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Un signore d’altri tempi

Un signore d’altri tempi
( con tutto l’affetto del mondo a Marta e Giovanna )

Durante la presentazione di un libro, appena terminate le ritualità: proiezione di un breve filmato, recensioni, motivazioni degli autori ed altro; giunse il momento di cedere la parola al pubblico intervenuto. Il grosso numero degli intervenuti faceva presagire una serata ricca di interesse e curiosità; ma come spesso capita in questi casi, il timore di parlare per primi assale anche gli spettatori più smaliziati, e accadde così che un silenzio imbarazzante si impadronì della folta platea. Con lo sguardo cercavo: amici, conoscenti miei e degli autori come ad interpretare il desiderio di parlare per primi, niente, mancava il coraggio un po’ a tutti. In quei pochi secondi, sembrava si stesse vanificando il lavoro di mesi, quand’ecco che un signore dall’aria molto distinta chiede alle assistenti di sala di porgergli il microfono; si presentò con garbo: “Mi chiamo Salvatore, sono nativo di questa splendida città e vorrei ringraziarvi per ciò che avete fatto; mi capita di vivere lontano da essa, ma quando posso torno ai miei luoghi preferiti, alla mia terra, che oggi più che mai ho rivissuto nelle vostre narrazioni.

L'assistente di sala, Sara Cesarano porge il microfono a Salvatore (foto Mimmo Longobardi)

L’assistente di sala, Sara Cesarano porge il microfono a Salvatore (foto Mimmo Longobardi)

Pensate che ho abitato a pochi metri dai posti mostrati nel filmato, e che ho conosciuto personalmente il fratello dell’autore del libro, grazie, davvero grazie”. Mentre si esprimeva, la sua emozione gli rendeva ancora più vivo lo sguardo da scugnizzo; un sorriso, come quelli di quando si parla di una cosa molto cara, lo illuminava, sembrò come se tutti ad ascoltarlo appassionato, si fossero ripresi da un torpore e trascinati dalla sua enfasi si resero conto di vivere in quel momento attimi di grande commozione, la commozione di chi non dimentica le sue origini, qualunque esse siano, la commozione di vivere ancora una volta un momento piacevole a casa propria. Concluse il suo intervento dicendo che mai avrebbe lasciato la sua Stabia e che era suo desiderio tornarci alla fine dei suoi giorni… Oggi, Salvatore riabbraccia Castellammare di Stabia, e noi tutti un caro amico.

Corrado di Martino.

 

Arguzie e facezie

Una persona a me cara che ho frequentato nell’infanzia, e anche in gioventú, trovava mille modi per scherzare; ed era solito farlo in ogni occasione, con tutte le persone che incontrava tranne con i musoni e quelli che lui chiamava semplicemente “chillu fetente”, … e questo non era uno scherzo, ma una cosa serissima! Con esse infatti era di poche parole.

Quest’uomo era mio padre. Giocava in tutti i modi: con i doppi sensi della lingua, con il calcolo aritmetico rapido, con i paradossi, con ogni sorta di paraustiello, con le abilità di prestidigitazione, con i facili trucchetti della fisica e della chimica che lasciano sbalorditi i semplici e fanno arrabbiare gli ignoranti, e anche con il gioco delle tre carte (ma questo solo in famiglia con noi ragazzi).
Ricordo che quando verso i quarant’anni, di botto, improvvisamente smise definitivamente di fumare, continuava ad accettare -se qualcuno gliela offriva- la sigaretta. Poi al momento in cui l’amico avvicinava il cerino o l’accendino per accendergliela, facendo il gesto di mettersela nel taschino, gli diceva: Tu me l’hai offerta volentieri e io l’ho accettata di buon grado. Così siamo contenti tutt’e due. Ma non intendo fumare: come l’ho accettata, per dimostrarti che l’ho gradita, la conservo.

fumatore

fumatore

Sempre sulle sigarette – ma la situazione non muterebbe con qualsiasi altra cosa – quando – al tempo in cui fumava ancora – era lui a chiedere una sigaretta, come si fa tra amici nei momenti di necessità, a chi gli rispondeva: “Ma io ne ho una sola”, lui ribatteva: “Embe’! Io una te n’aggia dimandata. Se te ne avessi chieste due, avresti potuto dirmi: “Nun t’he pozzo ra’, pecché ddóje nun ‘e tengo. In quel caso avresti avuto ragione”.

Qualche volta chiedeva (per finta) di andarne a comprare un numero dispari di sigarette, mettiamo cinque. (Allora era possibile solo per certe marche piú vendute.) E diceva: “Fàttene dare metà col filtro e metà senza filtro”.
– “Ma com’è possibile?” gli rispondeva pronto il ragazzo, se era “nu guaglóne scetato”.
– “E che ci vuole? Ne prendi due col filtro e due senza filtro …”
– “Ma queste sono quattro!”
– “Sí. E la quinta la prendi: da un lato col filtro e dall’altro senza filtro”.

Luigi Casale

 

‘A pusteggia (…la musica è leggera e si fa pesante!)

‘A pusteggia
(…la musica è leggera e si fa pesante!)

Solo tardi ho appreso che lo stazionamento di musicanti con strumenti e con (o senza) altoparlanti nelle piazze, nei larghi, e nei vicoli della città, o nei cortili dei caseggiati delle zone a forte densità di popolazione, si chiamasse “’a pusteggia”. Fu quando la Newton-Compton cominciò a pubblicare alcune serie di tascabili a 1000 lire il volume, distribuiti nelle edicole con cadenza settimanale come i rotocalchi. Così nella primavera del 1995 fu distribuita la serie Napoli Tascabile. Di questi opuscoletti mi capitò di acquistarne qualcuno che è rimasto a casa mia, particolarmente letto. “I posteggiatori napoletani” di Mimmo Liguoro, giornalista RAI. Così ho scoperto quest’altro significato dei termini “posteggiatore” e “posteggia”.
I posteggiatori fino a quel momento, per me, erano i guardamacchine dei parcheggi pubblici (tecnicamente: incustoditi) di fatto custoditi da questo personale “volontario”: posteggiatori che in cambio del servizio chiedevano (e chiedono, ove resistono) un piccolo contributo. Mentre la “posteggia” era stata fin allora – per me e per i miei coetanei accomunati dalla stessa parlata gergale – la pratica del corteggiamento a tecnica stanziale: fare da “palo” restando sempre fisso o infisso nello stesso posto, davanti al portone o sotto al balcone della innamorata, la “fortunata”. O, in alternativa, l’attesa nel luogo fissato per l’appuntamento, dove impalato si aspettava il/la solito/a ritardatario/a di turno.
Quelli che a Napoli erano i “posteggiatori” nella nuova accezione, da noi in provincia erano chiamati concertini, cantanti, o musicanti ambulanti. Qualcuno li nominava anche “straccia-facenne”. Ma credo che la realtà poi al di là del nome, fosse la stessa, anche se noi “provinciali” dimostravamo di possedere un lessico meno colorito e meno sofisticato di quelli della città. Forse, un’altra differenza era che i suonatori di Napoli – qui rimarco il “forse” – avevano più professionalità e forse più sicurezza economica per il mantenimento delle relative famiglia. Mentre da noi, in provincia, più che una prestazione artistica, o una manifestazione di folklore legata ad una tradizione locale, il gesto era percepito come forma di raccolta di elemosina, per non dire (in tono bonario) accattonaggio: occasione di incrementare le entrate che non erano mai sufficienti per chi non aveva altra fonte di reddito.
Questa attività restava comunque una occupazione straordinaria e provvisoria, che doveva durare giusto il tempo della disoccupazione. Specialmente negli anni del dopoguerra: in attesa di trovare un lavoro più sicuro. La provvisorietà legata all’evoluzione dei tempi comportò infatti, che la presenza del posteggiatore andò a ridursi da noi fino a scomparire nel periodo del boom economico. Dal 1946 fino a circa il 1960 si trattò di veri complessi canori, richiesti anche nelle ricorrenze e nelle feste di famiglia. Ma a mano a mano che si riducevano di numero, perché i componenti – musicisti o non musicisti – una volta inseriti nel mondo del lavoro, quello normale, lasciavano l’attività, i pochi posteggiatori superstiti, da soli o in coppia, erano sempre quelli più approssimativi sul versante delle prestazioni “artistiche”.

'a pusteggia

‘a pusteggia

Sicché agli inizi degli anni ’70 a Torre Annunziata era rimasta una sola coppia, che in maniera itinerante – senza più “posteggia” (la scelta di posti fissi [‘o posto], da cui il nome), chitarra e tamburino, giravano per le strade della città – ma anche nei centri confinanti – a chiedere l’elemosina. Non ricordo più se i loro strumenti producessero delle vere melodie o si limitassero esclusivamente a ripetere ritmi monotoni, noiose tiritere, percussioni inutili stordanti e ridondanti, sempre costanti nella loro circolarità, con qualche semplice variazione di crescendo e qualche voluta in chiusura.

“Nicola e Polichetti”, questo il nome del “complesso strumentale”, erano i nostri beniamini. Finché gli diventammo amici. E se Nicola, seppure con qualche dubbio, poteva sembrare il nome del personaggio, Polichetti – pochi sapevano che era un cognome – era ritenuto universalmente un soprannome. Comunque il “duo canoro”, pur non avendo fatta troppa fatica a sceglierselo, si ritrovarono un bel nome d’arte, proprio da professionisti per essere un complesso musicale; il quale si esprimeva però in un contesto di amicizia quando non era addirittura di compassione.
Alla fine anche Nicola trovò un lavoro, saltuario, a giornate, da muratore. E Polichetti restò solo a svolgere la raccolta delle offerte, e continuò a girare per la questua.
Probabilmente cercava di mantenere quel minimo di continuità (il mercato, come si dice oggi) per far sì che nelle giornate in cui Nicola non era chiamato a lavorare, entrambi, riprendessero senza troppe difficoltà la normale attività da essi abitualmente svolta prima. Mantenevano la piazza, insomma cercavano di conservare la clientela: ora che il loro esercizio era avviato cercavano di reggere il mercato.
Ciononostante, non è che le condizioni economiche migliorassero molto.
Eppure c’era un aspetto che rivelava la stretta solidarietà dei due, la piena ed equa ripartizione del ricavato, una condivisione senza riserve e senza alcuna clausola contrattuale. Nicola sul cantiere, e Polichetti in giro per le strade col suo tamburo a raccogliere l’elemosina. E che di elemosina si trattasse lo rendeva evidente il fatto che le persone neppure ascoltavano più il ritmo del tamburo, orfano della chitarra, che era divenuto esclusivamente un vero e proprio richiamo, e rottura … di timpani. Il povero Polichetti faceva quello che poteva. Strimpellava, o meglio percuoteva, al ritmo di marcetta, tambureggiando. E raccoglieva quello che gli offrivano. Ma mentre il guadagno di Nicola in qualche modo era noto, e in un certo senso maggiormente controllabile anche se era ancora senza busta-paga (e chi t’a ra?), il ricavato di Polichetti era completamente aleatorio, instabile, incostante, senza nessuna possibilità di previsione. Ciò dava sconforto al povero Polichetti: sconforto anche che si potesse dubitare della sua lealtà, talché lo portava talvolta a rinunciare al suo giro. D’altra parte questo fatto – non che egli dubitasse dell’onestà dell’amico (e della sua fiducia), più che di un socio – metteva Nicola nella condizione di sospettare che Polichetti rientrasse dalla questua in anticipo, sfiduciato dal modesto raccolto.
Allora d’accordo, com’erano sempre stati in tutto, decisero di fare uscire Polichetti col tamburo sui fianchi, legato nella vita da una catenella di ottone, fissata con un lucchetto, la cui chiave era custodita da Nicola. Nessuno stupore per le persone che lo incontravano durante il servizio. Molti neppure si accorgevano della novità. Altri pensavano che fosse per avere le mani libere onde governare più comodamente le bacchette che roteavano libere nell’aria, o, anche, per dare semplicemente stabilità al tamburo.
I due soci continuarono ad essere amici indivisibili, anche se uno aveva famiglia e l’altro era scapolo. Chi non li conosceva personalmente li pensava addirittura cognati, perché solo la presenza di una donna forte, economa, legata a entrambi da una comune sorte, poteva più facilmente spiegare la perfetta riuscita di quel sodalizio.
La sera, dopo il rientro dell’uno e dell’altro dai rispettivi “lavori”, liberato Polichetti dal tamburo che lo aveva obbligato l’intera giornata, controllato l’incasso, si recavano al bar del dopolavoro ferroviario, per un caffè o una cioccolata, due chiacchiere e una partita a carte. Non so per quanto tempo durò questo comportamento. Intanto anch’io cominciai a lavorare, e li persi di vista. Ma ricordo che negli ultimi tempi, quando di sera venivano al bar del dopolavoro, a chi gli chiedesse come era andata la questua quel giorno, Polichetti, purché si trattasse di amici e che la domanda fosse formulata seriamente e senza intenti canzonatori (sfottò), rispondeva: “Beh! ‘A musica è leggera, e si fa pesante…”

Luigi Casale

Escursione al Faito ( con fuga, caduta e lieto fine )

Escursione al Faito
( con fuga, caduta e lieto fine )

escursione faito

escursione faito

Visto che sul sito c’è una sezione dedicata agli escursionisti ed io ero uno di questi, voglio raccontarvi dell’esperienza che vissi da giovane sul MONTE Faito.
Dunque. Ci recammo a piedi sul Faito. Poteva essere il 1975 credo. Eravamo io, Peppe Guarracino, Giovanni Caliendi, la buonanima di Mario Vascuotti e l’intramontabile Gennarino ‘a fune, così da noi soprannominato per la sua particolare predilezione all’uso della corda (il fratello, Luigi, lavorava alla Corderia!). Arrivati in cima, e preso un caffè nella piazzetta della Funivia, ci recammo verso il “Molare”, ma dopo poco, su un sentiero poco battuto dai viandanti, venimmo inseguiti da un uomo inferocito con un rastrello in mano: avevamo invaso il terreno di Pasquale Limolo (vicano noto all’epoca per il suo carattere burbero, che noi, presi dall’orgoglio stabiese, apostrofammo così: “Vicaiuòòòòò!”, ahahaha, che ricordi!).
Perché dico ciò? Perché durante la fuga, Giovanni cadde in una scarpata di pochi metri. Noi dicemmo cose del tipo “Giuvà, aizete, ca nun t’he fatte niente!”.
Anche perché nel frattempo Pasquale Limolo aveva desistito dall’inseguirci. Ebbene, non ci crederai, ma all’interno della scarpata, insieme a Giovanni dolorante e impossibilitato ad alzarsi, c’era un lupo (o almeno a noi così parve!), che era giunto da un altro passaggio dal basso.
Forse era un cane feroce, ma era davvero spaventoso. Peppe scappò. Ancora oggi, quando lo vedo in villa la mattina, gli ricordo l’accaduto e lui mi guarda con quello sguardo enigmatico e mi dice: “Catié, tiene sempe ‘na capa ‘e merda!” (scusatemi l’espressione).
Rimanemmo io, Mario e Gennarino, il quale calò la fune (che una volta tanto serviva!).
Giovanni piangeva dalla paura. Tra l’altro lui era un ragazzo! Non riusciva ad afferrare la fune. Io mi appellai ai Santi a cui ero devoto, mentre la buonanima di Mario cercava di chiamare aiuto, ma si rese ben presto conto che nessuno lo avrebbe soccorso.
Ad un tratto Mario ebbe il colpo di genio. Si calò nella scarpata e lanciò, come ultimo gesto, i biscotti di Castellammare che aveva con sé a titolo di merenda al cane lupo. Quello se li mangiò! E’ proprio il caso di dire che Stabia salvò il povero Giovannino da una mozzicata sicura! Dopo, tiratolo fuori, prendemmo anche in giro il cane, chiamandolo vicaiuolo!
Ed è così che si concluse questa vicenda. Stabia è grande!

Catello Graziuso de’Marini

P.S.: vi scriverò ancora, per raccontarvi ciò che mi ricordo. Ormai sono pensionato, e coccheruno m’hadda suppurtà!

 

 

     

Bello abbronzato

Bello abbronzato
( Dedicato a tutti gli stabiesi anche se adottati )

San Catello

San Catello

Che bella giornata! Oggi è proprio una bella giornata! Il sole caldo si fa sentire sulle gote infreddolite dei bambini in festa. Luminoso per chi vuol vedere, distante dalla terra come a curarsi poco delle vicende umane, mentre è assiso fra timide nuvole, sornione, lancia uno sguardo verso la Cattedrale. Oggi è la festività del Santo Patrono, tutta la città sembra svegliarsi dai torpori dell’inverno, per salutare con lui la prima o l’ultima festa dell’anno dipende dai punti di vista.
Ho deciso! Oggi vado alla processione, senza macchina fotografica, senza telefonino, senza alcun elemento tecnologico che possa distrarmi. Voglio dedicare la mattinata alle “facce” della festa, ai suoni, ai colori, ai “rumori della festa” rumors li chiamano gli inglesi, e forse sarebbe il termine più esatto da adoperare.
La banda, meno colorata che d’estate, è sempre la stessa da qualche anno a questa parte, una strana giacca color caffélatte non si addice a mio avviso alla cerimonia, e svaluta la bellezza della biondina che suona l’ottavino, ma va bene lo stesso; il basso tuba protesta perché a furia di camminare e, sempre davanti al corteo, non è riuscito ancora a vedere la statua del Santo (è stabiese, nonostante il gruppo bandistico sia di Casola), ci tiene tanto.
In breve ci sono tutti, proprio tutti, almeno ad inizio processione: il Vescovo, persona saggia e di principio; il Sindaco, persona di principio anche lui; tanti sacerdoti; e buona parte delle congreghe cittadine, insomma l’intera Curia e l’intera rappresentanza politico-amministrativa della Città.
Il Santo è accompagnato! I portatori, come sempre fanno il loro dovere, ce n’è uno dai capelli lunghi che ancora non ha la divisa classica dei portatori, ma va bene lo stesso.
Il corteo di fedeli arriva alle porte del centro antico, via Bonito affida a via Caio Duilio: Santo e i fedeli tutti; mi pare di intravedere Giulio Golia delle Jene, ma va bene lo stesso.
I cantieri navali, con un sparutissima rappresentanza ad accogliere il Santo, danno il senso del dramma profondo che sta vivendo questa cittadina.
Un palco allestito per le autorità accoglie il Vescovo, Monsignor Felice Cece e il Primo Cittadino Senatore Luigi Bobbio.
Il primo, narra l’innocente stratagemma col quale convinse Papa Giovanni Paolo II a far visita alla Curia: – Santità a Castellammare ci sono i cantieri navali, e Sua Santità batté il pugno sul tavolo e disse a San Giuseppe sarà un’ottima occasione per festeggiare la giornata con i lavoratori di Stabia -.
Il secondo, (bello, abbronzato, elegante, chiuso nel suo cappotto blu, con gli occhiali da sole e la fascia tricolore, contornato da paggi, valletti e adulatori), generoso, mentre si concede a fotografi e cameraman, accorsi numerosi per l’occasione, tace!
Il Vescovo benedice tutti i presenti, anche me (che credetemi non lo merito proprio) e si va, il corteo riprende il suo lento incedere per via Brin. San Catello a vederlo da lontano, per l’effetto dei passi di chi lo sorregge, sembra ondeggiare, l’ondeggiamento all’altezza dell’ “ingresso operai” delle Vecchie Terme si ferma, il Santo e i portatori fanno una prima sosta.
L’ondeggiamento riprende, il Santo si muove. Si fermerà non si fermerà, se ne andrà, non se ne andrà? Ancora poco e lo sapremo.
La banda intona “Cinesina” del maestro compositore Angelo Lamanna di Gioia del Colle (chi volesse ascoltarla, si renderà conto che atmosfera migliore non si poteva creare), il Santo ondeggiante s’avanza, davanti alla chiesetta di Santa Fara, come sempre, si ferma! La banda, come a voler sottolineare il momento, si tace; i flash dei fotografi impazziti, si rincorrono sui palazzi, sulla gente, su un balcone, i cameraman cercano la migliore prospettiva, qualche agente in borghese chiede timidamente ad uno degli operatori di procurargli una copia dell’intera processione (un fedele, un appassionato[?], non saprei dirlo); da un balcone, un fotografo (alto, capelli moderatamente lunghi, baffi e pizzetto) più spigliato degli altri, riprende un uomo malato in carrozzina che attende con trepidazione il passaggio della processione.
Lui, ormai, già non c’è più, un mormorio inizia a circolare, le radioline trasmittenti degli addetti all’ordine, lanciano la notizia fino all’inizio del corteo; la banda riprende festosa a suonare. Bello, abbronzato, cercasi… Primo Cittadino.
Riporto il commento rubato al volo ad uno sconosciuto: -‘N’atu poco e po’ fernesce ‘sta storia (non so riferire se tal signore alludesse alle drammatiche profezie dei Maya per il 2012, o ad una previsione tutta sua che non so interpretare).

Corrado di Martino.

 

P.S.: alla fine il Vescovo, uomo saggio e di principio, dalle gradinate della Cattedrale ringrazia tutti i fedeli e i portatori; senza i quali la processione non si potrebbe fare. Paggi, valletti e adulatori, dai balconi di Palazzo Farnese, malinconici guardano il Santo rientrare in Cattedrale.Sarò grato a quanti mi leggeranno, se non coloriranno politicamente questo breve articoletto. Oddio, ho le mie idee politiche, ma faccio di tutto per evitare che adombrino i miei pensieri.