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A Castiellammare nuje vulimme jastemmà!

Cari amici del sito, complimenti per le ultime modifiche, che lo renderanno ancora più bello, di quella bellezza che solo noi stabiesi, gente onesta, perbene e umile sappiamo apprezzare! Scrivo per condividere con voi una storia del mio passato.

Un giorno di sabato scesi per strada con i miei amici Vecienzo ‘o fuocaracchio (così soprannominato per l’ustione da lui subita una sera dell’Immacolata) e Alfredo ‘o magnacunfiette (così detto per la sua propensione ad andare ai matrimoni senza essere stato invitato).

Bar Spagnuolo

Bar Spagnuolo

Mentre stavamo bevendo un caffè da Spagnuolo venimmo avvicinati da un nostro coetaneo che si chiamava Giuvanno ‘a jastemma (così detto perché bestemmiava in continuazione, anche in discorsi religiosi).
Alla quarta bestemmia, in pochi minuti, una signora anziana che era presente ci disse: “Guagliù, basta cu’ ‘sti jastemme!”.  Continua a leggere

Il vero Raffaele Viviani

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Raffaele Viviani

Raffaele Viviani

Caro Maurizio ho letto il simpatico scritto del Signor Corrado di Martino sul falso Raffaele Viviani. Ebbene io ho conosciuto di persona il vero Viviani, il cui padre era amico di mio nonno, Luigi Suarato e lui stesso, Raffaele, amico di mia mamma, quasi coetanei.

Per quei casi della vita che ti portano a vivere lontano dalla tua città, io giovanotto lasciai Castellammare con i miei genitori moltissimi anni fa. Finita l’ultima guerra mondiale nel 1945 la vita incominciava a riprendere il suo ritmo nella normalità ed anche gli spettacoli teatrali quindi incominciavano a svolgersi regolarmente. Le varie compagnie teatrali ripresero i loro giri artistici portando gli spettacoli nelle varie città italiane.
Non ricordo bene se fosse il 1946 o 1947, a Torino dove vivevo con la mia famiglia, venne per una recita la compagnia del “vero” Raffaele Viviani. Appena mia mamma lo seppe volle che io l’accompagnassi a teatro per vedere il suo amico d’infanzia. Naturalmente l’accontentai e finita la commedia ci facemmo accompagnare nel camerino del commendatore.
Un uomo come me di più di 85 anni di avvenimenti ne ha vissuti; di momenti belli e brutti, tristi e gioiosi, allegri e malinconici ne ha passati, ma il ricordo di quell’incontro mi è rimasto indelebilmente stampato nel cuore e nel cervello per l’intensità delle emozioni che mi procurò.
Per capire quanto sto per descrivere bisogna sapere che da qualche anno Raffaele Viviani soffriva di una malattia che di li a poco lo avrebbe portato alla tomba e che mia mamma non lo vedeva da molti anni. Appena uno di fronte all’altro, negli occhi dell’uno e dell’altra, e sul volto dell’artista appena struccato e su quello di una donna matura lessi chiaramente quale emozioni e quali commozioni si erano impadroniti dei due in quel momento. Lui in piedi, al fondo di quel locale non molto ampio, fermo con le braccia aperte che preludeva ad un commosso abbraccio disse: “Gemmetè, comme si ancora bella! Comme staje?” E l’abbraccio che ne seguì è uno dei ricordi più belle e cari della mia vita. Prima, perché quel complimento che poteva apparire galante, ma che era espresso con sincera affettuosità, era rivolto a mia mamma. E poi perché in quel momento facevo la conoscenza di un grande artista. Un artista che (studiandolo più approfonditamente negli anni seguenti) ha sempre ben rappresentato la vita e l’anima di quel meraviglioso popolo dei disperati, dei poveri, dei lavoratori manuali, di muratori, di pescatori, di zingari e saltimbanchi; in poche parole, dei reietti dalla società. Ma non voglio dilungarmi sulla grandezza dell’artista e del poeta.
Voglio solo ricordare il grande nostro concittadino e quindi ringraziare il Signor Di Martino che me ne ha dato l’occasione. Quello era il “vero” RAFFAELE VIVIANI che ho conosciuto io.

                                                          Gigi Nocera

Il “salotto” di Castellammare (parte II)

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Il “salotto” di Castellammare

Nel mio precedente ricordo ho descritto le serate in Villa Comunale quando c’era il concorso delle Bande Musicali che si alternavano sulla bellissima Cassa armonica. Ma ciò si verificava appunto soltanto in quelle occasioni. Quindi non era sempre così.
In Villa gli adulti si radunavano anche per trovarsi, per parlare della propria famiglia, dei propri… guai, di politica e, perchè no, pettegolare.
I gruppetti di amici e parenti si davano appuntamento quasi sempre a ‘o viale ‘e miezo.
Ma incontrarsi in quella folla era molto difficile, si ricorreva quindi ad un espediente ingegnoso, semplice e caratteristico, frutto proprio della fantasia partenopea: un fischio! Ma non un fischio qualsiasi, banale, no. Ogni gruppo di parenti o amici modulava questo sibilare in modo del tutto particolare e personale. Quel modo originale di cercarsi raggiungeva sempre il suo scopo. Difatti il destinatario, o i destinatari, di quel richiamo rispondeva allo stesso modo e a quel punto ci si individuava facilmente anche fra la ressa. Ricordo che mio padre e i suoi fratelli si incontravano il sabato e alla domenica con il seguito dei figli più grandicelli. Raramente erano presenti anche le mogli; quelle povere donne rimanevano in casa ad accudire i marmocchi più piccoli, quelli non ancora in grado di una sia pur limitata autonomia. In ogni famiglia i figli non erano meno di tre o quattro, e le nascite avvenivano sempre in serie, uno dietro l’altra, in modo che quelle povere madri non avevano mai un periodo di riposo, di svago.
I ragazzi che seguivano i padri in Villa scorazzavano, giocando, per quei viali polverosi sgattaiolando fra le gambe dei presenti, inutilmente inseguiti dai richiami e dalle raccomandazioni dei genitori. Durante questo lento pendolare dalla Cassa armonica alla banchina e zi’ Catiello le soste erano frequenti, e servivano a rafforzare, a precisare, anche con i gesti, i concetti che in quel momento si stavano esponendo.
Come credo di aver detto in altra sede, mio zio Luigi, detto cientemosse, in queste pantomime era insuperabile: si dimenava come una marionetta disarticolata, muoveva braccia, gambe, chinava il busto avanti e indietro, strabuzzava gli occhi, si dimenava con tutto il corpo, improvvisava una specie di balletto; un vero spettacolo! Un altro personaggio che quasi gli stava alla pari nell’improvvisare questa disarmonica danza era Geretiello ‘o casaiuolo, molto conosciuto nel rione di Santa Caterina.
I ragazzi invece vivevano un altro genere di trastullo. Mentre per gli adulti, nel mezzo della loro passeggiata, un caffè o un gelato da Spagnuolo erano di prammatica, l’irresistibile esca dei ragazzini erano le bancarelle che vendevano dolciumi e che erano addobbate con fiori e luci multicolori. Qui si vendevano franfellicche, lenghe ‘e Menelik e leccornie varie. Per noi bambini poi lo spettacolo più interessante era vedere come il franfelliccaro creava il suo prodotto, ovvero come nascevano i franfellicche. Da una pentola veniva estratta ancora calda una massa gommosa di zucchero, che veniva appesa ad un chiodo rampino e poi assottigliata, in diverse riprese, riappendendola ogni volta a quel chiodo. Fino a che non era ridotta sottile come un dito e tagliata poi in pezzi di varia lunghezza. Qualche volta, durante la cottura di questo zucchero, venivano versati nella pentola dei coloranti in modo che i bastoncini di franfellicche risultavano striati da diversi colori.

Il "salotto" di Castellammare: franfelliccaro

Il “salotto” di Castellammare: franfelliccaro

La stampa antica riprodotta, dà una certa idea di quanto ho cercato di descrivere.Molte volte l’andirivieni degli adulti e i giochi dei bambini venivano interrotti da una pioggia improvvisa. E tutte le volte il commento era sempre lo stesso: “E’ ‘a trupéa d’‘e cerase”. Ancora adesso non so di preciso cosa vuol dire trupéa.Ma il vero significato della frase è ben spiegato dallo storico e glottologo del dialetto napoletano Renato de Falco: “Improvviso acquazzone, l’inaspettato temporale che spesso si materializza in concomitanza della maturazione delle ciliegie, anticipandone la raccolta.”In tali occasioni era un fuggi fuggi generale e per ritrovarsi era un aggrovigliato e urlato richiamo che si intrecciava fra genitori e figli: “Giggì’, Salvatò’, Gennarì’, addò staie?!”. Ed era un correre affannoso sotto i portoni delle case della zona e nei locali di Spagnuolo. Questa sosta però non durava molto: la pioggia come velocemente era arrivata così sveltamente cessava. Intanto però aveva scombinato i discorsi, gli incontri, la passeggiata, le chiacchiere, e, quel che per noi era più importante, aveva interrotto i nostri giochi, le nostre corse, lasciandoci qualche volta con l’acquolina in bocca per il mancato acquisto dei franfellicche.

Il “salotto” di Castellammare (parte I)

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Breve premessa dell’autore:

Caro Maurizio, quale ricordo della mia recente visita a Castellammare, ho scritto queste brevi memorie. Ho riportato anche una bella poesia di Eduardo che mi sembra inerente al tema. Se ritieni che il tutto possa interessare i lettori del Libero Ricercatore puoi pubblicare…
Un abbraccio e un saluto a tutti gli amici che ho incontrato recentemente in quel di Stabia, ed a te in particolare. Gigi Nocera

villa  comunale

villa comunale

Un tempo i maggiorenti delle città (il notaio, il medico condotto, il farmacista, il delegato governativo, che era una specie di commissario di P.S., ecc.) si trovavano periodicamente a casa dell’uno o dell’altro, alternativamente. Parlavano di politica, dei fatti più importanti accaduti in città, pettegolavano… Figurativamente si diceva che facevano “salotto”, dal nome della stanza in cui avvenivano questi incontri. In molte di queste dimore a volte esisteva anche un pianoforte e quindi si faceva anche musica. Normalmente a deliziare le orecchie dei convenuti era la padrona di casa. Il “salotto” di Castellammare invece era la Villa Comunale. Ma lì convenivano i componenti di tutti gli strati sociali, non soltanto la borghesia. Lì si incontrava il bottegaio, l’impiegato, l’operaio, ma anche il medico, il notaio, ecc.; bastava avere voglia di vedere un amico, un parente, un conoscente: la Villa era il luogo principale deputato a questi incontri. Qui, oltretutto, nelle sere d’estate si godeva della frescura originata dalla brezza marina mescolata al profumo delle foglie di quei maestosi platani. I rami di questi alberi, imponenti e folti, intrecciati gli uni agli altri, con le loro grandi foglie formavano una galleria naturale. Questo tunnel di verde era percorso continuamente da migliaia di concittadini intenti a commentare i fatti del giorno: propri e degli altri; parlavano di politica, pettegolavano… Proprio come in quei “salotti bene” di cui sopra. E si faceva anche musica! Eh si! Alcune serate della lunga estate stabiese erano dedicate ai concorsi tra bande musicali. Quasi tutti i complessi provenivano dalle città dell’Italia Meridionale. In quei tempi il Comune di Castellammare disponeva di un discreto complesso musicale che partecipava a queste gare di bravura. Ma nulla poteva contro certe bande veramente brave e che erano conosciute anche in campo nazionale. Ne ricordo molto bene una in particolare, che proveniva da un paese della Puglia: Acquaviva delle Fonti. Ricordo molto bene anche il nome del Maestro che la dirigeva; si chiamava Caravaglios. Chi mi legge si può domandare: “Ma come fa questo qui a ricordarsi di certi particolari?” Chi ha avuto la bontà e la pazienza di leggere qualche mio precedente “ricordo”, benevolmente riportato su questo sito, sa che io sono sempre stato un fanciu/giovane molto curioso. Tutto mi interessava, tutto volevo sapere, tutto mi incuriosiva. E del resto come non può incuriosire un tale cognome: CARAVAGLIOS? Dalla mente di un giovane attento e curioso un nome siffatto difficilmente viene cancellato. Dunque dicevo: questi concorsi li vinceva quasi sempre questa banda musicale. Quando i complessi iniziavano a suonare i loro brani, l’incessante via vai dei concittadini subiva una pausa e molti dei presenti si accalcavano attorno alla Cassa Armonica attenti e concentrati nell’ascoltare e poi valutare. Gli altri, più indietro, nel “viale ‘e miezo”, anch’essi sostavano ad ascoltare. La conclusione del pezzo musicale eseguito era accolto da un applauso più o meno convinto secondo la bravura del complesso. Il programma musicale della serata era visibile alla sommità di una sagomata colonna d’acciaio istoriata con scanalature e fregi. All’apice di questa colonna vi era la riproduzione di una lira, quello strumento antico usato nel Medio Oriente e nella Grecia antica. Un incaricato del Comune aveva l’incarico di inserire nella sagoma di quella lira dei cartoncini rettangolari dove era presentato il programma che avrebbe eseguito la banda. Questa colonna si trovava adiacente al recinto esterno del Bar Spagnuolo, presso il quale, durante l’intervallo fra un brano e l’altro, “i grandi” andavano a gustarsi un buon caffè o un gelato, mentre “‘e piccerilli” davano l’assalto a quelle bancarelle illuminate da lampadine multicolore che vendevano caramelle, “franfellicche” e “lengua ‘e menelicco” e tante altre leccornie. In questi ultimi tempi, per pochi giorni, sono ritornato a rivedere la mia bella città. Ho notato molti, tanti, naturali e fatali cambiamenti rispetto ai tempi in cui ci ho vissuto io più di 70 anni fa. In Villa ho notato che molti di quei frondosi alberi non c’erano più, sostituiti da striminzite piante, rachitiche, tristi. Non sono uno specialista e quindi forse è fisiologico che dopo tanti anni anche gli alberi deperiscono. E vanno quindi sostituiti. Ma una soluzione più confacente alla bellezza e all’importanza del luogo non si poteva trovare? Fra questi tanti rifacimenti ho notato anche che la Villa è stata pavimentata con nuovi materiali. Quella terra battuta calpestata negli anni dai passi lenti di centinaia di migliaia di stabiesi non c’era più, sparita! Ed io mi sono immalinconito ancor di più nel ricordare tutti i giochi e le corse che avevo fatto lungo quegli ameni viali, inseguito dalle raccomandazioni dei miei cari genitori: “Gigi nu correre e nun te fa’ male”. E intanto le scarpette da bambino si impolveravano di quella terra che ora non sentivo più sotto i miei piedi…

‘A VILLA COMUNALE

( Eduardo De Filippo )

Ma ce sta sempe ‘a Villa Comunale
ch’ ‘e cugliàndere nterra, sparpagliate?
‘E sporte ch’ ‘e taralle nzuccarate,
‘a scalpella, ‘o ribotto… ‘e ffanno cchiù?

Chella funtan’ ‘e fierro mmiez’ ‘o ffrisco,
cu tre cannelle, e cu tre vaschetelle…
addò ferneva, fatto a varchetella,
‘o libro ‘e scola… mèna ancora, o no?

E chelli bancarelle culurate,
“ ‘e mammarelle d’ ‘o divertimento”,
ca vennèvan’ ‘a gioia ‘e nu mumento,
ca ‘e vvedive a nu miglio… stanno llà?

Sott’a n’albero… e mò chi se ricorda
addò steva e qual’era… na matina…
chiuveva n’acquarella fina fina…
( Guaglione me piacev’ ‘e m’ ‘a piglià ).

Truvaje pe terra nu cardillo muorto:
tenev’ ‘e pennezzolle grigie e d’oro…
cu ll’uocchie nchiuse pecchè pure lloro
nzerrano ll’uocchie quanno hanna murì.

E vedette chill’albere ca sotto,
mmiezz’ ‘e rràdeche, fatto a ccaserella,
ce steva n’archetiello a capannella…
nce mettett’ ‘o cardillo… Starrà llà?

Nu juorn’ ‘e chisto, quanno è maletiempo,
ca so sicuro e nun truvà a nisciuno,
me ne vac’ ‘jnt’ ‘a Villa. E a uno a uno
veco ll’ albere… ‘o vularria truvà.

E me voglio allungà fin’ ‘a funtana,
pe bevere a canniello, guliuso.
Si me rumman’ ‘a faccia e ‘o musso nfuso,
chell’acqua ‘a faccio scorrere… che fa?

Faccio abbedè ca vec’ ‘o tarallaro,
e m’accatt’ ‘o ribbotto, c’ ‘a scalpella.
Po’ me fermo vicin’ a tavulella
D’ ‘e ccaramelle svizzere e sciusciù.

Tutte chilli culure trasparente:
‘o nennillo, ‘a nennella, ‘o franfellicco…
E m’accatto na lengua e mnelicco
Pure si ‘a bancarella nun ce sta.

Soprannomi stabiesi

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Mio zio Luigi Nocera, che faceva il calafato nel cantiere navale, lo chiamavano Luigi “ciente mosse” perché quando parlava le sua parole erano illustrate da una gestualità pittoresca e caratteristica. Che cessava soltanto alla fine del suo dire. Io ero un bambinetto di 10/12 anni e vi assicuro che vederlo era un vero spettacolo. Naturalmente sto parlando degli anni precedenti l’ultima guerra e cioè nel 1930/1935.

Gigi Nocera