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La radio… ed altro

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Quanto sto per dire ai giovani amici potrà sembrare incredibile, eppure è la pura verità. Le trasmissioni radio, in tutto il mondo, ebbero inizio all’incirca dopo il 1920 in modo molto precario. Dopo qualche anno in Italia chi ne intuì l’enorme importanza propagandistica fu il regime fascista. Infatti stava preparando le sue prime manifestazioni di facciata (vedi le prime trasvolate atlantiche nelle due Americhe dell’aviazione italiana) e le più concrete imprese belliche in Africa Orientale.

La radio

La radio

Comparvero i primi apparecchi radio il cui costo non era alla portata di tutte le famiglie. Se lo potevano permettere soltanto quelle che disponevano di discrete risorse economiche, quindi non gli operai del Cantiere ne gli artigiani. Mio nonno che non apparteneva a queste categorie ne comprò uno.
In quel periodo la mia famiglia abitava in via S. Caterina nello stesso stabile del nonno, ed io, sempre curioso, appena potevo mi recavo da lui “a sentire la radio”. La stessa era sempre accesa, da mattina a sera, ma nessuno l’ascoltava perché trasmetteva soltanto musica da camera e in quella famiglia non c’erano orecchie educate a sentire tale tipo di “melodie”. In sostanza questa musica era il sottofondo musicale dei lavori domestici svolto da mia nonna Catella. L’unico che vi prestava una qualche attenzione ero io. I notiziari veri e propri ebbero inizio con le prime avvisaglie relative alla guerra in Africa che si stava preparando.
Poiché i giornali li leggevano in pochi e, come detto, i possessori degli apparecchi radio non erano tanti, per far conoscere alla gran massa dei cittadini l’andamento delle imprese africane fu ideato un mezzo ingegnoso ed efficace. Ecco di cosa si trattava.
Nella nostra bella Villa comunale, all’altezza della banchina ‘e zì Catiello, fu installato in alto, fra le fronde degli alberi, un enorme pannello di legno proprio nel viale di mezzo (‘o viale ‘e miezo). Su questo cartellone era riprodotta in grande scala una carta geografica dell’Africa Orientale (Eritrea, Somalia e Abissinia) dove tutti i giorni venivano indicate con bandierine tricolori le località conquistate dai nostri soldati. E man mano che queste bandierine avanzavano in territorio nemico, l’entusiasmo della gente era quasi da paragonare al tifo che si fa adesso per le squadre di calcio. Essendo in primavera poi erano tanti i cittadini che recatisi in villa per un po’ di fresco si accalcavano sotto questo tabellone.
Per quanto riguarda le altre notizie di carattere generale che riguardavano i cittadini e la vita della città esse venivano portate a conoscenza della popolazione attraverso i manifesti affissi sui muri della città. Normalmente però la gente era interessata maggiormente ai fatti che avvenivano nella via dove abitava, nel rione. Dei vicini di casa, di ciò che avveniva nel rione tutti sapevano tutto.
Le famiglie si confidavano le pene e le gioie. Si pettegolava anche, si facevano delle maldicenze, ma, viva Dio! Quando c’era da darsi una mano questa non mancava mai. A tale proposito voglio raccontare un fatto cui inizialmente fui un testimone diretto.
All’età di 11 anni, nel 1934, mi ammalai gravemente di tifo. Avevo la febbre altissima, a volte deliravo. Le vicine di casa e del rione erano sempre a casa mia a confortare mia madre per portare sollievo alla sua angoscia. Alcune preparavano a volte anche un piatto di spaghetti, di pasta e fagioli, sempre per “dare una mano”. Mentre mi vegliavano queste donne naturalmente parlavano del più e del meno e un giorno, pensando che io stessi dormendo, si confidarono che una certa signora abitante in un vicino palazzo aveva l’amante. Non volendo quindi appresi una notizia abbastanza delicata. Ebbene a questa signora fedifraga non mancò il conforto la solidarietà e l’aiuto delle stesse “commarelle”, quando qualche tempo dopo il marito morì a causa di un terribile incidente sul lavoro lasciandola sola e con 4/5 figli da mantenere. La solidarietà tra poveri non era soltanto un modo di dire.
Oggi con radio, televisioni, internet e tante altre fonti di informazioni siamo sommersi da notizie di tutti i generi. Crediamo di sapere molte cose del mondo, ma non sappiamo come sta di salute il nostro vicino. Sul pianerottolo di casa ci sentiamo già in territorio nemico. E’ vero, cerchiamo di lavarci la coscienza con l’adozione di un bambino a distanza. Ma forse lo facciamo proprio perché è distante. Non ci accorgiamo invece (anzi qualche volta ci infastidisce) di quell’altro bimbo che per la strada ci tende la mano per una monetina.
Della notizie che i suddetti mezzi ci portano in casa da tutto il mondo poche ne restano nel nostro cuore e nella nostra mente: dobbiamo fare spazio alle altre che ci risommergeranno domani. Crediamo di sapere tutto, ma non sappiamo nulla perché niente tratteniamo.
Secondo me le nozioni che ci restano dentro e ci fanno crescere moralmente ed intellettualmente sono quelle che apprendiamo leggendo un bel libro. Ecco perché esorto i miei cari e giovani amici a leggere, a non stancarsi mai di leggere dei buoni libri: il loro contenuto è il nutrimento dell’animo.
Ora però mi accorgo che da un ricordo dei tempi lontani sono scivolato in considerazioni sociologiche d’accatto. Ai lettori di questo bel sito chiedo di scusarmi se ci riescono. Grazie.

Gigi Nocera

Raffaele Ragone

Invio (la prima di) due poesie su Castellammare, tratte da “La ruggine degli aghi”, Manni editore, 2012, di cui sono autore. Cari saluti.
Raffaele Ragone

Via delle Spese

DCF 1.0

Strada del Gesù (Francesco Filosa)

Fatta è di chiese
questa antica strada
che a me fanciullo
la vita dolce rese.
Via del Gesù
(oggi non so se fosse il vero nome)
era meglio chiamarla
via delle Spese,
perché ci compravamo
a mille lire il giorno
la nostra vita per un mese.
Al mare si scendeva
dal palazzo spuntatore,
che da case assopite
mandava al far del sole
l’intimo incerto odore.
Via del Gesù
per inattesi anfratti
si stendeva sconnessa
di pietre levigate
al nostro andare.
V’è rimasto, credo,
(ancora ne sento la voce)
l’ultimo banditore,
e di povere raganelle sventrate
ancora strazia il venditore
col suo secchio di morte.
Via delle Spese.
nei suoi portoni adesso,
mentre su ruote la riesploro,
nasconde lunghe attese
di fanciulli presi al gioco.
Non la lasciate, piccoli,
quella prima scintilla:
presto verrò a cercarvi
(sarò solo un fantasma),
ad implorarvi d’essere ancora,
io che vi ho tradito,
vostro compagno di fughe.

Per info e contatti sull’autore:
web: http://raffrag.wordpress.com/ – email: raffrag@gmail.com

Lello Nastro

Poetica stabiese

terra mia,
pura e trasparente
come l’acqua che scorre
dalle pendici scure
del forte monte,
affoghi i dispiaceri
nello specchio
bianco e giocondo
che lentamente danzando
richiama suoni
di tristezza e amor.

E sulla fortezza
da cui nome sorge,
cala l’ultimo raggio
del nuovo tiepido sol,
e in un sol momento
le pupille dall’orizzonte
si spostano lentamente
nelle vie del centro,
e il tocco aggraziato
della giovane sera
culla e addormenta
Stabia coi suoi figli,
tanti e diversi
sparsi come foglie
in ogni mite autunno
del nostro amato
golfo.

Catello Nastro

Caro Maurizio, non ho il piacere di conoscerti personalmente ma penso che, col tuo sito, hai creato un grosso veicolo culturale di comunicazione a distanza atto a rinverdire i ricordi del tempo passato in quanti, come me, hanno dovuto lasciare Castellammare da piccoli. Io l’ho lasciata il 21 ottobre del 1951. Mi congratulo, quindi, per la tua opera altamente meritevole e mi permetto inviarti due versi per ricordare il LARGO FUSCO ove ho trascorso la mia fanciullezza. Ti ringrazio per l’opportunità e cordialmente ti saluto.

Una vecchietta che si chiamava Italia

Quando nacqui, settanta anni fa,

al piano terra, nel vicolo Mantiello,

della città delle terme stabiane

e dei maestosi, prolifici Cantieri,

mi si fece incontro, lentamente,

all’inizio della vita in questa terra,

una vecchietta di ottant’anni,

lacera, rugosa, col volto martoriato,

coi segni inconfondibili

della truce, iniqua e disumana guerra.

“Sei capitato in un momento inopportuno,

tra gente armata fino ai denti,

che, come una squallida partita a carte,

devono decidere i vincitori ed i perdenti.

Ci saranno vedove, orfani, mutilati,

morti dissepolti dalla scoppio di granate,

donne vestite a lutto col volto triste e spento

rese sole da un odio antico in un momento.

Ti volevo portare almeno un tozzo di pane,

ma le mie ricerche sono risultate vane.

Un grande dono ti ho portato in quantità:

una sacchetto pieno di amore e d’Italiana Dignità”.

* * *

O Largo ‘e Fusco

Vulesse turnà n’ata vota,
cumm’a cinquant’anne fa,
quann’ero guagliunciello
e senza penziere campavo
rint’a ddoje stanze
arreta ‘a nu’ viculiello.

‘O Largo ‘e Fusco era ‘a scola,
‘a palestra, ‘o campo sportivo
e ‘o posto ‘e tutt’e noste attività,
e llà passavamo ‘a jurnata intera
senza penzà ‘a nisciuno e ‘a sera, ‘o scuro
turnavamo ‘a casa nosta pe’ ce ne jre ‘a cuccà.

Tann’ero nu’ scugnizzo ‘e miezz’a via
ca’ curreva libero pe’ vvie d’a città;
me bastava sulo na’ fella ‘e pane
e nu’ bicchiero d’Acqua ra’ Maronna
pe’ campà felice e senza penziere
e ‘o riesto… rimandà tutto ‘a ddimane.

Mo’ ca’ songo viecchio e ca’ nun servo cchiù,
pe’ riconoscenza ‘a fatica ch’aggio fatto,
l’anno rato pure l’onorificenza ‘e cavaliere,
ma quanno me vuard’arreta, sentite a me,
me vene ‘a chiedere si è meglio mo’
ca’ songo titolato o forse… stevo meglio ajere!!!

Maria Moreno

Le allego una poesia di mia madre, sul San Michele del Monte Faito, che se vuole può pubblicare sul suo sito. Affettuosamente. Lucia Amendola

San Michele

Ti mostri ad una svolta della strada

che sale tortuosa da Maiori

a Capo d’Orso, ed è fugace e dolce

la tua visione, o San Michele. Bianca

una nuvola lieve ti nasconde

al mio sguardo, che in ansia ti ricerca

là, dietro Conca. Un attimo: ma azzurra

una cara visione mi si accende

nel cuore; ancor rivive in me, custode

del sogno, la ridente ora solare

che mi abbagliò, mi folgorò, intessendo

di mia vita il destino, non rimpianto

pur nel dolore, San Michele! E serbi

anche tu quel ricordo? Freme in te,

nel tuo petroso giogo di dolomia,

quel meriggio dorato, tutto azzurro

nel cielo, e tutto sole nei barbagli

della tua pietra sterile, infocata?

Ricordi che salimmo la scaletta

rovinosa stringendoci in silenzio?

Tacevano le labbra. I nostri sguardi

si sfuggivano; ovunque era l’ardore,

l’abbaglio, il rogo estivo; e noi, bagnati

dal fresco rivo della santa grotta,

puri come quell’acqua, ascendevamo,

ascoltando il respiro dei sognanti

cuori, in attesa; e tacevamo assorti.

 Nulla dicemmo, ma la voce eterna

della natura palpitò per noi,

congiunse il vento estivo i nostri volti,

ci avvolse entrambi l’empito del sole.

E quando giunti in cima, ai nostri sguardi

si schiuse il mare, libero, fremente

carezzante le rive arcuate, i bei paesetti

sparsi sui pendii, gli scogli petrosi,

e l’infinito ampio ci apparve,

sentimmo che per sempre i nostri cuori

erano avvinti, e nulla più poteva

spezzarne il nodo: non vita, non morte.

                                                           (Amalfi, 1950)

* * *

Una poesia di mia madre scritta a Quisisana nel 1931. La saluto con affetto.
Lucia Amendola

Le Campanelle di San Giacomo

Campanelle lontane, risonanti

a Quisisana, nei meriggi estivi,

io vi risento nel mio cuore all’ora

che vi destava querule scroscianti,

…ed io

non ero sola nel silente viale,

unica vita no; ero sospiro

del tenue vento e figlia del meriggio

….

oh! perché non rapirmi in tanta estrema

comunione con te, natura estiva?

…..

perché serbarmi forse a tristi pianti

a crudeli risvegli, a inerti giorni?

                                         (Quisisana 1931)