di come, appena sciolto il comune e arrivato il nuovo Regio commissario prefettizio, Vittorio Colli, il vescovo di Castellammare, Michele De Jorio (1845 – 1922), si dia da fare per avviare una serie di riunioni sui nomi da inserire nella lista che dovrà presentarsi alle prossime elezioni elettorali amministrative.

“(…) La casa di costui – scrive Vice – si è trasformata in un vero comitato elettorale, e già in una delle continue assemblee, ove è un accorrere di parroci, commendatori e cavalieri, è stata proclamata la crociata contro i sovversivi: I quali finora sono rimasti spettatori indifferenti a tutto ciò, avendo creduto più necessario impiegare il loro tempo in cose più utili per il partito. Quantunque non vi sia stata ancora nessuna riunione in proposito, pure posso assicurarvi che per noi sarà una lotta combattuta con intransigenza, anche perché, se noi, per dare più spietata battaglia alla clerocanaglia, decidessimo d’essere favorevoli alla formazione d’un blocco, qui elementi per una tale possibilità non esistono.”.

Del resto c’era poco da litigare in una sezione ridotta a poco più di quindici iscritti. Forse non né aveva mai avuto di più, se si esclude il boom degli anni 1901-1904, quando raggiunse i cinquanta soci. Ancora nel 1910, alla vigilia dell’XI Congresso nazionale del PSI, la situazione era stabilizzata in 15 iscritti come si evince dall’Avanti! del 9 ottobre censendo le sezioni aventi diritto di partecipazione all’assise del 21-25 ottobre a Milano. La situazione nel resto del napoletano in verità non era molto migliore, così come in tutto il Mezzogiorno. Nel 1906 in tutta la Campania esistevano appena 24 sezioni del PSI con complessivi 850 iscritti, rispettivamente 127 e 3150 i numeri dell’intero Mezzogiorno continentale contro le 3846 sezioni e 43.797 soci del Nord. Ma se nel 1910 la sezione di Castellammare contava 15 iscritti, le altre corregionali non stavano meglio: prima in Campania veniva Napoli con 40 iscritti, seguivano Ariano di Puglia in provincia di Avellino e lo stesso capoluogo irpino con 30, Volturara Irpina 23, Benevento 15, Caserta 14, Portici 10 e via così le altre.

[1]La sezione socialista aveva eletto il 23 agosto come membri della nuova Commissione Esecutiva, Eduardo Sola, Raffaele Fontana, Vincenzo Precenzano e supplenti Federico Calmieri e Alcibiade Morano. Segretario era riconfermato Arturo Giannella. In quella stessa seduta si decideva la nascita dell’Associazione, vero e proprio laboratorio politico per avviare la costituzione della successiva Camera del Lavoro.
[2] Per maggiori particolari sulla storia del movimento operaio di Gragnano cfr. Raffaele Scala: La Camera del Lavoro di Gragnano, Longobardi Editori, 2010.
“Questo comune”- scriveva nel 1880 l’Annuario Napoletano su Gragnano – “tiene il primato per la manifattura delle paste lunghe che sono esportate all’estero. Sono cinque le fabbriche più importanti e più rinomate. Questa rinomanza è dovuta a molte circostanze che ci piace annunziare qui ai forestieri. Gragnano ha molini di piccola forza, e quindi ottenendo pochi quintali al giorno di sfarinato, lo ha migliore: i 2840 individui che vi sono addetti alla lavorazione delle paste, sono retribuiti mensilmente e non a cottimo, quindi non sono stimolati a far presto e molto: finalmente ivi è applicato il precetto economico della divisione del lavoro e le fabbriche si consacrano in particolare alla specialità delle paste lunghe, che sono le più dimandate all’estero. Delle varie specie di paste la sola secondaria si consuma tra noi, e la prima si consuma solo all’estero, perché difficilmente tra noi si pagherebbe l’alto prezzo della produzione fina.”
[3] Marcella Marmo: Il proletariato.., cit., pag. 313 e 317
[4] Salvatore Fatta era nato a Castellammare il 23 febbraio 1870, figlio di Luigi e Giovanna Limauro. Combattente volontario a fianco degli irredentisti greci, a Damokos nel 1897 con Ricciotti Garibaldi (1847 – 1924) – quarto figlio dell’Eroe dei due mondi e di Anita – si sposò con Elisabetta Oliver nel 1911. Repubblicano fino al primo conflitto mondiale fu, impiegato comunale dal 1910 con il ruolo d’ispettore dirigente il servizio di pubblico spezzamento, poi nominato direttore amministrativo dell’acquedotto municipale. Lo ritroviamo sotto il regime fascista, Segretario amministrativo del sindacato operaio locale, diretto dal gerarca Paolo De Fusco e giornalista della Gazzetta dello Sport e del Littoriale. Scomparirà sul finire del 1940.
[5] Nelle elezioni del 29 ottobre 1882, eliminato il collegio uninominale e introdotto il voto di lista, Catello Fusco ebbe comunque una buona affermazione personale ottenendo 2641 voti subito dietro i tre eletti che furono Luigi Petriccione con 3497 voti, Tommaso Sorrentino con 3179 e Mariano Ruggiero con 3002 preferenze. Si lasciò alle spalle il professore Saverio Tutino, Fienga e Morrone. Cfr. Roma 30 ottobre 1882 “Elezioni politiche”
[6] Il giornale era l’organo ufficiale dell’Associazione monarchico-progressista Pro Stabia il cui presidente era l’avvocato Raffaele Palladino, a sua volta coinvolto nell’Inchiesta Monarca per essere stato sindaco nella primavera del 1892 e legale dell’Ufficio contenzioso del comune in quegli stessi anni.
[7] L’impiegato comunale e poi dirigente dello stesso ente, Gaetano Celotto, era un noto pubblicista: aveva fondato nell’agosto 1903 il giornale estivo locale Il Gazzettino, dirigente dell’Associazione stipendiati e salariati del comune, corrispondente da Castellammare del Mattino dal 1910, nominato cavaliere, aderì con entusiasmo al fascismo mettendosi in mostra con feroci articoli contro “l’idra bolscevica insediatosi al palazzo del comune”.
[8] Il 28 ottobre era stato aggredito da diversi camorristi l’imprenditore Sebastiano Faiella, sostenitore del repubblicano, inutilmente denunciato dal Roma del 29 ottobre e il 6 lo stesso giornale annunciava: A Gragnano la camorra agli ordini dell’autorità ha fatto essa l’elezione. Innanzi a questa condizione di cose l’On. Rispoli ha pubblicato un manifesto per ritirarsi e far ritirare i suoi da una lotta che la canaglia alta e bassa avrebbe fatto degenerare in guerra civile. Roma 6 novembre 1904: Una bella vittoria!!!
[9] ASC: “Elezione ad assessore del consigliere Raffaele Gaeta”, seduta consiliare del 9 agosto 1906;
[10] ASC Adunata straordinaria del 27 agosto 1907: “ Dimissioni dalla carica di assessori dei signori Gaeta Raffaele e De Martino notar Alfonso”;
[11] Il Risveglio di Stabia, anno III, n° 3, 15 febbraio 1918 “Il cancro daziario”, firmato Risveglio ma in realtà scritto dal suo direttore Catello Langella.

Fonti utilizzate:
ASC: Archivio Storico comunale di Castellammare di Stabia
ACS: Archivio Centrale di Stato
L’Amico del Popolo, periodico stabiese
La Propaganda , organo regionale socialista
l’Avanti! organo del Partito Socialista Italiano
Il Mattino
Roma
Michele Fatica: origini del fascismo e del comunismo a Napoli
Marcella Marmo: Il proletariato industriale a Napoli
Francesco Barbagallo: Stato, Parlamento e lotte politico sociali nel
Mezzogiorno
Alceo Riosa: Il sindacalismo rivoluzionario in Italia
Raffaele Scala: La Camera del Lavoro di Gragnano
Raffaele Scala: La Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia
Benito Antonio Caccioppoli: Terme e acque minerali dai romani ai
nostri giorni.