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Pillole di cultura: Pulcella

a cura del prof. Luigi Casale

È difficile per un parlante napoletano mantenere la pronuncia della prima “l” nella parola “pulcella”. Come è difficile far pronunciare la r ai cinesi. Allora la parola pulcella alla distanza diviene purcella, e se poi – perdendosene il significato – la lingua si fa opaca, la parola impropriamente viene applicata anche al maschietto che in maniera vezzeggiativo viene detto purciello. Il purciello, crescendo, viene chiamato scherzosamente puorco. Da qui il termine ritorna ad estendersi anche alle fanciulle e diventa porca. Almeno così succedeva nella mia famiglia. Per cui puorco, porca, purciello e purcella erano dei temini affettivi che confidenzialmente i genitori riservavano a tutti noi, specialmente quando dimostravamo sagacia, intelligenza e simpatia.
L’enigma di questo che sembrava un paradosso linguistico solo tardi ce lo svelò zia Rosa, fornendoci la chiave di lettura.
Pulcella (pron. Pulsela) altro non era che pulzella = giovane, vergine. Per cui il termine era indicato in maniera appropriato solo per le ragazze. In seguito l’uso l’aveva generalizzato e poi in qualche modo banalizzato in “porco o purciello”. Ora si capisce anche perché in casa nostra esso era sempre accettato come un complimento affettuoso.
Pulzella (o pulcella) come diminutivo deriva da pullus (pulla), che a sua volta è diminutivo di purus (o pura). Perciò va ad indicare la vergine.

Pillole di cultura: ‘a Putéca

a cura del prof. Luigi Casale

Il vocabolario ci dice che bottega viene dal latino apotheca, che è la stessa cosa – si dice calco –del greco apothéke. Che dipendesse dal greco lo si vede in quella acca di “th”. Perché i latini avevano qualche difficoltà a produrre l’aspirazione. Si vedeva che erano parlanti latini, specialmente quando pronunciavano le parole greche. Allora presero l’abitudine di aggiungere la “h” alle parole scritte, in corrispondenza della consonante che doveva essere aspirata. Ma c’era sempre qualcuno che, come Totò, per non sfigurare metteva le “h” dappertutto, specialmente quando era di ritorno da un viaggio o da una missione in Grecia.
Dunque, possiamo riferirci direttamente alla parola greca apothéke (αποθήκη: manca ancora un segnetto sulla vocale iniziale, sulla α [alpha]; ma il mio PC, anche se mi fornisce ottimi servizi, non sa scrivere il greco antico). Il glorioso vocabolario mi indica: da από + τίθεμι [preposizione + verbo], dove apò (prep. di luogo, di tempo o di causa) è un preverbio, e tìthemi è il verbo che significa essenzialmente porre, collocare (vedi le parole italiane “tema” o “tesi”). Quindi, “collocare da parte”, tenere lontano, deporre (per accantonare, ma anche per custodire). Pensate alla farmacia dove si custodivano i veleni. A proposito, se passate dall’Alto Adige, oppure se andate in Austria o in Germania, la farmacia la trovate sotto l’insegna Apotheke. Ma questo gioco voi, amici di scuola media, già lo conoscete, perché usate le parole biblioteca, discoteca, enoteca (dove si custodisce il vino), e di questi tempi anche paninoteca (che brutta parola! Quanto era più dolce e saporita la nostra sana e buona puteca!). E poi leggete (o sentite parlare) – anche se non usate la parola – di teche. Le teche RAI, per esempio. In sagrestia, la teca delle reliquie del santo protettore, o la teca dove si depone l’ostia consacrata prima di richiuderla nel tabernacolo. Per custodirla.
Per oggi basta così. Solo una postilla e uno sconfinamento nella lingua francese. “Boutique” non vi sembra una cugina (voglio dire “appartenente alla stessa famiglia”), un calco insomma, di bottega?
Mentre il negozio in spagnolo è “tienda”. Ma di questo parleremo la prossima volta.

Pillole di cultura: Alla sanfrason

a cura del prof. Luigi Casale

E’ un modo di fare le cose. La parola è usata anche come appellativo o soprannome, nomignolo, (strangianomme) per indicare quelle persone dal fare disordinato che le cose le fanno “come vengono vengono”. Alla sanfrason, appunto.
Questa espressione mi era molto familiare perché la usava mia madre in molte circostanze, specialmente quando si riferiva a me e alle mie azioni.
Un giorno – ero adulto ormai – in Lussemburgo con un ragazzo di origini napoletane, sapendo io la gioia che egli provava nel sentire parlare la lingua dei suoi genitori, introdussi nel discorso questa tipica espressione “napoletana”. E non avevo fatto i conti che colui, appassionato del napoletano, oltre a parlare (bene!) l’italiano conosceva (bene!) l’inglese e il francese, e – discretamente – qualche altra lingua. Come se non avesse capito (bene!) – infatti non aveva capito bene, perché quella parola non era del suo codice – mi chiese di ripetere.
– “Come?”
– “Alla sanfrason!”. Dissi io, chiaro e ad alta voce, credendo di insegnargli una nuova espressione napoletana.
Dopo un attimo di incertezza, superata l’esitazione, scoppiò in una fragorosa risata. E mi disse: Si dice: “Sans façon. (leggi : sanfasòn)”
Letteralmente significa: Senza forma, senza maniere. Ma può valere anche: In maniera molto semplice; semplicemente.
Così imparai una cosa nuova. Di non fare lo sbruffone quando non si è sicuri delle cose che si dicono.
Ma ci volle quella “lezione”.

Pillole di cultura: Sant’Antuono

a cura del prof. Luigi Casale

Buongiorno! Oggi 17 gennaio, la liturgia fa memoria di S. Antonio Abate (napoletano: “Sant’Antuono”) da non confondere con S. Antonio da Padova (napoletano: “Sant’Antonio”). La diversa pronuncia del nome indica la diversa origine e la diversa epoca di formazione dell’uso del nome. Ma più semplicemente indica il comportamento “economicistico” del parlante, che di fronte a due soggetti con lo stesso nome, crea due segni del codice (due parole diverse) per distinguere le due realtà designate originariamente con la stessa parola.
“S. Antuono”, eremita e fondatore del monachesimo orientale, secondo la tradizione è protettore degli animali e protettore del (e dal) fuoco. In alcuni centri oggi è la giornata dei falò (come a Castellammare il giorno dell’Immacolata).
Con questa data in altri tempi si faceva iniziare il periodo del Carnevale.
La iconografia popolare lo rappresenta in mezzo, tra un piccolo maiale e un fuocherello acceso.
Quando in presenza del fuoco il vento ci porta folate di fumo ad offuscarci gli occhi, si prega S. Antuono, con l’espressione propiziatrice: “Fumm’allà e purciello a’ccà, fumm’allà e purciell’accà, fumm’allà e purciell’accà”.

“Luiggi”.

 

 

 

Pillole di cultura: ‘U tuocco

a cura del prof. Luigi Casale

Il tocco, o meglio “‘u tuocco”, è l’operazione di conteggio. Il “tirare a sorte”, attraverso la somma delle dita, che, a un dato segnale, i partecipanti al gioco mostrano aprendo, tutti contemporaneamente, la mano chiusa a pugno; per vedere “a chi tocca” … iniziare; oppure – in certi particolari giochi – a chi tocca pagare la pena (cioè, “andare sotto”).

L’alternativa al numero delle dita espresso dal cerchio dei partecipanti al gioco, è quella di proclamare ad alta voce una frase convenzionale; così, mentre si proclamano le sillabe utilizzate al posto delle unità, si individua attraverso il “tuocco” (il toccamento) dei giocatori in cerchio, la persona che deve iniziare. Cioè si vede, comunque, “a chi tocca”.

Per questo vi sono diverse formule: ognuno ha le sue filastrocche consegnate da tradizioni locali.

La differenza tra i numeri e le frasi, è che il numero è determinato in maniera estemporanea e aleatoria, e pertanto offre una maggiore garanzia di neutralità in quanto indeterminato e sconosciuto fino all’ultimo, mentre per chi della frase conosce già il numero delle sillabe è più facile barare pilotando la scelta. Basta sapere da chi iniziare il tuocco!

Ma anche coi i numeri, alcuni giocatori – molto svegli – sanno fare la stessa cosa, quando decidono arbitrariamente se dare alla conta il senso verso destra, oppure quello verso sinistra (“ … e rann’u schiaff’a Maronna”): fanno un rapido calcolo, e, giocando sui multipli del numero dei giocatori presenti, evitano che il “tuocco” vada a toccare proprio loro.

Quanto poi al discorso scientifico (quello più serioso) sulla etimologia della parola, gli Autori, risalendo ad una forma verbale presente nella parlata latina medievale (che spiega la presenza del verbo in tutte le lingue romanze) la giustificano come voce onomatopeica passata al altri ambiti semantici per effetto del fonosimbolismo. [Onomatopea – ne abbiamo già parlato – è il fenomeno per cui alcune parole (o espressioni linguistiche) riproducono, attraverso il suono dei fonemi che le compongono, il rumore dell’oggetto che esse rappresentano (il rumore del referente). Fonosimbolismo, invece, è la pratica comportamentale in base alla quale la comunità dei parlanti attribuisce a certe vocali, o a determinati fonemi, o alla ripetizione frequente di essi, un particolare effetto, inizialmente soggettivo, in seguito universalmente riconosciuto fino a diventare una componente semantica del prodotto linguistico, capace di andare al di là del puro piano connotativo].

Nel nostro caso l’etimologia della parola toccare partirebbe dalla radice (apofonica) monosillabica “tic-toc-tac” , che indicherebbe un colpo più o meno vicino, più o meno violento, quindi il “venire a contatto con qualche cosa di esterno”.

Allora, restando nel presupposto della presente teoria, nulla ci vieta di far rientrare tra tutte le parole originate da questa base semantica (onomatopeica o no!) anche il verbo latino tàngere (paradigma: tang-o, té-tig-i, tac-tum) che presenta proprio la radice apofonica “tac/tic/” (col valore zero di un ipotetico “toc”, subentrato in seguito in epoca medievale).

Chiedo venia al cortese lettore se mi permetto di eccedere nell’uso di termini tecnici: è l’unico modo per rendere agile e univoca la trattazione dell’argomento.

Le nuove parole della terminologia scientifica che talvolta sono costretto ad utilizzare sono sempre spiegate nelle brevi parentesi, quando esse non sono già presenti nella trattazione di lemmi già pubblicati.

                                                                                                                                               L.C.

P.S.: Curiosità. Tra le tante accezioni che trova la parola “toccare”, dovute a scivolamento di significato per metafora, ci sono : spagnolo “tocar” = suonare uno strumento musicale; e francese “toucher” = ricevere (lo stipendio): entrambe rese plausibili in qualche modo anche nella lingua italiana.
A voi il compito di trovarne altre in italiano!