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Venditore fichi d’India (antichi mestieri)

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


Venditore di fichi d’India
( a cura di Gioacchino Ruocco )

Venditore fichi d'India

Ieri, al supermercato, tra la frutta in vendita, vicino al banco delle noci fresche, ho trovato anche i fichi d’India. C’erano confezioni da quattro fichi e da sei, per i più voraci. Dalle nostre parti questo frutto nel dialetto parlato è identificato con il nome di figurina. Negli anni vissuti in campagna, presso i nonni materni, nel periodo della sua maturazione ci attrezzavamo per asportare i frutti dalla pianta e consumarli a volontà anche se le raccomandazioni di evitare di farne un’indigestione sopravanzavano quelle di non rovinarci le mani con le spine che li rivestono, quasi a proteggerli contro l’ingordigia di noi ragazzi. Al di là dei semi contenuti al suo interno, che possono piacere o meno, la polpa, quando il frutto è maturo, risulta gustosissima.
Il ricordo delle piante dietro la casa di mia nonna è ancora vivo: le pale, come mani enormi cariche di doni, si protendevano nell’aria per inebriarsi al sole e come tutte le piante succulente, producono un lattice che è un toccasana contro le scottature e le irritazioni; rinfresca la pelle e quasi la rigenera.
Dopo la fine della guerra, col trasferimento definitivo alla casa natia di Vicolo Sorrentino a Mezzapietra, dove i miei abitavano dal giorno del loro matrimonio, la vita nel ritornare al suo tran tran naturale faceva affacciare anche nel vicolo i mestieranti della strada che portavano a domicilio il frutto delle loro iniziative praticate un giorno dopo l’altro per sbarcare in qualche modo il lunario.
Così un giorno vi si affacciarono anche quelli che vendevano i fichi d’india. Erano per lo più dei ragazzi che trascinavano su carrettini di legno che avevano per ruote cuscinetti a sfera, cassette di fichi d’india che vendevano sia singolarmente, sia ad “appizzare”, una sorta di acquisto/lotteria che consisteva nel far cadere il coltello verticalmente con la punta in avanti sopra i frutti deposti nella cassetta per prelevarne tutti quelli conficcati sempre che non si sfilavano dalla lama che doveva restare sempre e comunque perpendicolare alla cassetta. Le prestazioni erano diverse con costi diversi. Per un numero illimitato di “appizzate”, fino a quando l’ultimo frutto sollevato non si sganciava dal coltello, vi era un prezzo, oppure si pagava per il numero di colpi che si desiderava effettuare.
Il coltello era sempre di peso modesto, con la punta acuminata e a lama liscia, senza seghettature che potevano facilitare il cliente nell’asporto. Il coltello non sempre riusciva a penetrare nei frutti per cui il più delle volte si riusciva a prelevarne ben pochi. Quando non si riusciva a prenderne nemmeno uno il ragazzo ne offriva sempre qualcuno come consolazione per la perdita.
Quando invece le cose andavano a sfavore del venditore sorgevano animate discussione sul modo con il quale si era riusciti a sollevare il coltello dalla cassetta con i frutti infilzati. Le chiacchiere continuavano anche dopo quando il venditore usciva dal vicolo quasi sconfitto e si aspettava baldanzosi il prossimo per una nuova scorpacciata.
Il Paliotti nella sua storia a fascicoli della “Canzone Napoletana”, nel fascicolo n. 9, pubblica una stampa a colori di Pasquale Mattei del sec. XIX), ma il soggetto che vi è rappresentato, è lontano mille miglia da quelli che arrivavano nel mio vicolo, dalla loro vivacità e della loro furbizia.
Oggi, a distanza di tanti anni, debbo riconoscere che avevano un carattere eccezionale, una determinazione che il sottoscritto, invece, ha acquisito soltanto nell’età adulta e messa alla prova quando ormai era indispensabile ed ineluttabile.
Comunque i fichi d’india hanno sempre lo stesso fascino e lo stesso sapore, certo, oggi, arrivano in commercio emendati dalle spine e non devi prendere più tante precauzioni nel maneggiarli. Aprirli per consumarli e assaporarli è come aprire uno scrigno dove ci sono sogni che non ti danno requie.

Venditore di frutta secca e semi abbrustoliti (antichi mestieri)

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


Venditore ambulante di frutta secca e semi abbrustoliti
( a cura di Gioacchino Ruocco )

bancarella semi abbrustoliti

“‘O fummo… ‘o fummo…” il grido a voce stesa non importunava i passanti o quelli che percorrevano il lungomare avanti e indietro, ma erano gli umori che provenivano dall’involucro di latta nel quale venivano tostate le noccioline americane: spandendosi nell’aria a secondo dell’andamento della brezza investivano in maniera allettante le narici di quelli che si approssimavano al carrettino dove l’apparecchio era installato. ‘O fummo…. ‘o fummo… Non era quello delle sigarette, che pure se ne consumavano parecchie percorrendo e ripercorrendo il lungomare, ma quello che un nostro compaesano (che un giorno apparve sul lungomare come un fulmine a ciel sereno, quasi vicino alla cassa armonica con carrettino sul quale esponeva la sua mercanzia), produceva con la macchinetta che utilizzava per tostare gli arachidi, le cosiddette noccioline americane durante la fase di tostatura. Il piano del carrettino era organizzato in riquadri, realizzati con cantinelle di legno, in modo da separare un prodotto dall’altro. La frutta secca anch’essa in vendita, veniva protetta dalle mosche e dalla polvere con un velo bianco. I semi in vendita (tostati e semitostati) andavano dai pistacchi alle noccioline americane, dalle fave ai ceci, dai semi di zucca alle carrube, agli stecchi di liquirizia, dalle castagne secche o piste a quelle del prete, alle nocciole sgusciate, ecc. ecc., senza dimenticare i lupini e il cocco ‘mmunnato e buono” con tutti gli eccetera che possono ancora seguire. All’inizio si presentò con un banco modesto che venne modificato nel tempo per ospitare altri prodotti, l’ambulante che aveva una stazza superiore alla media, aveva i capelli leggermente ondulati che coprivano tutta la testa e lo rendevano più imponente di quello che in realtà era. La sua divisa da lavoro era un golf di lana a maniche lunghe che indossava su una camicia quasi sempre di colore chiaro, per difendersi dalle brezze della sera che nella postazione che ormai aveva conquistato assumevano un moto convettivo più veloce e si facevano sentire fino a pizzicare la pelle mettendo anche qualche brivido addosso. ‘O fummo…. ‘o fummo… Fino a che son rimasto a Castellammare, cioè a casa, in quanto non avevo ancora trovato un posto a terra (come uno del nautico era solito dire), lo ricordo nei pressi della cassa armonica o un po’ più avanti, quasi di fronte alla sede della Juve Stabia. Le chiacchiere ci riempivano la testa, come sanno bene i miei compaesani, come pure ha raccontato Michele Prisco nel romanzo “Figli difficili” ambientato nel dopo guerra a Castellammare di Stabia, ma i semi scalmando i morsi della fame rappresentavano un rifornimento assicurato che ritrovavi al ritorno (se ancora ne avevi voglia), utile ad alleggerire le tensioni che le parole inevitabilmente producevano senza una soluzione immediata al problema in discussione. I soldi erano ben spesi in quanto i prodotti erano sempre di giornata, mai una volta che c’era da scartare qualcosa e i prezzi modesti. Quel carrettino era diventato soggetto del paesaggio serale, dall’imbrunire a sera inoltrata e la domenica orario speciale e prolungato. Non ho mai saputo di che rione fosse: a fine serata scompariva nel buio della prima traversa come nel nulla. Da quando me ne partii non ho avuto più modo di passare una sera sul lungomare nonostante i miei ritorni e, quindi, non so se c’è ancora qualcuno che vende frutta secca e semi tostati gridando di tanto in tanto: “ ‘O fummo… ‘o fummo…”.
Sicuramente, oggi, la voce di richiamo dovrebbe essere diversa in quanto ‘o fummo richiama alla mente altri prodotti che “non sono mica noccioline”.

Tosacavallo (antichi mestieri)

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


‘o Tosacavallo
( a cura di Antonello Ferraro )

tosacavallo e maniscalco

Un antichissimo mestiere ormai scomparso dalla nostra Città è “‘o Tosacavallo”. L’ultima bottega rimasta a testimoniare questo spaccato di storia è all’angolo tra Vico Mantiello e Via Virgilio. Quest’artigiano aveva due importanti mansioni: di maniscalco, cioè colui che ferra gli zoccoli dei cavalli, e di tolettatore dell’animale. Ricordo ancora quest’omino che arroventava la piattina di ferro nel fuoco per poi batterla con forza sull’incudine (da qui l’espressione: mi trovo tra incudine e martello); il cavallo nel mentre attendeva legato ad un cerchio di ferro sul muro fuori della bottega. Seguiva poi una spuntatina alla criniera dell’animale. Con il trasporto su gomma, scompare non solo un mestiere, ma anche le romantiche carrozzelle che facevano da taxi nelle vie della città, le innumerevoli carrettelle con cui si trasportavano tutte le merci e l’elegantissimo trasporto funebre con il tiro ad otto. Oggi qualche artigiano ancora sopravvive, ma solo negli ippodromi.

Panzaruttaro

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


‘o Panzaruttaro
( a cura di Gioacchino Ruocco )

Già all’epoca dei romani c’era la consuetudine di consumare cibi per strada acquistandoli nelle botteghe sottocasa o posti sui decumani; peccato che a quei tempi dalle nostre parti si ignorasse ancora l’esistenza della patata (importata per la prima volta in Europa nel 1535, dallo spagnolo Francisco Pizarro, quando al suo rientro in patria da un viaggio in America, ne fece dono ai regnanti), un particolare questo che di certo ha negato ai nostri avi il piacere di degustare qualsiasi stuzzicheria a base di questo tubero.

cuoppetiello di frittura

Personalmente ho visto per la prima volta un panzaruttaro ambulante, all’età di dieci anni, quando i miei genitori mi permisero di andare a cinema assieme ai ragazzi più grandi che abitavano nel vicolo. All’uscita dell’allora cinema “Nazionale” dove avevamo assistito, credo, al film dal titolo “La cena delle beffe” con Amedeo Nazzari, l’odore del fritto mi attirò inevitabilmente perché era tardi pomeriggio ed incominciavo ad avere fame, “tenevo na lopa”, come si diceva allora, quando Mc Donalds non era ancora arrivato dalle nostre parti. Dietro al banchetto c’era un uomo che riduceva , di volta in volta, un impasto informe in piccole palle che poggiava su un panno bianco per dar loro, successivamente, la forma di sigari girandole velocemente tra le mani. Nella parte del banchetto vicino alle stanghe, che servivano per guidarlo nelle fasi di trasferimento, era alloggiata una caldaia in rame stagnato per la cottura del prodotto che non era l’unico, vista la varietà di cibi di strada presenti nel repertorio culinario napoletano, come le palle di riso, i carciofi fritti, la pizza fritta, gli scagliuozzi e le crocchette di patate, che noi in dialetto chiamiamo panzarotti senza dimenticare quelli che hanno la forma di mezza luna e vengono riempiti con mozzarella e pomodoro, ecc. Bastarono due di essi a calmare il borbottio dello stomaco anche perché il costo di ognuno di loro non mi consentiva di comprarne di più con i soldi che mi erano stati assegnati. Il carrettino poggiava su due ruote e su un puntale dalla parte delle stanghe, in modo da avere un assetto stabile in fase di fermo, in più presentava una copertura per proteggere il piano di lavoro contro la piaggia e dei ripiani vetrati che consentivano all’avventore di guardare il prodotto disponibile ma di non toccarlo: unica garanzia di igiene alimentare che all’epoca veniva offerta. Nelle mie escursioni saltuarie a Castellammare, l’ultima volta che mi è capitato di vederlo è stato una decina di anni fa. Di sera il carrettino veniva illuminato con una lampada ad acetilene che nel tempo lasciò, per la sua pericolosità esplosiva, il passo a quelle alimentate da GPL (gas di petrolio liquefatto). E’ vero che le perdite e le scomparse ci fanno recriminare contro il progresso o le norme che vietano la produzione di beni con le condizioni di igiene descritte, ma non ho mai saputo di qualcuno che abbia sofferto per i panzarotti così prodotti. I mestieri scomparsi nella pratica sono tanti, basta riandare alle pubblicazioni che ne trattano, fortunatamente per i golosi del fritto, questo mestierante ambulante è ancora attivo in diverse zone di Castellammare. La ricetta dei panzarotti (crocchette di patate) che ho rintracciato nell’Enciclopedia della donna (ed. Fabbri) e in altre pubblicazioni, prevede necessariamente le patate, il parmigiano, le uova, la noce moscata, sale quanto basta e olio per friggere. Le patate, le uova e il sale sicuramente c’erano nell’impasto di allora; il parmigiano e la noce moscata non credo proprio. Il pepe, estraneo alla ricetta, era sicuramente presente perché, profuso in abbondanza, dava fastidio allo stomaco. Il resto, nella mia prima volta, lo fece l’appetito, la fantasia e la temperatura calda del prodotto che fu divorato caldo, come raccomandava il panzaruttaro e l’autore del ricettario.

Lutammaro (antichi mestieri)

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


Lutammaro
( a cura di Maurizio Cuomo )

'o Lutammaro

‘o Lutammaro

Questo mestiere, oggi improponibile, trovava largo impiego in epoca rurale, quando veniva fatto un uso abituale di animali da traino (adatti per lavorare le vaste campagne), e di cavalli ed asini (utilizzati per il trasporto e la circolazione nelle strade cittadine). Il “Lutammaro” raccoglieva per strada, stalle e masserie gli escrementi animali ed in particolare la cosiddetta “Lutamma” (termine indicante la paglia infradiciata sotto gli “animali da stalla” mescolata con l’urina ed il loro stesso sterco), per rivenderla a basso costo, come concime ai contadini. L’evoluzione sociale, la tecnologia e soprattutto l’odierno utilizzo di concimi artificiali, hanno letteralmente estinto questo poverissimo e degradante mestiere.